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Sembrerà forse un paradosso, eppure la prima esperienza traumatica per un essere vivente è la nascita stessa. Quando un uomo viene al mondo, involontariamente si distacca dall’ambiente che fino ad allora l’ha ospitato. Ha così inizio la sua vita e, dunque, il processo di crescita fisica, psichica e personale: di anno in anno l’età aumenta e, insieme ad essa, si arricchisce il bagaglio di conoscenze acquisite e di vicende vissute.

Nel corso dell’esistenza una persona è chiamata spesso a separarsi da un qualcuno o da un qualcosa per svariati motivi: a tre anni ci si divide dall’ambiente familiare e si entra in contatto col mondo scolastico, a diciannove anni si lascia, sempre più frequentemente, ormai, la propria città per trasferirsi altrove e continuare gli studi, a trent’anni, chi ha già una famiglia, si sposta nella speranza di trovare un’occupazione per provvedere al mantenimento dei figli.

Dispiacere e malinconia sono i compagni di viaggio meno desiderati ma, allo stesso tempo, più presenti quando ci si imbatte in una realtà molto differente da quella in cui ci si trovava.

Superati i primi momenti di disagio e smarrimento, il trascorrere dei giorni porta l’uomo ad abituarsi alla nuova situazione e, contemporaneamente, ad imparare a gestire se stesso, senza contare sull’aiuto altrui.

La storia e la letteratura sono forzieri di numerosi esempi di personaggi che per cause diverse hanno avuto il coraggio e le difficoltà che un distacco comporta: è quanto stato fatto dal celebre poeta latino Catullo, recatosi in Oriente sulla tomba del fratello per portare delle “povere offerte agli dei sotterranei” o s’intraprende un nuovo cammino per rinunciare a un certo “se stesso” per scommettere su un futuro “se stesso” totalmente ipotetico, secondo quanto afferma lo scrittore brasiliano Julio Monteiro Martius. Quest’ultima tesi evoca in me il ricordo di un poema epico tramandato dai popoli mesopotamici, “L’epopea di Gilgamesh”, che narra la storia di un eroe, Gilgamesh, appunto, disposto a fronteggiare qualsiasi pericolo pur di ottenere e d’ingerire la pianta che gli avrebbe conferito il dono della giovinezza eterna. Il protagonista del racconto cresce, superando le diverse prove incontrate durante il suo viaggio e, una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, grazie alla sua maturazione e al suo arricchimento personale, comprende da sé che è impossibile possedere quanto auspicato.

Il viaggio, non solo nel significato primigenio del termine ma anche nel suo senso figurato, è quindi metafora di crescita personale, di sviluppo culturale, di conquista di autonomia e di raggiungimento della saggezza.

Nel 1300 Dante Alighieri si ritrova “per una selva oscura” poiché “la diritta via” aveva smarrito e volendo ritornare sui suoi passi, intraprende un percorso spirituale, immaginando di attraversare i tre regni d’oltretomba. Il poeta ha al suo fianco una guida, Virgilio, “maestro di bello stile”, che l’accompagna per i giorni infernali e per i cerchi del purgatorio dove avviene, poi, l’incontro con l’amata e tanto lodata Beatrice. Sarà proprio quest’ultima a ricondurre lo sventurato sulla strada della fede, compartecipando al fruttuoso percorso di crescita personale dell’autore.

Bisogna prendere in esame anche il caso in cui si è costretti da una forza esterna ad abbandonare i propri affetti e a rinunciare a tutto ciò a cui si era particolarmente legati: è questa la storia della giovane Lucia, protagonista femminile de “I promessi Sposi” che, minacciata dalla volgarità e dalla violenza di Don Rodrigo, deve fuggire furtivamente e repentinamente dalla città natia. “Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”, recita la fanciulla tra le silenziose lacrime, nel freddo della notte, sottolineando quanto sia straziante lasciare il luogo in cui si è vissuti. Adempiendo al suo grave destino, Lucia dà prova di grande maturità. È come se la ragazza fosse stata obbligata ad un triste esilio, come nel “vero storico” è accaduto a tantissimi uomini, tra cui Seneca, che nel 41 a.C. viene allontanato da Roma in quanto è accusato di aver preso parte all’adulterio di Giulia Livilla, figlia di Claudio, ed è mandato nella “selvaggia e malvagia Corsica”.

La stessa sorte, ma per motivi politici, spetta secoli dopo al romanziere francese Victor Hugo, condannato a vivere per diversi anni nelle isole anglo-normande di Jersey e Guernesay. Dalla sofferenza e dalla riflessione, i due autori appartenenti ad epoche lontanissime tra loro, hanno partorito delle opere straordinarie, divenute dei veri e propri capolavori: “Epistualae morales ad Lucilium” lo stoico, “Les Miserables” il francese. Scrivere e meditare sono azioni proprie di una crescita personale nata da una separazione.

L’esperienza di distacco più atroce è, senza dubbio, la morte, motivo di sgomento per gli uomini. “Se sono arrivata a destinazione? Fortunatamente no. Solo nel momento della mia morte potrò dire di esserci arrivata. E anche allora penso che inizierò un nuovo viaggio, una nuova emigrazione” è quanto la scrittrice brasiliana Christiana de Caldas Brito, in un’intervista alla rivista “Leggere-donna”. È un luogo comune pensare alla morte come ad un tragitto ultimo che conduce l’uomo, secondo quanto è scritto nella Bibbia, ad una nuova vita, migliore di quella terrena.

Al contrario, il poeta americano Walt Withman, nella raccolta “Foglie d’erba”, parla della morte come “dell’inizio di un tutto”: paradossalmente, da questo punto di vista, la fine dell’esistenza coincide con l’inizio di una nuova crescita.

Ancora, la separazione è motivata, talvolta, anche da scelte personali e dal bisogno di vivere nuove avventure, giorno dopo giorno: è la vicenda di Sam e Dean, protagonisti del manifesto della beat generation, “On the road” di Jack Kerouac, che attraversano l’America in macchina, imparando dalla strada e, sicuramente, da avventure divertenti.

Crescere vuol dire conoscere, interiorizzare morali estrapolate da molteplici avvenimenti, non solo da allontanamenti necessari e dolorosi ma anche da partenze volute e positive.