Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Analisi della riflessione tragica: dalla tragedia greca (Eschilo, Sofocle) alla filosofia moderna (Schopenhauer, Nietzsche, Camus), con particolare attenzione alla figura di Edipo in Sofocle, Seneca, Freud e Vernant.
I tragediografi
I grandi tragediografi greci del V secolo a.C. furono, in ordine cronologico, Eschilo, Sofocle
ed Euripide.
La loro interpretazione della tragedia è differente: le opere di Eschilo sono incentrate sul
ruolo della giustizia divina e sull'indagine della colpa umana, Sofocle mette in scena invece
uomini incolpevoli sottomessi per loro natura ad un destino cieco, Euripide si sofferma
maggiormente sull'individualità dell'uomo e ne individua i contrasti tra ragione e passione,
relegando alle divinità un ruolo di secondo piano.
Io ho deciso di trattare solo i primi due, da una parte perché Euripide, grande
sperimentatore, ha operato una sorta di rivoluzione del genere tragico ed è quindi, in un
certo senso, meno indicativo di esso; dall'altra perché dal confronto tra l'Edipo di Eschilo e
l'Edipo re di Sofocle è possibile trarre interessanti conclusioni riguardo alla diversa
interpretazione della tragedia dei due poeti tragici.
Eschilo e Sofocle
Eschilo e Sofocle furono probabilmente i più amati
tragediografi nell'antica Grecia. Non furono contemporanei
e le loro tragedie sono necessariamente segnate dalle
differenze culturali e religiose che esistevano tra i due.
La tragedia di Eschilo è fortemente imperniata sul contrasto
tra uomini e dei, in particolare sulla responsabilità dei primi
nei confronti delle loro azioni e sulla loro sottomissione alla
legge divina, una giustizia suprema che ne punisce le colpe e
i comportamenti sbagliati. Esemplare in questo senso è il
personaggio di Prometeo, a cui Eschilo dedica una celebre
trilogia di tragedie.
Il mondo tragico di Eschilo è spietatamente giusto e non
lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi
eredita una colpa commessa dai propri antenati. Attraverso il dolore, che ogni uomo è
destinato a soffrire, egli matura la propria conoscenza (πάθει µάθος). L'uomo si rende
conto, scontando la sua pena, dell'esistenza di un ordine perfetto e immutabile che regge il
suo mondo: la giustizia divina.
“ Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo ti
invoco. Né certo ad altri posso pensare, nessun altro all'infuori di te riconoscere, se
veramente questo peso vano dall'anima voglio scacciare. Tale fu grande un giorno e
fiorente di ogni audacia guerriera, e di costui nemmen più si dirà che esistette; poi venne
un secondo, e anche questi scomparve trovato un terzo più forte. Chi con cuore devoto
canta epinici a Zeus, questo soltanto avrà colto suprema saggezza. La via della saggezza
Zeus apre ai mortali, facendo valere la legge che sapere è patire. Geme anche nel sonno,
dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e così agli uomini anche loro malgrado
giunge saggezza; e questo è beneficio dei numi che saldamente seggono al sacro timone
del mondo. ” Eschilo, Agamennone, vv. 168/183
Il contrasto tra uomini e dei appare anche in Sofocle come
il conflitto principale che alimenta le sue tragedie, tuttavia
è opportuno considerarne la differenza. Il distacco tra
questi due mondi, contrariamente a Eschilo, porta Sofocle
a soffermarsi principalmente sul dolore umano, provocato
dall'incomprensibilità del volere divino che si abbatte
sulla sua esistenza.
Sofocle accentua l'umanità dei personaggi e li pone tutti
sullo stesso livello: poveri o ricchi, tutti sono comunque
accomunati da qualche difetto fisico o psichico e da un
destino ignoto a cui sottostare. L'uomo soffre senza essere
colpevole delle sue azioni e delle sue sciagure.
Gli eroi tragici di Sofocle sono vittime di conflitti
insanabili e di contraddizioni inevitabili, propri della
condizione umana, senza saper dare ad essi una spiegazione. La tragicità in Sofocle risiede
proprio nell'ambiguità che ogni personaggio trova nel mondo e in se stesso: la tragedia
sofoclea è un enigma senza soluzione.
E' dunque evidente la diversa concezione delle azioni umane. Eschilo crede fortemente nel
libero arbitrio: la giustizia divina giudica le azioni che ogni uomo compie
consapevolmente, punisce i colpevoli e premia i valorosi. Sofocle ha una visione più
pessimistica del rapporto tra volontà e necessità: le azioni dell'uomo sono guidate da una
serie di forze sconosciute e i personaggi sofoclei sono come dei burattini in balia del
destino che li manovra.
L'armoniosa coincidenza del destino individuale con la volontà degli dei, tipica di Eschilo,
si trasforma in rapporto enigmatico: se in Eschilo ognuno soffre per una precisa colpa, in
Sofocle la colpa non è connaturata all'azione dell'uomo, ma a qualcosa che lo trascende. Di
conseguenza, mentre Eschilo esalta spesso lo spirito costruttivo della città, in Sofocle
l’individuo è perlopiù solo, alla ricerca di se stesso. L'uomo cerca in tutti i modi di capire, e
il risultato della sua ricerca è l'angoscia, il desolato sentimento del nulla e della morte.
Sia Eschilo che Sofocle dedicarono alcune delle loro tragedie alla figura di Edipo.
Esemplare è proprio il confronto di un particolare episodio presente in entrambe le
tragedie: il responso dell'oracolo che Laio consulta prima di generare Edipo. Dal testo dei
Sette a Tebe si deduce che nell’Edipo di Eschilo, tragedia perduta, l’eroe nasceva da una
colpa di Laio: l’oracolo aveva avvertito il re di Tebe di non mettere al mondo figli perchè
sarebbero stati la rovina sua e dell’intera Tebe. Nonostante questo, Laio, in una notte di
passione, generò Edipo e la sua colpa si trasmise al figlio e ai suoi successori. Il responso
dell’oracolo in Sofocle è completamente diverso: l’oracolo avverte Laio che suo figlio lo
ucciderà e sposerà sua madre. Laio e Giocasta, dunque, decidono di uccidere il figlio; per
loro non esiste alcuna libertà di scelta. La colpa è imposta come colpa oggettiva.
Ne consegue un senso del tragico differente: se Eschilo si sofferma sulla scelta che i suoi
personaggi compiono in una situazione cruciale (esemplare il dissidio interiore di Oreste,
incerto se compiere o meno l'omicidio della madre), sottolineandone la tragicità, Sofocle
rappresenta questa scelta come una conseguenza necessaria e si concentra non tanto sulle
singole azioni dei personaggi, quanto sulle loro reazioni ad esse. I personaggi di Sofocle
non hanno una possibilità di scelta per le loro azioni: il loro dilemma non è più quale
strada scegliere, ma come comportarsi di fronte all'evidenza di un percorso già segnato.
Sofocle: Edipo Re
L'Edipo Re, secondo Aristotele, è la tragedia greca per eccellenza. Composta da Sofocle in
data ignota (si presume intorno al 430 a.C.), ha affascinato nel corso dei secoli decine di
generazioni e coinvolto parecchi studiosi su dibattiti riguardo la sua interpretazione.
Trama
La tragedia narra di Edipo, sovrano di Tebe, che viene invocato dal suo popolo per placare
la terribile pestilenza che opprime la città. Consultato l'oracolo di Delfi, il responso dice
che la città è contaminata dall'uccisione impunita del precedente re Laio: una volta
identificato e cacciato il colpevole, tornerà la serenità.
Viene interpellato Creonte, fratello della regina Giocasta, moglie di Edipo. Creonte
racconta che Laio venne assassinato, quando la città viveva l'incubo della Sfinge, da alcuni
briganti mentre stava andando a Delfi. Il caso venne a poco a poco dimenticato e non si
scoprì mai il colpevole. Viene anche chiamato al cospetto di Edipo l'indovino Tiresia, che
inizialmente rifiuta di parlare per evitare altre sciagure. Costretto dal re, l'indovino lo
accusa personalmente dell'omicidio di Laio, oltre che della sua vita scandalosa ed
incestuosa. Edipo, infuriato, inizia così ad incriminare Tiresia e Creonte. Creonte dice di
consultare lui stesso l'oracolo a Delfi, ma Giocasta lo esorta a non farlo: allo stesso Laio
venne profetizzata una morte per mano del figlio, e ciò non si avverò. L'unico suo figlio,
infatti, venne fatto morire appena nato, esposto sul monte Citerone. Laio venne invece
ucciso da dei banditi, in un punto dove si incontrano tre strade. Edipo chiede a Giocasta di
chiamare subito a Tebe il testimone dell'omicidio. Giocasta accetta ma domanda ad Edipo
il motivo del suo turbamento. Edipo racconta così il suo passato come principe di Corinto,
dove visse fino al giorno in cui l'oracolo di Delfi non gli profetizzò che avrebbe ucciso il
padre e sposato la madre. Edipo racconta poi che, sulla strada tra Delfi e Tebe, incontrò un
uomo ad un crocevia dove si uniscono tre strade e che, dopo un acceso dibattito, lo uccise.
Se quell'uomo fosse stato proprio Laio? Se fosse proprio Edipo l'essere impuro? Giocasta lo
rassicura: i racconti parlano di briganti, mentre lui era da solo.
Uno straniero giunge nel cortile del palazzo, annunciando la morte di Polibo, sovrano di
Corinto: ora il trono spetta ad Edipo. Il re, risollevatosi dalla notizia, chiede notizie anche
della madre, dopo aver raccontato al messaggero la sua storia. Lo straniero lo rassicura:
Polibo e Merope non erano i suoi genitori naturali, ma era stato adottato. Giocasta
indietreggia con gli occhi sbarrati, lo straniero continua dicendo che Edipo gli era stato
consegnato da un pastore che aveva ricevuto l'ordine di abbandonare il piccolo sulla
montagna. Edipo chiede chi fosse il pastore e scopre che è il testimone che stanno
aspettando. Giocasta gli intima di non continuare la sua affannosa ricerca nel passato, ma
Edipo insiste. Arriva finalmente l'uomo tanto atteso e Edipo gli chiede di raccontare che
fine fece il bambino che gli era stato affidato. Il pastore risponde di aver disobbedito agli
ordini e di non avere abbandonato il figlio di Laio e di Giocasta.
Edipo, disperato, corre nel palazzo, mentre il silenzio gela tutti i presenti. All'improvviso,
un grido: un'ancella, pallida di terrore, annuncia che Edipo si è trafitto gli occhi con due
fibbie, mentre Giocasta si è strangolata con un laccio. Appare di nuovo Edipo, barcollante,
quasi a cercare di divincolarsi nelle fitte tenebre in cui è sprofondato. Tutti fuggono, solo il
capo degli anziani si avvicina e lo conforta: Edipo si commuove.
Arriva poi Creonte, straziato dal suicidio della sorella Giocasta, che chiede alle guardie di
riportare il re nel palazzo, quasi a voler oscurare al mondo il dramma che lì si è consumato.
Edipo chiede a Creonte il permesso di lasciare la città, lo prega di rendere a Giocasta le
giuste onoranze funebri e lo supplica di vegliare sulle figlie Antigone e Ismene. Edipo viene
ricondotto nel palazzo. Creonte, ora re di Tebe, lo segue. Gli anziani, immobili, guardano
chiudersi le porte del palazzo. M. Maculotti, Oedipus Rex
Analisi
Aristotele, nella Poetica, scrive che il genere tragico si basa essenzialmente, oltre che sulla
componente patetica, su due elementi cardine della trama narrativa: l'agnizione
( ναγνώρισις) e la peripezia (περιπετε α). L'agnizione consiste nell'improvviso ed
inaspettato riconoscimento dell'identità di un personaggio, che determina una svolta
decisiva nella vicenda. La peripezia è il capovolgimento improvviso dei fatti, un colpo di
scena che sconvolge l'animo di uno o più protagonisti.
“ La peripezia è il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario e questo, come stiamo
dicendo, secondo il verosimile e il necessario, come ad esempio nell’Edipo il messo,
venendo come per rallegrare Edipo e liberarlo dal terrore nei riguardi della madre,
rivelandogli chi era, ottiene l’effetto contrario; e nel Linceo, mentre il protagonista vien
condotto a morire e Danao lo segue per ucciderlo, in forza dello svolgimento dei fatti
accade che Danao muoia e Linceo si salvi. Il riconoscimento poi, come già indica la
parola stessa, è il rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza, e quindi o all’amicizia o
all’inimicizia, di persone destinate alla fortuna o alla sfortuna; il riconoscimento più bello
poi è quando si compie assieme alla peripezia, quale è ad esempio quello dell’Edipo. [...]
Due parti della tragedia sono dunque queste, peripezia e riconoscimento, mentre una
terza è il fatto orrendo. Di queste tre dunque, di peripezia e riconoscimento si è detto,