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Questo appunto di Italiano presenta il percorso che ha condotto alla conquista del diritto al voto per le donne italiane, soffermandosi sui principali eventi e fornendo una descrizione del contesto in cui questa conquista si è realizzata, ovvero il Novecento, un secolo caratterizzato da una moltitudine di eventi storici e cambiamenti sociali che hanno profondamente rivoluzionato il mondo.

Il Diritto di voto alle donne, i presupposti storici e teorici alla base della richiesta

Il diritto al voto, che oggi è considerato come un diritto che spetta al cittadino, indipendente da caratteristiche personali quali sesso, religione, etnia, o credo politico, non sempre nella storia è stato inteso nello stesso modo; infatti, la conquista del diritto di voto universale, nella storia italiana, ha rappresentato una vera e propria battaglia delle donne per far valere i propri diritti civili e politici, in un’epoca in cui le disparità fra uomo e donna erano larghe ed evidenti in ogni ambito della società e della vita.
Negli Stati moderni il diritto di voto universale rappresenta la possibilità per tutti i cittadini maggiorenni di partecipare alle elezioni politiche e amministrative e di poter esprimere un proprio parere su questioni riguardanti l’intera comunità; infatti, nei moderni Stati democratici, i cittadini sono parte attiva del sistema politico, e il loro voto è necessario per eleggere i rappresentanti politici della nazione. I primi presupposti teorici che diedero vita a questo sentimento possono essere rintracciati negli scritti del pedagogista Rousseau, il quale tratta di temi quali la volontà collettiva e la rappresentanza politica. Il principio del suffragio universale è un concetto abbastanza recente, infatti, nella storia troviamo vari esempi di diritto al voto, ma solo in tempi recenti si parla di estensione di questo diritto anche alle donne. In Francia, durante la rivoluzione francese venne sancita per la prima volta l'uguaglianza di tutti gli uomini: questo era uno dei principi alla base della rivoluzione e la popolazione desiderava partecipare attivamente e con un grande sentimento nazionalistico alle questioni che riguardavano la Francia. Ciò si tradusse nella concessione del suffragio universale maschile, che però escludeva le donne, nonostante anche loro avessero partecipato al movimento rivoluzionario. Nel 1791, la scrittrice Olympe de Gouges decise di redigere la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” sostenendo che "La donna nasce libera e ha uguali diritti all’uomo" e reclamando il diritto di voto. Olympe, le cui idee erano in contrasto con quelle di Robespierre, finì ghigliottinata. Nonostante nell’Ottocento cominciasse ad affermarsi sempre di più il principio di uguaglianza, ciò riguardava quasi esclusivamente il genere maschile. Le donne, proprio a causa del loro sesso, continuavano a essere escluse dalla vita politica, non potendo né votare, né essere votate. In quell’epoca infatti, la subordinazione femminile era una parte fondamentale dell’ordine sociale, mentre gli uomini, considerati più dotati intellettualmente, si occupavano delle faccende circa la sfera pubblica, mentre le donne erano relegate all’ambito privato e domestico, sotto la tutela maschile. La concezione dominante era che la responsabilità di eleggere i propri governanti ricadeva esclusivamente su pochi uomini, ben istruiti e abituati ad amministrare le loro proprietà. Ma a partire dagli anni ’30 e ancor di più dagli anni ’60 dell’800, in Europa la questione iniziò a mutare. Fra gli Stati europei, il primo ad adottare il suffragio universale maschile fu l’Inghilterra nel 1865. In merito, John Stuart Mill, in un programma presentato agli elettori della Gran Bretagna, propose di estendere il diritto di voto anche alle donne. Nonostante il largo appoggio le donne non riuscirono ad ottenere il diritto di voto. In questo periodo cominciarono a diffondersi, a livello mondiale, i movimenti delle Suffragette, che rivendicavano non solo una partecipazione al governo, ma anche un miglioramento della condizione femminile, legata soprattutto alla questione dell'istruzione, spesso trascurata e considerata inutile, se non addirittura pericolosa. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 la costanza e la tenacia delle Suffragette diede i primi risultati. Nel 1893 la Nuova Zelanda fu il primo Paese al mondo a introdurre il suffragio universale, esteso ad uomini e donne.

Il Diritto di voto alle donne in Italia, le tappe del percorso

Il percorso che condusse all’universalità del voto in Italia iniziò dopo il Risorgimento, durante cui le donne cominciarono a rivendicare i loro diritti. Nel periodo preunitario le donne avevano sostenuto in vari modi il processo che aveva condotto all’unificazione degli Stati che componevano la penisola, e chiedevano al nuovo Stato italiano di essere considerate cittadine e che venissero accolti nella nuova legislazione ed estesi al territorio nazionale i diritti che alcuni stati preunitari avevano concesso alle donne. Infatti, in Lombardia durante il dominio austriaco, le donne benestanti e amministratrici dei propri beni potevano votare a livello locale attraverso un tutore, e in alcuni comuni potevano anche essere elette. Tale richiesta fu frenata nel 1866, con una legge che proibì il voto, allora solo amministrativo, che le donne toscane e lombardo-venete esercitavano. Iniziò, così, il lungo percorso per il riconoscimento delle donne come cittadine. Le suffragiste erano viste come rivoluzionarie, anche se legate a canoni tradizionali, in quanto chiedevano il diritto al voto in nome di una specificità femminile, come la maternità, che le rendeva il perno su cui si basava la famiglia. Tra il 1880 e il 1882 Agostino Depretis formulò due progetti che ammettevano il diritto di voto delle donne alle elezioni amministrative, purché queste pagassero le imposte. I progetti ricevettero grandi opposizioni sia dalla Destra che dalla Sinistra. Quando più tardi fu richiesto il suffragio “universalissimo” -esteso anche alle donne, fu proprio Depretis ad ostacolare la proposta affermando che: “La donna ha altri mezzi d’influenza e di azione assai più potenti del voto”. Anche in Italia, come in Inghilterra, le richieste furono respinte a causa della differenza biologica tra uomo e donna, a causa della presunzione dell’inettitudine femminile rispetto alla vita politica. In questo periodo di richieste, ma anche di lotta per l’emancipazione vi furono due figure di spicco: Anna Maria Mozzoni capostipite del femminismo italiano, e la socialista Anna Kuliscioff. L’istruzione obbligatoria, i diritti del campo della sanità, giustizia nel lavoro femminile e minorile, furono alcune delle battaglie che videro impegnate le due donne. Per la Mozzoni l’ignoranza, la variabilità del giudizio e la povertà erano fattori reali e limitanti che impedivano la partecipazione delle donne alla politica, e che bisognava risolvere modificando le leggi (permettendo alle donne di accedere all’istruzione superiore) e creando nuove istituzioni. La socialista Anna Kuliscioff mostrò come l’emancipazione dipendesse anche dalla rivendicazione della parità salariale. Di origine russa, era emigrata in Italia perché innamorata di Andrea Costa, il primo parlamentare socialista italiano. In seguito, ebbe una storia con Filippo Turati, tra i fondatori del Partito dei Lavoratori Italiani. Anna fu tenace nel combattere, e spesso portava avanti le sue idee da sola, nonostante si trovasse di fronte molti ostacoli. Molti uomini negavano l’estensione del voto alle donne a causa della loro ignoranza popolare, del loro analfabetismo, e dell’influenza che su di loro esercitava la Chiesa. Ma Anna controbatteva affermando che se le donne avessero ottenuto l’indipendenza economica attraverso un salario adeguato, avrebbero raggiunto la stessa dignità dell’uomo, e, dunque, avrebbero potuto avere spazio nella vita sociale e politica del Paese. Queste affermazioni le costarono l’arresto nel 1898 per “reato di opinione” e quando uscì di galera si ritrovò sola e abbandonata dal suo Partito.

Le prime difficili vittorie delle donne italiane

Con l’inizio del nuovo secolo (1900), nonostante le numerose proposte di legge, nulla cambiò. Questa posizione fu la stessa che mantenne Giolitti nel 1912, il quale durante una discussione elettorale affermò che concedere il voto alle donne avrebbe costituito un salto nel buio, poichè avrebbe potuto trasformare completamente la politica italiana, concludendo col dire che la riforma non doveva assolutamente avere luogo. Però, d’altro canto, lo stesso Giolitti approvò la legge n. 666, che concesse il diritto di voto a tutti i cittadini maschi di età superiore a trent’anni, senza badare al censo e all’istruzione. Invece, per quanto riguardava i maggiorenni al di sotto dei trent’anni, potevano votare coloro che avevano un certo livello d’istruzione e un determinato patrimonio. Una prima svolta si ebbe dopo la fine della Prima Guerra mondiale: nel 1919 si ebbe la soppressione dell’istituto dell’autorizzazione maritale, cioè fu concesso alle donne di compiere atti e prendere decisioni di carattere contrattuale senza l’autorizzazione del marito. Il 22 novembre 1925 Mussolini aveva esteso il diritto di voto alle donne, anche se solo in vista delle elezioni amministrative, dimostrando di non temere il loro voto, ma di appoggiarlo pienamente. Questa azione però fu solo demagogia, perché avendo instaurato la dittatura, l’elezione non avvenne in nessun comune o provincia, ma furono imposti governatori e potestà. Durante il secondo conflitto mondiale le donne conquistano un'autorevolezza mai riconosciuta prima. Tutte si mobilitano. Alcune furono direttamente impegnate nella resistenza armata: trasmettevano informazioni, usarono le armi e nascosero ebrei e partigiani. Il loro sostegno fu pari a quello fornito dagli uomini. Così, il 1 febbraio 1945, in un'Italia ancora parzialmente occupata dai nazisti a nord e invasa dagli angloamericani a sud, il governo presieduto da Ivanoe Bonomi decise di emanare, su proposta di De Gasperi e Togliatti, il decreto legislativo luogotenenziale n.23, che consentiva alle donne di poter votare. Da questo diritto erano escluse le minori di 21 anni e le prostitute. Solo con la Liberazione le donne conquisteranno il duplice diritto di eleggere ed essere elette a tutti i livelli. Il 10 marzo del 1946, le donne votarono alle prime elezioni amministrative per la ricostruzione dei comuni e circa 2.000 candidate conquistano un seggio nei nuovi consigli comunali. Per la prima volta nella storia due donne divennero sindaco. Ada Natali, a Massa Fermana, nelle Marche e Ninetta Bartoli, a Borutta, in Sardegna. Le prime elezioni politiche alle quali parteciparono le donne, svoltesi insieme al Referendum per la scelta tra monarchia e repubblica, furono quelle del 2 giugno 1946, in cui votarono anche per l’elezione dei rappresentanti dell’Assemblea costituente, col compito di redigere e discutere la nuova carta costituzionale italiana. Furono candidate all’assemblea Costituente 21 donne: 9 della Democrazia Cristiana, 9 del Partito Comunista, 2 del Partito Socialista e 1 dell’Uomo Qualunque. Erano 21 donne su 556 deputati, pari al 3,7% del totale. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova proposta di Costituzione.

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