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Tesina - Premio maturità 2009
Titolo: La dignità umana
Autore: Bonaldi Giulia
Descrizione: analisi del concetto di dignità umana in kant, leopardi, primo levi, lucano, orwell, per giungerne al più completo significato.
Materie trattate: Filosofia, Letteratura Italiana, Letteratura Latina, Letteratura Inglese
Area: umanistica
Sommario: Filosofia, Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi Letteratura Italiana, Giacomo Leopardi, La ginestra, Primo Levi, Se questo è un uomo Letteratura Latina, Lucano, Pharsalia Letteratura Inglese, George Orwell, 1984
Immanuel Kant – La dignità come valore intrinseco
assoluto della persona
Nella “Critica della ragion pratica” Kant aveva espresso la prima formula dell’imperativo
categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso
tempo come principio di una legislazione universale” (C.R.Pr., A 54). La massima, prescrizione
di valore soggettivo, è valida esclusivamente per l’individuo; l’imperativo, prescrizione di
valore oggettivo, vale per chiunque; l’imperativo categorico ordina il dovere in modo
incondizionato, ed ha perciò i caratteri della legge, di universalità e necessità: ecco, quindi,
che la prima formula dell’imperativo categorico prescrive di subordinare la massima
soggettiva ad una legislazione universale, cioè valida per ogni essere razionale.
Nella “Fondazione metafisica dei costumi” Kant presenta una seconda formula dell’imperativo
categorico che, come dichiara egli stesso, è una specificazione o sottoformulazione della prima, in
quanto quest’ultima sottintende il riconoscimento dell’umanità come valore assoluto .
“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre
anche come fine e mai semplicemente come mezzo”
(F.M.C., pp. 67-68.)
Questo imperativo presuppone la distinzione kantiana tra cose e persone:
“Gli esseri la cui esistenza si fonda, anziché sulla nostra volontà, sulla natura, quando sono privi di
ragione hanno solo un valore relativo, quello di mezzi, e prendono perciò il nome di cose; viceversa,
gli esseri ragionevoli prendono il nome di persone, perché la loro natura ne fa già fini in sé, ossia
qualcosa che non puo’ essere impiegato semplicemente come mezzo e limita perciò ogni arbitrio.”
(F.M.C., cit. pp. 87-88)
“Il posto di ciò che ha un prezzo puo’ esser preso da qualcos’altro di equivalente; al contrario ciò che
è superiore a ogni prezzo, e non ammette nulla di equivalente, ha una dignità.”
(F.M.C., cit. p. 93)
Le cose, prive di ragione, hanno solo un valore relativo, possono essere usate
esclusivamente come mezzi per i propri fini. Le persone, invece, in quanto esseri razionali,
hanno un valore assoluto e intrinseco, sono fini in sé, cioè fini oggettivi e non possono
essere usate solamente come mezzi. Importante risulta, perciò, la relazione fra “valore” e
“dignità“. E’ definito “valore” la stima di una cosa in relazione ad un’altra. Dei “valori”
possono essere considerati equivalenti tra loro e dunque, nello scambio, essere tradotti in
un prezzo. Ora, il valore che non può essere scambiato con nessun altro, quello che non ha
prezzo, non essendo equivalente a nulla, è il valore assoluto di qualcosa. Le cose hanno un
prezzo, ma le persone, superiori ad ogni prezzo, sono dotate del valore intrinseco assoluto
di dignità. 3
E poiché solo la moralità “è la condizione esclusiva affinché un essere ragionevole possa
essere fine in sé”, ne consegue che la dignità è dell’uomo esclusivamente in quanto
membro del regno dei fini, la comunità ideale degli esseri razionali in cui ogni membro è
allo stesso tempo legislatore e suddito, obbedendo e istituendo le leggi della morale. La
moralità, come condizione di questa autonomia legislativa, è dunque la condizione della
dignità dell’uomo.
Kant deduce il contenuto di questa seconda formula dell’ imperativo categorico
dall’analisi del suo concetto: a causa del suo carattere supremo e incondizionato, non puo’
che prescrivere il rispetto dell’umanità, nella propria come nell’altrui persona. Alla
dignità di ogni persona deve essere concesso quel riconoscimento incondizionato che è
cosa del tutto naturale pretendere per se stessi.
4
Giacomo Leopardi – L’affermazione della dignità
come “pessimismo energico”
“Un pensiero in movimento di sorprendente attualità” scrive, a proposito del pensiero di
Giacomo Leopardi, il critico Sergio Solmi. Ed è proprio questa continua evoluzione, un
costante ribollire di riflessioni, appunti e abbozzi che caratterizza il pensiero leopardiano,
il cui andamento è ritratto nel prezioso Zibaldone di pensieri. Per comprendere meglio
questa figura si deve partire dal fulcro del suo pensiero: la teoria del piacere.
“L’insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo […] proviene da una cagione più materiale che
spirituale”- Zibaldone [165]. Partendo da una base pessimista, sensista e materialista,
Leopardi afferma che l’anima umana desidera unicamente, per inclinazione posta dalla
Natura nell’uomo, non uno o più piaceri, ma il piacere, illimitato, infinito sia per estensione
che per durata, il piacere che Lucrezio definiva “catastematico”, totalizzante. Ma la natura
delle cose pone che tutto esista limitatamente, perciò nessun piacere è eterno o immenso, e
quindi non ottenibile. “Il piacere è –perciò- cosa vanissima sempre” e quello infinito “non si
puo’ trovare nella realtà, si trova così nell’immaginazione, dalla quale derivano le speranze, le
illusioni”- Zibaldone [167]. Ecco delinearsi un altro punto fondamentale del pensiero del
poeta: le illusioni sono l’unica speranza di consolazione per l’uomo; ma la facoltà
immaginativa, sebbene più grande nell’uomo istruito, è più potente negli antichi, negli
ignoranti e nei fanciulli, dai quali la Natura ha voluto che l’immaginazione fosse
considerata come facoltà conoscitrice, e non ingannatrice quale è. Questo tipo di speranza
è quasi annullata per il moderno sapiente, allontanato dalle illusioni e dalla Natura a causa
del progresso. Questa fase di pensiero è stata denominata dalla critica “pessimismo
storico”, in cui Leopardi attribuisce alla Natura ancora una certa benevolenza, annullata
dal fato e dal progresso. Propria di tale fase è la poetica del vago, della rimembranza, del
sentimento, delle illusioni che provocano sensazioni appaganti, una poetica che è punto di
raccordo di suoni e ricordi indefiniti. Ma, come soprascritto, la poesia dell’immaginazione,
quella degli antichi, non è più praticabile dall’uomo moderno, che si deve affidare alla
cosiddetta “poesia sentimentale” indicata da Schiller, che nasce dalla consapevolezza del
vero, dall’infelicità. Ecco che Leopardi ispirandosi ad un romanticismo più europeo che
italiano, predilige la poesia lirica, che traduce le illusioni ed esprime il sentimento.
Appartengono a questa poetica le canzoni e gli idilli, espressioni di affezioni, definite dallo
stesso poeta “le avventure storiche del mio animo”. Tra questi ultimi “L’infinito” tratta di un
infinito soggettivo, basato su sensazioni fisiche, in cui l’ annegarsi della coscienza, e
dunque dell’infelicità, provoca piacere, felicità e si configura come la reazione alla
consapevolezza del vero e della disillusione. Quest’idillio è quindi esempio della poetica
del vago, dell’indefinito, delle immagini che scaturiscono a causa di un ostacolo: “L’anima
si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre li nasconde, e va errando
in uno spazio immaginario e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse
dappertutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario” – Zibaldone [113]. Importante è inoltre
5
soffermarsi un momento sull’idillio “La sera del dì di festa”, in particolare sulla reazione del
poeta di fronte all’amore non ricambiato di una donna, e soprattutto sull’ atteggiamento
evolutosi davanti all’ ”antica natura onnipossente, - che mi fece all’affanno” (v.v.13-14):
attraverso il climax “mi getto, e grido e fremo”(v.23) Leopardi lascia un segno di ribellione, di
titanismo, quell’ energia che scaturisce da un desiderio di reazione e affermazione di
dignità, e che sarà più avanti specifico oggetto di questo lavoro nell’approfondimento su
“La Ginestra o il fiore del deserto”. Riguardo gli idilli infine è utile citare l’ “Ultimo canto di
Saffo”, in cui ritroviamo un’altra sfaccettatura del pensiero in movimento del poeta: la
poetessa greca Saffo, pur facendo parte di quel mondo antico che Leopardi diceva
privilegiato per la sua intatta capacità immaginativa, ha perso ogni illusione sulla vita, sul
“ferrigno mio stame”: il contrasto tra la nobiltà d’animo e la bruttezza del corpo la
escludono dall’armonica comunione con la natura, da quell’equilibrio classico tra corpo e
mente. E’ evidente qui l’evolversi dello stile, che, mentre nei precedenti idilli si arricchiva
di termini dell’indefinito e del vago, ora oscilla tra vaghezza (resa dalla stessa antichità e
quindi lontananza di Saffo), e linguaggio del vero, ritmo spezzato con sentenze secche e
metafore ardite del vero.
Inizia poi un periodo di silenzio poetico, che dura fino al 1828, caratterizzato dalla caduta
delle illusioni, che impedisce al poeta l’immaginazione e lo indirizza verso l’analisi
dell’arido vero attraverso la prosa. Nascono così le “Operette morali”, le cosiddette “prose
liriche” a carattere filosofico che, tramite paradossi e dialoghi, mettono in scena
personaggi storici, fantastici, a volte proiezioni del poeta , e sono incentrate su un
pessimismo senza illusioni. Fondamentale è il “Dialogo della natura e di un islandese”, che
segna il passaggio dal pessimismo storico a quello cosmico. L’islandese rappresenta un
Leopardi resosi conto della vanità del tutto, dell’irraggiungibilità del piacere totalizzante,
in un dialogo con una Natura che rivela il suo unico compito: la conservazione del mondo
tramite leggi oggettive regolanti un eterno ciclo di produzione e distruzione, e anche,
perciò, tramite atti brutalmente indifferenti dell’uomo. Quest’ultimo è destinato a un
“perpetuo disagio”, continuamente danneggiato dalla Natura che lo illude, nascondendo
pericoli dietro illusioni e piaceri; il solo atteggiamento possibile da assumere diviene
quello dell’atarassia e della solitudine. E’ avvenuta l’inversione di ruoli tra fato e Natura:
essa diviene potenza maligna, cieca, distruttiva, è definita “nemica scoperta”, “carnefice della
tua propria famiglia”: siamo pienamente nella fase del pessimismo cosmico.
La produzione dei Grandi idilli o Canti pisano-recanatesi segnano la fine del periodo di
aridità poetica, e rappresentano il passaggio ad un ”equilibrio rarissimo e straordinario tra
arido vero e il caro immaginario”: non c’è più ribellione, ma una consapevolezza del vero che
porta Leopardi a riprendere i temi degli idilli in modo più soffuso e sottile. I Grandi idilli
inaugurano inoltre una stagione stilistica più libera, in cui prevale l’uso della canzone, che
alterna endecasillabi e settenari, con rime libere e più enjambements. Importante è “A
Silvia” in cui il parallelismo tra la fine della giovinezza di Silvia spenta dalle morte, e la
caduta delle illusioni del poeta nella Natura benigna, termina non più con l’annegamento
della coscienza dell’ “Infinito”, ma con la soluzione dignitosa e sorprendentemente reattiva
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di una speranza che “con la mano – la fredda morte ed una tomba ignuda – mostravi di lontano”(
vv.61 a 63); Il“Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” costituisce un’ulteriore sviluppo
del pessimismo cosmico di Leopardi: la riflessione esistenziale di un pastore che dialoga
con una luna “tacita”, ”silenziosa”, simbolo di una Natura indifferente, si risolve in un
motivo totalmente pessimistico (“a me la vita è male” v. 104) in cui la vanità del tutto genera
il tedio, inteso come “il più sublime dei sentimenti umani”, “la vita semplicemente sentita”.
E’ nell’ultima stagione poetica, quella del Ciclo di Aspasia, che l’atteggiamento di
Leopardi nei confronti della Natura, del vero, della vanità delle cose, si connota
fortemente come energico e combattivo, raggiungendo l’apice con il testamento spirituale
de“La Ginestra o il fiore del deserto” appartenente ai “Canti”. Muta perciò anche lo stile: il