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Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa 2005

Per gentile concessione dell'editore

Alfio Quarteroni

Nato nel 1952 a Ripalta Cremasca, in provincia di Cremona, e laureatosi in Matematica all'Università  di Pavia nel 1975, Alfio Quarteroni è un esperto di fama mondiale in analisi numerica e matematica computazionale ed applicata. Dopo la laurea è stato ricercatore presso il CNR fino al 1986, quando ha vinto la cattedra di analisi numerica all'Università  di Pavia.

Nel 1989 è stato chiamato al Politecnico di Milano, dove tuttora insegna e lavora. Nel 1990 è andato a insegnare per due anni negli Stati Uniti, come full professor, presso l'Università  del Minnesota, a Minneapolis. Dal 1992 al 1997 è stato direttore scientifico del centro di ricerca CRS4, fondato da Carlo Rubbia, e dal 1998 è direttore della cattedra di modellistica e calcolo scientifico del Politecnico Federale di Losanna, in Svizzera. Il suo gruppo di ricerca lavora alla risoluzione di problemi nei campi più vari: aeronautico, medico, ambientale, microelettronico, energetico. Ha condotto le simulazioni numeriche per la barca da competizione Alinghi, contribuendo alla sua conquista della Coppa America di vela nel 2003. Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, dal 2004 è membro dell'Accademia dei Lincei. È autore di una dozzina di libri e di oltre 150 pubblicazioni scientifiche.

D.: Professor Quarteroni, ci parli un po' di lei. Quanti anni ha? Dove vive? Di cosa si occupa?

R.: Ho 52 anni. Quella su dove vivo è una domanda più difficile, perché in questo momento della mia vita vivo in tre posti diversi: a Lodi, in quanto mia moglie è medico, e lavora ed abita là  insieme alla nostra seconda figlia, di 15 anni, che frequenta la quinta ginnasio; poi lavoro, in genere, due giorni la settimana presso il Politecnico di Milano e tre presso quello di Losanna. Quindi trascorro gran parte della settimana in Svizzera. All'inizio della carriera mi sono occupato, per alcuni anni, di questioni teoriche dell'analisi numerica; ma poi, negli ultimi 15 anni, ho sposato un po' più decisamente il settore delle applicazioni in vari ambiti: perciò, credo di potermi considerare un matematico applicato.

D.: Come si è avvicinato alla matematica?

R.: È stato un avvicinamento non premeditato. Io provengo da una famiglia di contadini, e i miei genitori non erano istruiti nel senso moderno del termine: credo non avessero neanche la licenza elementare. Dai miei non ho ricevuto alcuna indicazione precisa in merito al tipo di studi da affrontare. Mio fratello, un po' più grande di me, leggeva molti libri di narrativa, ma in casa non c'erano testi di argomento scientifico. Si prevedeva che dopo la terza media andassi a lavorare in campagna, come all'epoca - la metà  degli anni Sessanta - facevano tutti, in quelle zone rurali. Quando riferii ciò al presidente della commissione d'esame di licenza media, questi mi disse: «No, no, tu devi continuare!». E quando allora posi la questione a mio padre, assolutamente non preparato a una richiesta del genere, egli mi rispose: «Diventa ragioniere, così potrai lavorare in banca». Perciò ho scelto ragioneria in maniera acritica, senza ragioni specifiche. A scuola mi piaceva molto l'economia, e attraverso i miei professori avevo già  ricevuto qualche offerta di lavoro in banca. Ma all'esame di maturità , ancora una volta, qualcuno pensò bene di scoraggiare la mia intenzione, consigliandomi di continuare a studiare. A quel punto, la scelta fu piuttosto azzardata. Avevo istintivamente capito che mi piaceva la matematica, senza possedere alcun elemento concreto di riscontro in proposito, poiché a ragioneria non si studiava questa materia. Mi piaceva, inoltre, l'idea di poter usare degli strumenti più quantitativi per l'economia. D'altra parte, consideravo il frequentare l'università  un privilegio, per cui alla fine decisi di scegliere una facoltà  che mi impegnasse molto e che mi mettesse un po' alla prova. Così mi iscrissi a matematica, in una maniera tutto sommato non troppo razionale, nonostante mentalmente io lo sia abbastanza.

D.: Quali sono i suoi interessi al di fuori della scienza?

R.: Mi piace molto il calcio, che ho praticato da giovane; oggi sono quello che si potrebbe chiamare un "tifoso medio italiano": tengo per la mia squadra del cuore, nota per il fatto che non vince quasi mai, ma non ne dirò il nome! Mi sono innamorato di questa squadra quando ero piccolo, ed all'epoca vinceva sempre; oggi, invece, sono un tifoso un po' frustrato e assai temprato dagli eventi. A parte questo mio interesse ludico, mi piace molto leggere e, viaggiando spesso in treno, ho abbastanza tempo per farlo. Leggo sia romanzi sia libri di svago: per esempio, mi piacciono i libri di storia, di narrativa e i gialli. Inoltre, cerco di stare molto con la mia famiglia, quando il lavoro me lo permette: questa, dunque, è l'altra mia attività  importante e dominante.

D.: Lei di cosa si occupa nell'ambito della matematica?

R.: Ho iniziato svolgendo una tesi di analisi numerica; oggi cerco di applicare questa materia al settore della matematica riguardante le equazioni alle derivate parziali. Spesso, nelle applicazioni, i fenomeni che si cerca di descrivere matematicamente vengono rappresentati attraverso questo tipo di equazioni: ad esempio, le leggi di conservazione della fisica coinvolgono variazioni nello spazio e nel tempo di certe quantità  - le velocità , le densità , le temperature, le concentrazioni, eccetera - le quali conducono ad equazioni contenenti derivate parziali, rarissimamente risolvibili "a mano", con carta e penna. Abbastanza di frequente si può dimostrare che questi problemi ammettono soluzioni, ma quasi mai si riesce a caratterizzarle con formule esplicite: l'analisi numerica, appunto, permette, fra le altre cose, di proporre metodi e algoritmi in grado di fornire una risoluzione approssimata. Essa è pertanto uno strumento importante con cui affrontare problemi reali e dare delle risposte che risultino significative non solo qualitativamente ma anche quantitativamente. La risoluzione effettiva si compie tipicamente ricorrendo a calcolatori, spesso di elevata potenza. Posso dunque dire che faccio calcolo scientifico, finalizzato alla risoluzione di problemi matematici che "modellano" fenomeni della vita reale. In sintesi, le tre parole chiave utili a descrivere la mia attività  sono modellistica matematica, calcolo scientifico e analisi numerica. Le relative "applicazioni" ne costituiscono un po' la motivazione sovrastante.

D.: Il suo, dunque, è un settore moderno e interdisciplinare...

R.: Sì, quello di cui mi occupo io è un settore di collegamento tra tante discipline. La mia matrice culturale è l'analisi numerica, tuttavia oggi cerco di inserire questa disciplina in un contesto più ampio: in pratica, faccio modellistica matematica e numerica. Al fine di descrivere un certo fenomeno, lo si traduce in equazioni: in tal modo si ottiene un "modello matematico" della realtà . Queste equazioni non sono quasi mai risolvibili in forma esplicita e allora, per avere le risposte di cui si necessita, si ricorre all'analisi numerica, agli algoritmi, alla risoluzione al computer, all'interpretazione dei risultati, eccetera. Tutto questo processo va sotto il nome di modellistica matematica e numerica, e fa uso del calcolo scientifico per risolvere il problema. Quindi l'analisi numerica è un ingrediente importante della mia attività , ma non l'unico.

D.: Quali sono, entrando più nel dettaglio, gli altri "ingredienti" della modellistica matematica e numerica? 9. Alfio Quarteroni R: A monte, la fisica matematica, perché uno deve rappresentare dei fenomeni fisici attraverso equazioni: per esempio, la fluidodinamica, l'elettromagnetismo, la meccanica dei solidi. A valle, invece, c'è l'analisi, perché quando ci troviamo ad affrontare le equazioni, ovviamente, dobbiamo cercare di capire se per esse esistano soluzioni e in quali regimi: magari ci sono dei parametri fisici che governano il problema, come ad esempio il numero di Reynolds, che dipende, in particolare, dalla viscosità  di un fluido. L'analisi matematica permette di compiere un'analisi qualitativa delle soluzioni, ovvero di sapere in che modo esse dipendano dai dati, quanto siano stabili, se vi sia unicità  di soluzione o se invece vi siano soluzioni multiple, e così via. Poi entra in gioco l'analisi numerica, ovvero con metodi numerici si traducono le equazioni che descrivono questi problemi in algoritmi. Infine c'è la risoluzione di tali problemi - diventati ormai, con l'analisi numerica, di dimensione finita - con i calcolatori. Dunque, la modellistica matematica e numerica utilizza linguaggi di programmazione e anche tanta grafica evoluta, che consente di rappresentare soluzioni tridimensionali assai complesse tramite immagini capaci di comunicare informazioni sintetiche ma significative a coloro i quali sono interessati alla soluzione effettiva del problema: un fisico, un biologo, un ingegnere, un medico o qualsiasi altra persona lo abbia posto.

D.: Per lavorare nel suo campo occorre essere matematici?

R.: Gli strumenti che si usano sono di tipo matematico. Alla base c'è un modello matematico, quindi una descrizione matematica di una realtà  fisica. Le equazioni che si devono risolvere sono piuttosto complesse: le equazioni alle derivate parziali, infatti, vengono insegnate all'università , ma non sempre in maniera approfondita. Il tipo di equazioni che tante volte affrontiamo non sono mai neppure state viste in un corso universitario di matematica. Quindi chi vuol lavorare in questo campo è di preferenza un matematico, ma nel mio team ho anche tanti ingegneri e tanti fisici. Certo, più difficilmente potrebbe trattarsi, ad esempio, di un biologo o di un sociologo. D'altra parte, quando si deve affrontare un problema sufficientemente grande e complesso, è inevitabile che occorrano tanti "attori" diversi, compresi i medici. Però un individuo, se vuole dominare il settore nella sua globalità , è meglio che sia un matematico. Ciò non vuol dire che debba avere necessariamente una laurea in matematica: se ce l'ha è meglio, ma non è indispensabile; può possedere una laurea in ingegneria o in fisica ed aver poi compiuto un ulteriore corso di studi, specializzandosi nella direzione della matematica applicata.

D.: Quali sono le sedi migliori in cui studiare la modellistica matematica e numerica?

R.: Ci sono varie sedi in cui si pratica la modellistica in senso lato. Direi che tutte le sedi italiane più importanti hanno corsi in grado di formare: ad esempio Roma, Milano, Bologna, Padova, Torino, Pisa, Firenze, Napoli. Se uno pensa specificamente all'analisi numerica, allora per questo tipo di problemi la scelta non si presenta amplissima. Ovviamente io possiedo un bias di base, perché ho studiato a Pavia, la quale forse ancora oggi è la sede italiana che dedica maggiore attenzione agli aspetti dell'analisi numerica riguardanti le equazioni alle derivate parziali. A Pavia lavorano ricercatori di primissimo ordine a livello mondiale: uno su tutti, Franco Brezzi. Oggi, però, esistono anche altre sedi, al di fuori della matematica, dove si può fare modellistica: per esempio, presso il Politecnico di Milano e quello di Torino sono stati istituiti dei corsi di laurea in ingegneria matematica dove si presta moltissima attenzione a questi aspetti, e addirittura si va anche al di là  della formazione che si può ricevere all'interno di un ambiente matematico tradizionale. In questi politecnici si cerca di coniugare le conoscenze matematiche - anche quelle teoriche - per l'analisi numerica e per le equazioni alle derivate parziali con le applicazioni che derivano dall'ingegneria. Il piano di studi degli studenti di ingegneria matematica comprende tanti corsi di matematica pura e applicata e molti corsi di ingegneria fondamentale. I due corsi di laurea in ingegneria matematica presenti a Milano e a Torino rappresentano esperienze nuove, perché attivi da appena 4-5 anni. Essi si assomigliano molto, e sono gli unici di questo genere in Italia. Ovviamente, dal momento che insegno al Politecnico di Milano, mi consenta di dire che, per prepararsi a svolgere il lavoro di cui mi occupo io in questo momento, la scelta migliore in assoluto è rappresentata proprio dal corso di ingegneria matematica di Milano.

D.: Corso che ho letto essere stato creato da lei...

R.: Non ci sono paternità  assolute, però penso di aver dato insieme al professor Sandro Salsa, direttore del dipartimento, un significativo impulso nel concepire, all'inizio, la struttura del corso. Ci siamo impegnati moltissimo nel cercare di renderlo una realtà , ma è chiaro che questi processi vanno mediati da tanti organismi a livello di dipartimento, di facoltà , eccetera. Il numero di iscritti a questo corso di ingegneria matematica oscilla dai 75 agli 80 ogni anno, rispetto al centinaio di iscritti complessivi dei corsi di laurea in matematica delle due università  milanesi. Gli studenti del Politecnico, che vanta una grandissima tradizione, provengono da sempre un po' da tutta Italia; quindi sono veramente motivati, perché venire a studiare a Milano è molto impegnativo sia dal punto di vista economico sia per i disagi che si riscontrano in una città  così grande e frenetica. Inoltre, dai test d'ingresso effettuati dallo stesso Politecnico di Milano, si rileva con una certa regolarità  che gli studenti che poi scelgono ingegneria matematica sono tra i - se non addirittura i - migliori in assoluto, come media di base, tra gli studenti che si iscrivono alle altre facoltà  o agli altri corsi di laurea del Politecnico.

D.: Chi si laurea in ingegneria matematica, in pratica è più matematico o più ingegnere?

R.: Il corso di ingegneria matematica fa parte della facoltà  di ingegneria, per cui lo studente che ne esce alla fine è, formalmente, ingegnere. Questo aspetto si rivela molto importante, perché permette di superare una delle riserve psicologiche che tanti validi studenti hanno sempre avuto: chi è molto bravo vorrebbe fare matematica, però magari il papà , temendo che l'unico sbocco professionale di questo corso di laurea sia l'insegnamento, lo scoraggia e gli consiglia di iscriversi a ingegneria. Chi si laurea in ingegneria matematica si sente davvero un elemento di collegamento fra i due mondi - la matematica e l'ingegneria - e riceve effettivamente una formazione integrata: è un ingegnere in grado di utilizzare bene tanto quanto un matematico gli strumenti della matematica necessari per la sua professione. Oppure, se vuole, è un matematico; ma con in più, rispetto a un matematico applicato che si sia formato in un corso di laurea in matematica appartenente alla facoltà  di scienze, determinate conoscenze di ingegneria di base, utilissime quando dovrà  entrare in azienda, fare il ricercatore e trattare problemi reali, o interfacciarsi con persone che possiedono un background di ingegneria, di fisica, o, comunque, più applicato. Di fronte a uno strumento nuovo - per esempio un reattore, un miscelatore, un dispositivo elettronico - ci si può porre essenzialmente due tipi di domande: «Come funziona?» e «Perché funziona?». La prima, riguardante anche l'uso che posso fare dello strumento, riflette il tipico punto di vista dell'ingegnere: devo utilizzare uno strumento e quindi voglio capirne bene la struttura funzionale, per impiegarlo nella maniera più idonea per trarne beneficio. Il fisico e il matematico, invece, si pongono più a monte, nel senso che vogliono capire quali princìpi primi fanno funzionare lo strumento. Noi, nella scelta degli argomenti del piano di studi, abbiamo cercato di favorire il suddetto tipo di integrazione culturale, in modo tale che lo studente possa capire bene perché certe strutture funzionano e come egli possa intervenire per farle funzionare ancora meglio.

D.: Lei, ora, che materie insegna? E dove?

R.: Dal punto di vista didattico, qui in Italia sono ordinario di analisi numerica dal 1986. Al Politecnico di Milano tengo un corso base di analisi numerica e uno più avanzato, che si chiama "modellistica numerica per problemi differenziali". Al Politecnico di Losanna pure tengo vari corsi: analisi numerica, per gli ingegneri di varie estrazioni; un corso specialistico legato alla modellistica matematica, alla facoltà  di scienze della vita; un altro corso specialistico - sempre di modellistica - per gli ingegneri matematici e per gli ingegneri fisici. A Losanna sono inoltre direttore della cattedra di modellistica e calcolo scientifico. In Svizzera esistono due sole università  federali: il Politecnico di Zurigo e quello di Losanna, strutture gemelle che sono anche le più avanzate e internazionali del paese. Per darle un'idea, più del 70 percento dei professori sono stranieri, una percentuale assolutamente non confrontabile con le nostre: il numero di professori stranieri al Politecnico di Milano si conta sulle dita di una mano. Gli studenti di dottorato là  sono per i due terzi stranieri; quelli del primo livello sono per più di un terzo stranieri. La struttura è molto piramidale, e i professori sono pochissimi: il professore ordinario, che è "direttore della cattedra", ha la possibilità  di crearsi il proprio team, costituito da un numero variabile di persone; attualmente, io nella mia cattedra ne ho venti.

D.: Quali sono state le tappe principali della sua carriera?

R.: Mi sono laureato nel 1975 a Pavia e, dopo pochi mesi, nella stessa città  sono diventato ricercatore al Consiglio Nazionale delle Ricerche, presso l'Istituto di Analisi Numerica, che era famoso in tutto il mondo e che esiste tuttora. Il direttore era all'epoca il professor Enrico Magenes, uno dei matematici italiani più noti, in Italia e non solo. Il mio relatore di tesi era il già  citato professor Franco Brezzi, l'odierno direttore dell'Istituto, oggi chiamato IMATI. Vi sono rimasto come ricercatore per dieci anni, fino all'86, quando ho vinto un concorso per professore ordinario. Ho insegnato per tre anni analisi matematica e analisi numerica all'Università  Cattolica di Brescia, dove sono stato direttore del dipartimento di matematica. In seguito, nell'89, sono giunto al Politecnico di Milano e, quasi in contemporanea, mi hanno offerto una cattedra negli Stati Uniti, presso l'Università  del Minnesota a Minneapolis, dove esiste una scuola di matematica molto importante. Lì sono stato un paio d'anni, dal '90 al '92; ma siccome mia moglie ed io avevamo due figlie piccole e preferivamo che studiassero in Italia, poi sono rientrato. Nel frattempo, il professor Carlo Rubbia aveva da poco fondato a Cagliari il CRS4, un centro di ricerca avanzata, con l'idea di chiamare a lavorarvi anche persone provenienti dall'estero. Mi ha chiesto di dirigere uno dei suoi quattro gruppi, quello di matematica applicata e simulazione; perciò, tornato dagli Stati Uniti, ho ripreso la mia cattedra al Politecnico di Milano e ho cominciato a "pendolare" tra Milano e Cagliari. Dopo tre anni sono diventato direttore scientifico di quel centro, dove ho lavorato fino al '97.

D.: Quando è andato a Losanna, immagino...

R.: Sì. Di fatto, sono andato al Politecnico di Losanna nel luglio del '98. Già  nel marzo del '97, però, lì mi avevano offerto, con la possibilità  di creare un gruppo di ricerca, la cattedra che oggi dirigo: proposta che mi ha interessato molto, nonostante trovassi estremamente affascinante il lavoro al CRS4, con un gruppo messo in piedi dal nulla che contava ormai un'ottantina di ricercatori, alcuni dei quali provenienti da varie parti del mondo. Al CRS4, in effetti, si era compiuto un lavoro eccellente, che però stava diventando molto impegnativo dal punto di vista della gestione amministrativa e scientifica: bisognava cercare continuamente fondi da aziende e istituzioni varie, cosa che richiedeva un notevole impegno. Così, quando mi è arrivata l'offerta da Losanna, non vi ho risposto immediatamente; però poi ho capito quanto fosse interessante e, per certi aspetti, irripetibile. Infatti lì i posti sono 9. Alfio Quarteroni pochissimi: quando mi hanno convocato, per un solo posto concorrevano più di cento candidati, almeno una quarantina dei quali persone già  molto note nel mondo. Per intenderci, il reclutamento dei professori, al Politecnico di Losanna, si svolge così: quando hanno un posto disponibile, diffondono la notizia; dopodiché molti candidati inviano spontaneamente il proprio curriculum, mentre altri - come nel mio caso - vengono direttamente sollecitati a farlo. Alla fine, superata la prima scrematura e la successiva fase di interviste che ha coinvolto altri quattro candidati, hanno proposto a me quella cattedra. Comunque ho potuto mantenere il lavoro al Politecnico di Milano, per cui capita spesso che ad alcuni ragazzi molto bravi che si laureano con me a Milano venga offerta l'opportunità  di venire a frequentare il dottorato a Losanna. Poi essi ritornano in Italia per costruirsi una posizione più stabile come ricercatore, oppure vanno in giro per il mondo.

D.: Lei, dunque, è un mezzo "cervello in fuga"...

R.: Quello dei "cervelli in fuga" - soprattutto verso gli Stati Uniti - è un argomento critico, sul quale non sempre si raccontano le cose giuste. Si tratta, infatti, di un problema che non riguarda solo l'Italia, ma anche la Francia, la Germania, l'Inghilterra, la Svezia, la Cina. Il tasso di ritorno da noi è leggermente più basso rispetto a quello degli altri paesi, e ciò forse costituisce l'elemento discriminante. L'andare all'estero per frequentare il dottorato, il post-doc, o anche per diventare titolare di una cattedra o per dirigere un laboratorio di ricerca, credo sia estremamente positivo pure per l'Italia, in quanto consente di vedere nuovi metodi di lavoro, di acquisire tante conoscenze nuove e di arricchirsi culturalmente. Forse non sono molti quelli che poi tornano, ma ciò che reputo particolarmente penalizzante rispetto ai paesi citati prima è il fatto che nessuno straniero, o quasi, scelga di venire da noi: quindi, questa è una ricchezza straordinaria di cui non beneficiamo! Al Politecnico di Losanna, come dicevo, oggi il 70 percento dei professori sono stranieri, ma probabilmente tra dieci anni lo saranno il 90 percento. Ad esempio, degli ultimi otto professori reclutati presso il dipartimento di matematica, sette sono stranieri: due sono francesi, due inglesi, due americani e uno italiano. Perciò si può capire bene che patrimonio culturale straordinario costituisca tutto questo per la Svizzera! Io non conosco le statistiche al riguardo relative all'Italia, ma preferisco non guardarle, perché credo siano demoralizzanti...

D.: Cosa spinge un professore straniero ad andare in Svizzera?

R.: Ad attirare le persone a Losanna sono il nome dell'istituzione, un corpo di docenti e di ricercatori molto selezionato, i magnifici laboratori, un'organizzazione che fa sentire chiunque a proprio agio e, infine, gli studenti in media molto bravi. Anche a Milano vi sono alcuni studenti molto forti, però la base non è composta da elementi tutti bravissimi, perché non viene compiuta una severa selezione all'ingresso. A Losanna, inoltre, un professore, se possiede idee nuove e buoni progetti, riesce a farseli finanziare e a costituire un gruppo di ricercatori non banale: avere venti persone in una sola cattedra è una situazione assolutamente atipica in Italia, almeno per quanto concerne le discipline scientifiche! Un'altra importante differenza tra il Politecnico di Losanna e quello di Milano è rappresentata dalla facilità  con la quale, nel primo, si possono scegliere i propri collaboratori giovani, dottorandi e post-doc: il professore ha una libertà  assoluta nella scelta e basta una semplice firma, non esistono procedure concorsuali lunghe e farraginose. Naturalmente, il professore stesso è poi direttamente responsabile delle scelte compiute, e ne risponde ogni anno. Quindi a Losanna vi sono condizioni ambientali e di qualità  non comuni. Io ho avuto modo di lavorare all'Università  del Minnesota, all'Università  di Parigi VI e, per periodi più brevi, sono stato come visitatore presso una cinquantina di altre università  e centri di ricerca europei e statunitensi, compresa la NASA, a Langley, in Virginia: ebbene, sulla base della mia esperienza, posso affermare che il Politecnico di Losanna è il posto in cui ho potuto realizzare nella maniera più semplice, rapida ed efficiente, ciò che mi ero proposto.

D.: In Italia questo non sarebbe stato possibile...

R.: Devo dire, in tutta onestà , che tre anni fa, qui al Politecnico di Milano, è nato il MOX, sigla che sta per "Modellistica e Calcolo Scientifico", un centro di eccellenza in tale campo, dove ho cercato di riprodurre un po' questo tipo di microcosmo. È un posto che adesso funziona benissimo; anzi, vi lavorano professori e ricercatori che sono - a differenza di quelli che ho a Losanna - permanenti: perciò vi è la possibilità  di avviare grossi progetti. In Svizzera c'è una mobilità  assai maggiore, ma faccio molta più fatica dal punto di vista dell'esecuzione di progetti, perché i miei collaboratori sono ragazzi in media molto più giovani. In compenso, la struttura generale lì è globalmente più efficiente, migliore di quella riscontrabile presso il MOX. Dal canto suo, il MOX rappresenta un'esperienza piuttosto unica in Italia, attraverso la quale cerchiamo di dimostrare che nel nostro paese si può fare matematica di alto livello. Soprattutto, cerchiamo di dimostrare che, pur essendo matematici, si può essere considerati dei partner credibili, autorevoli, importanti, da parte dell'industria, cosa che purtroppo in Italia accade raramente. Infatti, uno dei nostri punti di forza è che abbiamo dei progetti significativi in cui applichiamo strumenti di matematica raffinati, che ci consentono di fornire risposte utili per uno sfruttamento in ambito industriale. Questa, per noi, è senza dubbio una sfida difficilissima.

D.: A proposito di sfide, come è nata la sua collaborazione con il team di Alinghi, che ha poi vinto la Coppa America?

R.: La collaborazione è nata nell'ambito del Politecnico di Losanna. Alinghi, infatti, è un team svizzero. Nella stagione primavera-estate del 2001, Ernesto Bertarelli e Russell Coutts - all'epoca, rispettivamente, l'armatore e lo skipper di Alinghi - stavano cominciando ad allestire la squadra, e si sono recati al Politecnico di Losanna a parlare con il presidente dell'Istituto, chiedendogli se il Politecnico avrebbe potuto fornire la propria consulenza scientifica nella progettazione della barca. Essi avevano, tra le altre, due esigenze dominanti: lo sviluppo di materiali compositi che poi avrebbero costituito lo scafo, e lo studio del progetto aerodinamico e fluidodinamico in senso lato, cioè delle forme da dare alle diverse componenti della barca in modo da renderle adatte al campo di regata nel golfo di Hauraki. Quindi, nel rispetto dei regolamenti della Coppa America, che pone numerosi vincoli, occorreva disegnare lo scafo, la chiglia, il bulbo, le alette, i timoni, l'albero, le vele e le numerose altre componenti della barca stessa. Il presidente del Politecnico ha allora deciso di affidare a un professore svedese la parte concernente i materiali compositi, e a me quella del progetto fluidodinamico. Ovviamente esisteva un team Alinghi di progettisti straordinariamente bravi con cui occorreva interfacciarsi. Per me è stata dunque un'attività  totalmente imprevista, nel senso che io e il mio team non avevamo mai lavorato, prima d'allora, su problematiche di questo genere né, in generale, su progetti riguardanti barche. Per questo, all'inizio, ho cercato di spiegare al presidente che forse non ero la persona adatta; ma egli ha insistito e così, alla fine, ho accettato...

D.: Poi le cose come sono andate?

R.: A quel punto ho indetto un bando per reclutare tre ragazzi con competenze complementari sia alle nostre sia fra di loro; e questi sono i ragazzi che poi hanno lavorato a tempo pieno sul progetto. Solo uno di loro, un australiano, aveva già  un'esperienza precedente di Coppa America; un altro aveva appena concluso il dottorato a Princeton su un problema di ingegneria navale; e il terzo era un neolaureato in ingegneria aerospaziale del Politecnico di Milano. Nel settembre 2001 abbiamo cominciato a lavorare, mentre le barche sono state costruite nella primavera 2002 e le regate hanno avuto inizio nell'ottobre del medesimo anno. I primi mesi sono stati di lavoro intenso per l'elaborazione del progetto. Dopo la costruzione delle barche e le prime prove nel golfo di Hauraki, per migliorare il progetto stesso abbiamo continuato a lavorare a distanza, di giorno e di notte, in collaborazione con il design team di Alinghi. Dapprima, il loro sogno era di riuscire a qualificarsi bene dopo le prove preliminari; poi, strada facendo, hanno capito che forse avrebbero potuto puntare alla Coppa Louis Vuitton che designava lo sfidante; una volta che questa è stata vinta, era chiaro ormai che l'ultima sfida se la giocavano. Quando, arrivati in finale, è avvenuto l'unveiling di Black Magic - cioè lo scafo della barca avversaria è stato mostrato pubblicamente - per la prima volta ho visto il team di Alinghi sorridente, perché avevano la sensazione di poter battere i loro avversari. Infatti, noi tempo prima avevamo provato al calcolatore alcune delle forme implementate da Black Magic: avevamo simulato al computer tantissime configurazioni possibili, e il design team di Alinghi aveva poi scartato alcune fra quelle in seguito scelte da Black Magic, non ritenendole molto performanti.

D.: Ecco... come si arriva a scegliere il progetto migliore?

R.: Uno disegna la barca, la modellizza matematicamente, effettua le simulazioni al calcolatore, e trova risultati quantitativi che poi analizza e confronta con quelli di prove su modelli in scala compiute nella galleria del vento e nella vasca navale; infine, si effettuano le prove in acqua con la barca vera. Tanti elementi, quindi, contribuiscono a dare un'idea del valore effettivo di una barca. I progettisti di Alinghi utilizzano strumenti di bilancio meno sofisticati dei nostri, ma che permettono di individuare subito le proposte da prendere in considerazione. Poi, nell'ambito delle buone idee, occorre capire quale, tra di esse, sia la migliore e come migliorarla ulteriormente; e a questo scopo la modellistica matematica serve molto, perché tramite le simulazioni si compie un'analisi parametrica che aiuta i progettisti a trovare strade più adeguate e, a volte, soluzioni ottimali. Negli ultimi vent'anni di Coppa America quest'uso del computer c'è sempre stato, però si sono sempre dovute effettuare delle grosse semplificazioni, in quanto il problema è talmente complesso dal punto di vista fisico che risulta davvero impossibile simularlo nella sua interezza. Per la Coppa America del 2003 sono stati elaborati modelli più raffinati di quelli sviluppati in precedenti competizioni o da altri team, come Prada, Oracle, eccetera. Perciò la nostra analisi assai accurata dei dettagli ha permesso di capire come ridurre la resistenza viscosa e le turbolenze, e come modificare le forme della barca e della vela per accrescerne la performance.

D.: Per quali altre applicazioni avete fatto della modellistica?

R.: Rimanendo un po' in argomento, abbiamo effettuato uno studio su nuovi scafi da canottaggio che è stato utilizzato da alcuni team di varie nazioni in occasione delle Olimpiadi di Atene. Inoltre, abbiamo aiutato un'azienda nazionale a realizzare costumi da bagno per atleti, studiando come agire sul tessuto affinché la resistenza viscosa in acqua risultasse la più bassa possibile, ispirandoci per questo alle microasperità  della pelle dello squalo. Poi abbiamo lavorato e lavoriamo tuttora su moltissime altre questioni, tra le quali, ad esempio, l'ambiente. Studiamo, in particolare, come modellizzare matematicamente, e quindi simulare, l'inquinamento atmosferico o idrico: in sostanza, cerchiamo di capire come si diffonda un agente inquinante che finisce accidentalmente nell'atmosfera oppure nell'acqua della Laguna di Venezia, di un fiume o di un lago. Nel caso, dunque, si debba operare su una centrale elettrica esistente, o decidere dove dislocarne una nuova, questi modelli ci permettono di ridurre al minimo - o comunque al di sotto delle soglie di tolleranza prescritte dalle leggi - l'inquinamento su un centro abitato adiacente alla stessa. Negli ultimi anni abbiamo lavorato anche in campo aerospaziale, nell'ambito di un consorzio europeo di ricerca, collaborando con altre università  e con aziende del settore. Il nostro contributo è stato quello di realizzare modelli e di scrivere equazioni che ricostruissero il flusso 9. Alfio Quarteroni intorno agli aerei, al fine di poter capire meglio quali fossero le proprietà  di stabilità  di un velivolo o il tasso di turbolenza indotta nel moto, e poter quindi suggerire forme diverse delle ali o di alcuni profili, atte a permettere il raggiungimento di certi obiettivi. Un problema legato all'argomento - che però non abbiamo ancora studiato - riguarda l'inquinamento acustico prodotto dagli aerei. In questo caso risultano implicati sia l'aspetto fluidodinamico sia, appunto, quello acustico, ossia concernente la propagazione di onde acustiche in un mezzo fluido come l'aria. Abbiamo lavorato pure sul livello di integrità  di alcune strutture architettoniche, indagando come onde elastiche indotte da sollecitazioni esterne si propagassero nelle strutture stesse provocandone delle deformazioni. Altro oggetto del nostro studio è stato il modo in cui l'onda di un terremoto si ripercuote sul suolo, perché nel caso, ad esempio, di un impianto che produce energia costruito in una zona sismica, interessa sapere se un'onda di un certo livello possa danneggiare o meno la struttura. Ciò permette, indirettamente, di dimensionare la centrale, rendendola capace di resistere a onde sismiche di grado opportuno.

D.: Inoltre, svolgete ricerca anche in ambito medico...

R.: Sì, un'altra applicazione molto significativa del nostro lavoro - e forse quella in assoluto dominante dal punto di vista dell'impegno - riguarda la medicina. In questo settore sviluppiamo modelli matematici per simulare, ad esempio, il flusso del sangue nel sistema cardiovascolare. Il sangue è un fluido, pertanto risulta governato dalle equazioni dei fluidi, ma è un fluido speciale: presenta caratteristiche che l'aria e l'acqua non hanno e si muove, animato da una pompa fondamentale che è il cuore, in un sistema complicatissimo di vasi comunicanti fra loro, come le arterie, le vene e i capillari, le cui pareti si dilatano e si comprimono. Quindi, in tal caso, non risulta sufficiente studiare solo un fluido, ma occorre considerare anche una struttura solida, elastica, che si muove e interagisce col fluido stesso: si tratta di un problema difficilissimo da affrontare, perché i dati clinici sono pochi, e in pazienti diversi si riscontrano comportamenti diversi del sistema, Inoltre i nostri modelli devono necessariamente semplificare la realtà  senza però perderne troppe informazioni. Se volessimo simulare l'intero flusso sanguigno, avremmo un numero di incognite straordinariamente grande: per Alinghi risolvevamo ogni giorno fino a 30 milioni di equazioni, e in questo caso, probabilmente, se ne dovrebbero risolvere dieci volte tante! Noi, al MOX, siamo responsabili europei di un progetto che vede coinvolti università  e ospedali, ed i modelli che abbiamo sviluppato in tale ambito li impieghiamo per molte applicazioni: ad esempio, per capire come l'organismo reagisce quando vi si impianta un by-pass coronarico o uno stent, una piccola rete metallica utile a ripristinare il flusso di sangue in un'arteria parzialmente occlusa, o a neutralizzare un aneurisma dell'aorta. Impiantando uno stent, infatti, cambia completamente la condizione del fluido sanguigno: così noi cerchiamo di capire quali siano le perturbazioni locali oppure i carichi forzanti che si distribuiscono sull'intera rete cardiovascolare a causa della presenza di un corpo estraneo.

D.: E nella finanza, la modellistica trova applicazione?

R.: Esiste tutta una parte che possiamo chiamare sinteticamente "ingegneria finanziaria", basata sull'uso di strumenti matematici deterministici o stocastici, atti ad effettuare un'analisi di rischio finanziario. Quando si acquistano, ad esempio, dei futures, cioè dei prodotti che hanno un valore stimato nel tempo ma negoziato oggi, chiaramente ci si assume un rischio, e vi sono strumenti matematici adatti a modellare tale genere di situazione. Spesso in questo campo si formulano equazioni differenziali alle derivate parziali, per certi aspetti addirittura analoghe a quelle della fluidodinamica; ma si tratta di un'analogia matematica, non fenomenologica, perciò per la loro risoluzione si richiedono strumenti numerici simili a quelli che si usano per la fluidodinamica. Dunque, pur esistendo una zona di intersezione a livello concettuale tra la "loro" e la nostra modellistica, i dati, l'applicazione e l'uso che se ne fanno sono del tutto diversi. Personalmente, non ho mai utilizzato tali strumenti, però qui al MOX ci sono ricercatori che hanno eseguito simulazioni del genere. In ogni caso, credo che non si tratti di strumenti decisionali diretti, ma che invece servano, come dicevo prima, per compiere risk assessment, cioè per calcolare come, con una probabilità  al di sopra di un determinato livello di tolleranza, un'operazione presenti un rischio x piuttosto che un rischio y; di conseguenza, non ritengo sia facile arricchirsi in modo sicuro con questo tipo di "ingegneria".

D.: Qual è, secondo lei, la bellezza della matematica?

R.: Nel Novecento, un matematico straordinario, Godfrey Hardy, disse che non c'è posto per una matematica "brutta", ma solo per la matematica "bella". La matematica "brutta" è quella che, purtroppo, spesso si insegna ai ragazzi, molto ripetitiva, con quantità  enormi di esercizi che si fanno svolgere talvolta senza spiegare in maniera chiara, lungimirante, cosa ci sia dietro, e senza evidenziare le connessioni con altre discipline. La matematica "bella" è quella che sa, innanzitutto, cogliere gli elementi di sintesi tra settori apparentemente molto diversi l'uno dall'altro, e quindi identificare, isolare, capire le strutture ricorrenti e soggiacenti. La matematica "bella" è quella caratterizzata dal rigore e dalla deduzione logica: se uno studente di liceo, posto davanti a un teorema difficile, riesce a dimostrarlo, a capirlo perfettamente, a "farlo suo" cogliendone la struttura soggiacente e gli elementi di essenzialità , avverte tutto questo come "bello", in quanto gli permette di dimostrare la sua capacità  di usare processi logici in maniera rigorosa, avendo chiaro l'obiettivo e senza dover scendere a compromessi. Ovviamente, c'è poi la matematica di chi fa ricerca, dei matematici di professione, che devono trovare soluzioni nuove; e in questo caso emerge l'aspetto creativo, straordinariamente bello. Inoltre, le forme e le strutture della matematica sono, in generale, affascinanti e complesse. Vorrei anche sottolineare la capacità , tipica dei matematici, di lavorare per analogie, di cogliere gli elementi di sintesi, nonché di passare da un campo a un altro completamente diverso, riuscendo magari ad applicarvi con successo e in maniera a priori imprevedibile, la medesima struttura deduttiva. Infine, la matematica che pratico io cerca di utilizzare concetti fondamentali per finalizzarli alla risoluzione di problemi posti da persone che spesso sono molto scettiche riguardo alla possibilità  che i matematici forniscano risposte di merito: risulta molto bello e appagante vedere come queste persone, alla fine, non solo si rendano conto del valore della matematica, ma anche finiscano con l'innamorarsi di tale materia e di quanto con essa si possa fare.

D.: Però la matematica, in generale, non è amata dagli italiani...

R.: Anzi, è incredibile quanta poca cultura matematica ci sia in Italia! E non dico "in Italia" a caso, o per parlar male degli italiani, come facciamo spessissimo e talvolta non a ragion veduta, ma perché noi abbiamo essenzialmente delle radici culturali umanistiche. E questo lo si vede, in giro: da noi la gente sembra quasi vantarsi di non aver mai capito la matematica, mentre altrove nel mondo le persone si vantano di essere state brave in questa disciplina. Nel nostro paese anche persone che esercitano ruoli importanti nella società  in qualche modo tendono a considerare la matematica come un grattacapo, un ricordo brutto della propria infanzia o della propria giovinezza. Questo tipo di riscontro è assai frequente, e credo costituisca un guaio per la nostra società , così piena di talenti che potrebbero talvolta essere indirizzati un po' diversamente. Gli stessi media si divertono a parlarne, ogni primavera, dicendo: «La squadra "x" non è ancora condannata dalla matematica ad andare in serie B...». Insomma, la matematica è un'"arcigna grande sorella" che per vocazione "fa del male". In Italia si riscontra una diffusa sottostima di quello che la matematica significa. È evidente, palese, come oggi non esista un avanzamento tecnologico o di ricerca che non sia basato su un contributo matematico significativo: nelle telecomunicazioni, nelle attività  spaziali, nell'esplorazione di giacimenti, eccetera. La matematica è assolutamente pervasiva. Per il nostro paese non è immaginabile un futuro che prescinda da una cultura matematica ben radicata: chi si trova a dover compiere delle scelte, a progettare il futuro, a usare strumenti sofisticati, deve conoscere un po' di matematica o saper apprezzare ciò che essa può offrire in quello specifico settore. Una decisione difficile deve essere presa - da un politico come da un dirigente d'industria - con cognizione di causa, la quale richiede conoscenza e una cultura anche matematica, per il ruolo che tale disciplina ricopre in questo momento. Ciò che mi spaventa di più è proprio la povertà  culturale in matematica che il nostro paese oggi dimostra!

D.: Come si raggiungono livelli di eccellenza?

R.: Io ho avuto molti compagni di studio all'università , e poi giovani colleghi ricercatori, italiani e non, con tantissimo talento, in certi casi di gran lunga superiore al mio. Però, mentre alcuni di essi sono arrivati benissimo a livelli di eccellenza, altri ci sono arrivati un po' meno bene e altri non ci sono arrivati affatto. Io credo che non esista una ricetta al riguardo. Chiaramente, uno deve possedere qualche dote intellettuale e tanta passione: dirò una banalità , ma occorre avere voglia di sacrificarsi, perché la competizione oggi è a livello mondiale. Prima bisogna dimostrare di essere bravi nella scuola secondaria, poi all'università , poi come ricercatori nel proprio paese e infine come ricercatori sul palcoscenico mondiale. Credo, inoltre, sia importante aver frequentato un'eccellente università , avere un buon relatore di tesi (di laurea e poi di dottorato) capace e conosciuto, che ti segua e che sappia farti lavorare bene, motivarti, appassionarti, darti buoni consigli. Infine, ritengo fondamentale che un ragazzo non parta con l'idea di "piazzarsi" il più in fretta possibile, perché a volte magari uno riesce a diventare ricercatore subito dopo il dottorato - sono casi rari, ma si verificano ancora - e pensa quindi di aver risolto il problema della sua vita; in realtà , prendendo questa strada, a volte si è fortunatissimi, altre volte meno fortunati. Voglio dire che spesso conviene molto di più andare a frequentare, per esempio, un post-doc all'estero, cioè trascorrere un periodo di specializzazione, magari anche in un posto disagiato, lontanissimo, perché così si ha la possibilità  di imparare qualcosa di nuovo in un ambiente diverso, di ricevere nuovi stimoli, e dunque di acquisire un vantaggio potenziale straordinario.

D.: Quindi occorre "guardare non all'albero ma alla foresta"...

R.: Sì, se volessimo esprimere il concetto in altri termini, usando un linguaggio matematico, direi che dovremmo avere la sicurezza di essere circondati da persone in grado di consigliarci in modo tale da non farci pensare che "l'ottimo locale", "il massimo locale" sia la "soluzione giusta" della nostra vita. Infatti può darsi benissimo che il vero monte da scalare sia molto più lontano e che non riusciamo a vederlo a causa di un po' di nebbia: si scorge solo il monticello locale, che, pur sembrando il punto di arrivo, non lo è assolutamente. Quindi occorre compiere le scelte giuste - contattare i maestri giusti, recarsi nei posti giusti - ma anche osare, avere il coraggio di muoversi. Non so se possa essere indicato come consiglio, ma io nella mia carriera ho adottato pure un altro principio: quello di rimettermi in discussione spesso dal punto di vista professionale. Quando ero professore al Politecnico di Milano, ho accettato l'offerta negli Stati Uniti, prestigiosa ma anche molto impegnativa, in quanto mi spostavo con la famiglia e due figlie piccole; ma volevo in qualche modo dimostrare a me stesso di poter far bene pure là , in un ambiente completamente diverso e assai competitivo. Poi mi sono comportato in maniera analoga quando ho deciso di accettare la proposta di lavorare a Cagliari, nel centro fondato da Rubbia, dove alla fine avevo la responsabilità  di un'ottantina di persone. Anche lì è stato molto faticoso, perché "pendolavo" tra Milano e Cagliari. Infine, ho fatto la stessa cosa quando mi sono recato a lavorare in Svizzera, dove all'inizio il mio gruppo di ricerca era costituito da due persone, mentre adesso ne comprende 20, grazie al fatto che diversi progetti di ricerca che abbiamo proposto ci sono stati finanziati. Quindi, io mi sono rimesso in gioco molte volte, cosa che in Italia si tende a fare raramente. Nel nostro paese cerchiamo di "sistemarci"; ma spesso, per poter crescere individualmente, è utile muoversi e rimettersi in discussione.

D.: Non c'è il rischio di "tagliarsi i ponti" e di non poter tornare?

R.: Dipende. Questo è un altro discorso, in effetti. Bisogna però dire una cosa: è molto raro - e qui sono sicuro di andare controcorrente e di non poter generalizzare poiché in altri settori disciplinari la situazione potrebbe essere diversa - che un fuoriclasse non sia riuscito a rientrare, laddove ne abbia avuto voglia, pur essendosi "tagliato i ponti". Parlo dunque di "fuoriclasse", cioè di persone molto brave. Certo, se uno va all'estero senza "tagliarsi troppi ponti", è meglio; però non bisogna avere troppa paura, perché in tal caso si rischierebbe di perdere occasioni importanti. Del resto, alla fine ti valuta il mercato mondiale, per cui se pubblichi lavori buoni su riviste diffuse in tutto il mondo, sei noto in Francia come negli Stati Uniti, come a Singapore e come in Italia. Quello della ricerca è più che mai un mercato globale, quindi se osi - cioè se vai all'estero - migliori, diventi forte, pubblichi, ti fai conoscere; dopodiché, hai un curriculum che è spendibile dappertutto. Certo, in America esso è spendibile con meno lacci e lacciuoli che in Italia; però - come ho detto prima - non penso di conoscere un fuoriclasse che non abbia avuto la possibilità  di rientrare qui, ovviamente qualora il suo intento sia stato tale. Perciò, secondo me, non bisogna dar troppo retta a certi luoghi comuni, soprattutto se si vuole emergere.

D.: Che consiglio darebbe, circa la scelta della facoltà , a un giovane che oggi stia per iscriversi all'università  ?

R.: Spesso mi capita di dare consigli di questo tipo ai ragazzi, cercando di capire quanto essi valgano - cioè se siano portati per la matematica piuttosto che per altre discipline - sulla base di dati o di intuizioni, o di un minimo di analisi. I consigli dipendono, inoltre, dal livello scolastico da cui il ragazzo parte. Se mi trovo a indirizzare chi, al termine della scuola superiore, deve scegliere una facoltà  universitaria, cerco di dire la cosa più ovvia che ognuno direbbe nel medesimo caso: «Qualunque scelta tu faccia, sii certo di scegliere un settore che ti appassiona. A quest'età  è giusto che tu provi passione per qualche materia...». Tuttavia non credo che questo sia solo un consiglio un po' naïf: in effetti, nella mia vita professionale ho avuto modo di vedere come alcune persone, compiute scelte anche apparentemente difficili - per esempio, iscrivendosi a lettere antiche nel momento in cui questo corso di laurea aveva una quantità  straordinaria di studenti - si siano poi rivelate veramente molto brave, e abbiano avuto un successo straordinario. Trent'anni fa, le facoltà  di biologia erano piene di studenti, molti dei quali non abbastanza motivati, però quelli bravi o bravissimi sono riusciti straordinariamente bene. Quindi credo che l'unico consiglio realmente da dare sia di seguire la propria passione, se la si ha. Può però succedere che uno studente sia bravo in ogni disciplina e non abbia predilezioni particolari. In tal caso, cerco di "disegnare", sulla base della mia conoscenza o della mia esperienza, qualche possibile scenario per quanto riguarda le prospettive occupazionali e professionali: così queste persone possono ricevere qualche informazione supplementare e scegliere la facoltà  partendo da una base di conoscenza un po' più ampia... quella che è mancata completamente a me quando ho frequentato la scuola secondaria.

D.: Un esempio da seguire, il suo! Grazie di tutto.

R.: Sono io che la ringrazio. (Milano, 20 dicembre 2004)

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