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Tratto da
M. Bertolani, Professione matematico, SciBooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell'editore

Enrico Giusti

Nato a Firenze nel 1940 e laureatosi in Fisica a Roma nel 1963, Enrico Giusti è professore ordinario di analisi matematica presso l'Università  di Firenze, dove, dal 1980 fino a qualche anno fa, ha insegnato tale disciplina, e adesso tiene un corso di storia delle matematiche. Dopo la laurea, ha svolto attività  didattica e di ricerca all'Università  della California, alla Stanford University e all'Australian National University di Canberra.

I suoi interessi professionali hanno riguardato principalmente le equazioni alle derivate parziali, le superfici minime, la geometria differenziale e la storia della matematica, con qualche incursione nella filosofia della matematica. Attualmente si occupa soprattutto di promuovere e gestire "Il Giardino di Archimede", il primo museo completamente dedicato alla matematica e alle sue applicazioni. Vincitore, nel 1978, del premio Caccioppoli, ha pubblicato numerosi lavori scientifici collaborando con alcuni dei maggiori matematici italiani. Inoltre, è autore di vari testi didattici e divulgativi, l'ultimo dei quali, La matematica in cucina, è da poco uscito.

D.: Professor Giusti, inizi pure a parlarci di lei...

R.: Ho 64 anni, vivo a Firenze, e da circa tre anni a questa parte mi occupo essenzialmente del "Giardino di Archimede", un museo interattivo che ha lo scopo di avvicinare il pubblico alla matematica. Ho iniziato la mia carriera scientifica laureandomi, nel 1963, in fisica all'Università  di Roma. Dopodiché, ho lavorato un po' nel campo della fisica delle particelle elementari, ma senza troppo costrutto; e in seguito mi sono dedicato alle equazioni alle derivate parziali, al calcolo delle variazioni e, soprattutto, alle superfici minime. Questo fino agli anni Ottanta, o poco oltre, quando ho cominciato a lavorare nel campo della storia della matematica, di cui ancora adesso occasionalmente mi occupo. Inoltre, all'incirca dalla metà  degli anni Novanta, mi dedico alla divulgazione in ambito museale attraverso il "Giardino di Archimede".

D.: Come si è avvicinato alla scienza? Da piccolo immaginava che un giorno sarebbe diventato un matematico?

R.: Direi che da piccolo non immaginavo proprio di diventare un matematico, e infatti all'università  mi iscrissi al corso di laurea in fisica. L'idea di scegliere una facoltà  di tipo scientifico piuttosto che una di tipo umanistico, invece, mi fu chiara sin dal ginnasio, e forse anche da prima. Ho sempre nutrito, sin da bambino, una passione - sebbene molto latente - per i giochi scientifici, soprattutto per quelli di carattere matematico. Inoltre, a scuola la matematica è sempre stata una delle mie materie preferite. Nella mia famiglia non c'erano, almeno nelle ultime 4-5 generazioni, persone che si interessassero di scienza: perciò in casa non vi erano nemmeno libri riguardanti la matematica o la fisica. Dunque, la "colpa" dell'essermi occupato di scienza è sicuramente tutta mia!

D.: Ha degli interessi, degli hobby, al di fuori della matematica? E pratica, o ha praticato, degli sport?

R.:Li ho praticati, ma come fanno un po' tutti, cioè non in maniera maniacale. In passato ho giocato a pallone - non in una squadra vera, però! - e ho praticato lo sci, rimanendo sempre sulla pista dei "conigli". Adesso vado in palestra, sia pure solo ogni tanto. Per il resto, mi piace molto ascoltare la musica: un mio cruccio è proprio quello di non avere mai imparato a suonare uno strumento. In verità , vi ho provato alcune volte, senza però portare mai a termine l'impresa, come del resto è accaduto con il tedesco: ho cominciato a studiarlo forse una dozzina di volte, ma senza mai andare oltre i rudimenti, per cui sono appena capace di dire "buonasera". Mi piace un po' tutta la buona musica, dalla leggera alla classica. Inoltre amo leggere, fin da piccolo, perché i primi libri li trovai nella biblioteca di famiglia. Cominciai, come tutti i bambini dei miei tempi, leggendo i romanzi di Salgari, il libro Cuore, che si studiava a scuola, e vari romanzi d'avventura; poi, crescendo, sono passato alla letteratura, e oggi leggo di tutto.

D.: Come è iniziata la sua carriera di matematico?

R.: Dopo essermi laureato in fisica a Roma, per una serie di circostanze fortuite venni a Firenze, dove per un paio di anni svolsi ricerca in fisica teorica presso l'INFN, l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Come spesso accade, la vita è determinata da circostanze o da coincidenze all'apparenza del tutto insignificanti: nel mio caso, fu decisiva la presenza di un mio collega e compagno di studi all'università , Giuseppe Da Prato, che era un anno avanti a me e che, una volta laureatosi, era andato a Pisa ad insegnare matematica. Egli veniva a tenere lezioni di metodi matematici a Firenze, dove io seguivo un corso di specializzazione in fisica teorica. Parlando con lui, espressi la mia insoddisfazione per lo studio della fisica teorica, e così egli mi propose di raggiungerlo all'Università  di Pisa, al corso di laurea in matematica. Andai dunque a Pisa per parlare con il professor Sergio Campanato, il quale mi offrì un posto di assistente; e due giorni dopo mi trasferii in quella città  per occuparmi di analisi matematica, un campo in cui non avevo mai lavorato.

D.: Questa fu per lei una svolta sostanziale...

R.:Sì, perché all'epoca Pisa rappresentava un "vulcano" nel campo della matematica, in quanto vi erano non dico la totalità , ma senza dubbio la gran parte dei migliori matematici italiani. Tanto per renderne un'idea, basti dire che un matematico americano, quando veniva in Europa, passava sicuramente da Pisa, un posto dove circolavano un po' tutte le idee più importanti, per cui se ne poteva sempre "intercettare" qualcuna. In quel periodo, lavoravano a Pisa Enrico Bombieri, Ennio De Giorgi, Guido Stampacchia e Aldo Andreotti, solo per citarne alcuni. Bombieri in seguito andò a Princeton, mentre gli altri, purtroppo, non sono più in vita. E, a mio avviso, non sono ancora emersi gli eredi "veri" dei vari De Giorgi, Stampacchia, Andreotti; non dico di Bombieri, perché egli è ancora vivo e attivo... Naturalmente si sono avuti nuovi bravi matematici, ma quella generazione di persone di altissimo livello internazionale non esiste più. Anche la generazione immediatamente successiva, cioè quella di cui facevamo parte io, Giuseppe Da Prato e altri, era formata da persone poi andate in giro per l'Italia: praticamente, quasi nessuna di esse è rimasta a Pisa. Alcuni, come Da Prato, vi tornarono dopo qualche tempo; ma quel periodo particolarmente roseo - anche dal punto di vista della mia gioventù - non c'è più: è ormai passato.

D.: La sua carriera, poi, come è proseguita?

R.:Il passo successivo a quello di assistente era, all'epoca, quello di professore ordinario, perchè allora non esistevano né i dottorati di ricerca né le qualifiche di ricercatore e di professore associato; di conseguenza, il cammino era in realtà  molto più semplice rispetto ad oggi. Io divenni ordinario nel 1971, vincendo il concorso per la classe di analisi matematica. La comunicazione mi arrivò negli Stati Uniti, e precisamente in California, dove trascorsi un anno, prima a Berkeley e poi a Stanford. Una volta vinto il concorso di ordinario, mi recai a L'Aquila, città  in cui rimasi tre anni. Poi andai a insegnare a Trento, dove trascorsi altri tre anni, e dove l'università  si presentava come un ambiente molto vivace, per quanto fosse nuova e piccolissima: eravamo due soli ordinari di matematica! In seguito tornai a Pisa per due anni, e nel 1980 venni qui all'Università  di Firenze, dove, fino ad alcuni anni fa, ho insegnato analisi matematica, mentre ora insegno storia delle matematiche.

D.:Parliamo di Pisa. Quanto è stata importante, secondo lei, questa città  per la matematica italiana?

R.: Moltissimo. A Pisa la presenza della Scuola Normale accanto all'università  ha sempre dato grossi risultati. Per esempio, subito dopo l'Unità  d'Italia, in questa città  si formarono quasi tutti i grossi matematici italiani, come Enrico Betti, Ulisse Dini, Vito Volterra e tanti altri. Nel periodo che va dall'unificazione del paese alla Prima guerra mondiale, la matematica italiana occupava una delle primissime posizioni nel mondo, collocandosi subito dopo quella tedesca e francese. Matematici come le figure appena citate, a cui si possono aggiungere Luigi Cremona, Corrado Segre, Guido Castelnuovo, Federigo Enriques, Tullio Levi-Civita, Francesco Severi e molti altri, godevano di un grande prestigio internazionale e ricevevano riconoscimenti per i loro contributi di estrema rilevanza. Poi l'Italia attraversò un periodo di decadenza: a Pisa, in particolare, quest'ultima fu notevole durante gli anni Trenta, e fu seguita da alti e bassi fino al secondo dopoguerra. Alla fine degli anni Cinquanta, un matematico, Alessandro Faedo, divenne rettore dell'Università  di Pisa, la quale aveva un certo numero di posti vacanti, giacché a quel tempo non vi erano molti professori ordinari né molti matematici. Faedo cominciò a far venire nella città  non, come spesso accade, persone di livello immediatamente inferiore al suo per poter primeggiare su di esse - egli primeggiava comunque in quanto rettore, e non gli importava affatto di primeggiare attraverso la matematica - bensì i migliori matematici che davano la propria disponibilità  a riguardo.

D.: Così la tendenza alla decadenza si invertì...

R.: Sì, perché Faedo scommise molto anche su persone giovani; e così, nel giro di cinque anni, a Pisa confluirono matematici di grandissimo livello: tutti, appunto, giovani o relativamente giovani, cioè sui trentacinque o quarant'anni. Ciò creò un ambiente totalmente inusuale per le università  italiane, che portò a un grossissimo balzo in avanti relativamente alla qualità  del lavoro svolto. E a questo si aggiunse un'apertura ai giovani laureati mai vista in Italia per nessun'altra disciplina, in nessun'altro posto, e in nessun altro momento. L'idea di Faedo era: «Se qualcuno ci dice che quello è bravo, lo prendiamo; non ci importa niente se non è di Pisa...». E all'università  aveva dei posti per farlo. Prima di me, da Roma giunsero a Pisa cinque o sei persone, ma non "portate" da qualcuno - per esempio, da un professore che si "porta dietro" alcuni dei propri allievi più brillanti - bensì, come successe a me, presentate da qualcuno. Si trattò di un concatenarsi di eventi rarissimo, e talvolta queste "scommesse" furono perse; ma, nella maggior parte dei casi, le persone "arruolate" in questo modo hanno poi fatto della buona matematica.

D.: Lei, in quel periodo, lavorò con grandi matematici...

R.: Sì. Io a Pisa ebbi la fortuna di lavorare prima con Campanato, in seguito con De Giorgi e, poco dopo, anche con Bombieri, che vi arrivò nel '64. Bombieri aveva la mia età  ma era già  professore ordinario, in quanto vinse la cattedra a soli 23 anni. Egli è senza dubbio un matematico coi fiocchi: devo dire che ne ho visti davvero pochi così, con una quantità  di conoscenze gigantesca! Fra noi tre, naturalmente, a fare la differenza erano Bombieri e De Giorgi, due persone molto diverse tra loro che lavorarono insieme, purtroppo, solo in quel periodo. Ci furono, in particolare, due articoli pubblicati insieme da Bombieri e De Giorgi: uno con Mario Miranda, che ora è all'Università  di Trento, e un altro con me. Ritengo sia un peccato che i due abbiano lavorato così poco insieme, perché erano quasi complementari: De Giorgi era dotato soprattutto di una grande profondità  di visione, mentre Bombieri aveva una conoscenza della matematica e una capacità  di aggredire i problemi uniche al mondo. Bombieri, inoltre, credo proprio che sia, in assoluto, l'unico matematico attualmente vivente ad aver dato contributi essenziali in tanti settori diversi ed enormemente lontani fra loro: dalle equazioni alle derivate parziali all'algebra e alla geometria algebrica. Di solito, chi lavora in uno di questi campi, quando sente un proprio collega parlare di un altro campo, non solo non è in grado di fornirgli nessun contributo, ma neppure riesce a comprendere l'argomento. Bombieri, invece, è capace di spaziare su una parte veramente sostanziale della matematica: una capacità , questa, che ho visto molto, molto di rado.

D.: E cosa ci può dire, invece, di De Giorgi?

R.: De Giorgi "vedeva assai lontano", e quando affrontava un problema riusciva ad andare parecchio in profondità . E ciò in maniera sempre molto personale, perché non leggeva molto: le cose se le "costruiva" da sé. De Giorgi ricavò, in particolare, due grandi risultati, uno sulle equazioni alle derivate parziali, e uno sulle superfici minime. In tal modo, riuscendo cioè a risolvere due problemi che all'epoca "bloccavano" un po' tutto, aprì la strada a un'enorme quantità  di lavoro. Negli ultimi tempi, poi, De Giorgi continuò a lavorare nel campo del calcolo della variazioni; ma si dedicò molto anche alla logica, perché aveva una visione assai particolare e personale dei fondamenti della matematica, che poi sviluppò insieme a Marco Forti, uno dei suoi collaboratori a Pisa. In riferimento ai due problemi citati, si può dire che De Giorgi sfondò il muro che ne precludeva la risoluzione, dando la stura a un vera e propria "ondata di piena": addirittura, lo sviluppo di alcuni settori delle equazioni alle derivate parziali non sarebbe mai stato possibile senza i risultati centrali da lui ottenuti. Probabilmente, non si può dire altrettanto per la sua ricerca nel campo della logica, anche se Marco Forti, sentendomi affermare questo, di sicuro mi contraddirebbe. Come dicevo, De Giorgi aveva una straordinaria profondità  di visione, che gli faceva intuire immediatamente il nocciolo della questione: quindi riusciva a separare le complicazioni più o meno "burocratiche" dal vero punto nodale del problema. Ciò richiede una visione assai profonda: quando si inizia ad affrontare un problema, infatti, di solito si presentano per prime le difficoltà  di tipo formale, e riuscire ad arrivare alla sua sostanza non è facile; e non è che poi, intuita la sostanza di un problema, esso si risolva semplicemente, anzi... Perciò, questa del "veder lontano" è una capacità  molto importante.

D.: Lei, fra l'altro, ha aiutato Bombieri e De Giorgi a portare a compimento la dimostrazione di un complesso problema...

R.: Sì, si tratta del problema di Bernstein relativo alle superfici minime, sorto all'inizio del Novecento e del quale tutti si aspettavano, prima o poi, una dimostrazione. Il problema prese il nome dal matematico tedesco Felix Bernstein, che però non pensava neppure lontanamente al tipo di approccio che in seguito sarebbe stato utilizzato per risolverlo. Bernstein aveva dimostrato che gli unici grafici minimi bidimensionali completi sono i piani; quindi, era naturale che poi uno si chiedesse cosa sarebbe potuto succedere in tre, quattro, cinque, ma anche in otto, nove, dieci o più dimensioni. Molto spesso, in matematica, l'estensione di un teorema a dimensioni maggiori di due si ottiene rifacendo una dimostrazione più o meno uguale a quella compiuta per il caso bidimensionale; un risultato ottenuto in questo modo la completa, ma ha un'importanza relativa. A volte, invece, si scopre che i metodi usati per dimostrare un certo teorema nel caso bidimensionale, passando al caso in tre dimensioni, non funzionano più: si scoprono, cioè, delle difficoltà  impreviste, per cui la questione diventa interessante. Il problema di Bernstein era particolarmente intrigante perché non solo in dimensione maggiore di due si doveva procedere con metodi completamente nuovi, ma sembrava che ogni passaggio da una dimensione alla successiva comportasse un cambiamento della tecnica usata. Tra l'altro, il problema venne da noi risolto in maniera "sorprendente", inattesa, perché tutti si aspettavano il contrario di ciò che trovammo: scoprimmo, infatti, 5. Enrico Giusti 103 un controesempio che dimostrava la non estendibilità  del teorema oltre una certa dimensione.

D.: Come si svolgeva il vostro lavoro?

R.:Bombieri e io lavoravamo la sera fino a tardi per andare avanti nella risoluzione del problema. Quando la mattina io arrivavo in dipartimento - un po' più tardi del solito perché, appunto, avevo lavorato fino a tardi - trovavo nel mio studio De Giorgi che aspettava per avere il resoconto di ciò che era successo la sera precedente. Poi, in genere, dopo pranzo ci vedevamo di nuovo con De Giorgi per discutere insieme le linee lungo cui procedere. La sera, Bombieri in prima linea e io in seconda battuta, come complemento, ci rimettevamo a lavorare; cosa che andò avanti per molto, per più di un mese. Questa è un po' la maniera in cui si lavora sempre: i matematici discutono insieme, e poi ognuno rimugina il problema per conto proprio; dopodiché si rivedono per confrontare di nuovo le rispettive idee. Così facendo, a furia di compiere conti, consumammo, la sera, intere risme di carta, e, durante il giorno, intere scatole di gessi; finché, alla fine, riuscimmo a mettere insieme tutte le tessere del mosaico e a dimostrare che, oltre la dimensione sette, il teorema di Bernstein non era più valido. Il problema fu dunque, a quel punto, completamente risolto, perché, dopo una serie di risultati parziali dovuti a vari matematici tra cui lo stesso De Giorgi, nel 1968 James Simons aveva dimostrato il teorema di Bernstein fino alla dimensione sette.

D.: Anche in matematica esistono le "mode"?

R.:Sì, ma non parlerei proprio di "mode". In realtà , ogni tanto in matematica succede che qualche nuova idea nasca, si diffonda e produca poi dei risultati. Magari essa sorge in qualcuno che, cercando di risolvere un problema, a un certo punto trova una certa tecnica o un certo procedimento capaci di funzionare. Qualche volta si scopre che la stessa idea funziona in tante altre situazioni, e allora, da quel momento, molti altri matematici la utilizzano in problemi diversi. Quindi, di fatto, non si può parlare di una vera e propria moda, bensì dello sfruttamento di un nuovo filone. Quando, in una miniera, si scopre l'esistenza di un nuovo filone, non è che si va a cercarne un altro: intanto, si sfrutta quello! Naturalmente, a forza di sfruttare, si arriva poi all'accademia. Più che a "mode", pertanto, in matematica si assiste all'utilizzo in massa di tecniche o di idee nuove arrivate magari da un altro campo e che vengono sfruttate dai ricercatori fin quando sono feconde, cioè danno risultati; poi l'importanza di questi risultati pian piano si affievolisce, ma è normale.

D.: C'è qualche nuovo campo della matematica che consiglierebbe a un giovane di studiare?

R.: Volendo rimanere in tema, ora va molto di moda, per esempio, la teoria del caos. Tuttavia, pure in geometria differenziale troviamo molti problemi abbastanza tosti. In matematica - ma penso che questo discorso valga per tutte le scienze - ci sono due pericoli da cui occorre che i giovani si guardino: uno è quello di mettersi a studiare problemi troppo facili. La matematica, infatti, presenta certamente dei problemi di routine: chi si adagia su questi, magari inizialmente otterrà  risultati interessanti, ma poi ne andrà  spigolando sempre di minori, compiendo soltanto piccoli raffinamenti, semplici generalizzazioni dell'esistente. Imparata una tecnica, dunque, il matematico "pigro" continuerà  ad applicarla a questioni sempre meno rilevanti: "ritriterà  sempre lo stesso orzo", e non tirerà  fuori niente di nuovo!

D.: E l'altro pericolo da cui occorre guardarsi?

R.: È quello di occuparsi di problemi troppo difficili. In pratica, Tizio (o Caio) fa un discorso del tipo: «Qual è il problema più difficile in circolazione? La congettura di Riemann? Bene, allora lavoro su quella...». Passano poi quindici anni e Tizio, non riuscendo a "cavare un ragno dal buco", sprofonda nella depressione più totale, oppure smette di dedicarsi alla matematica e si mette a fare il ciabattino! Non che la congettura di Riemann sia "proibita" - come, del resto, qualsiasi altro problema veramente importante e difficile - solo che bisogna arrivare ad affrontarla dopo aver seguito un certo cursus. Altrimenti sarebbe un po' come se uno volesse combattere subito per il titolo di campione del mondo di boxe: prima occorre misurarsi in combattimenti più facili; dopodiché, nel caso si riesca a "far fuori" velocemente i propri avversari, allora si può cominciare ad aspirare a qualcosa di più. Il livello a cui si può aspirare è un qualcosa che in matematica si vede subito, anche perché dopo i quarant'anni difficilmente si riescono a produrre tante idee geniali. Ovviamente, vi sono delle eccezioni, perché qualcuno potrebbe obiettare: «Ma come, a 75 anni Tizio ha scoperto questo...». Di solito, comunque, i risultati migliori si ottengono a trenta, a trentacinque, a quarant'anni; dopo, si verifica quasi sempre un certo declino.

D.: Come si evitano questi due pericoli, di occuparsi di questioni troppo facili o, al contrario, troppo difficili?

R.: Innanzitutto, è importante avere delle buone guide, cosa in cui occorre essere fortunati: non troviamo certo sui giornali le informazioni su quali siano e su dove possiamo trovarle! Io, in questo senso, mi reputo molto fortunato, in quanto capitai a Pisa tra il '65 e il '70, quando di matematici buoni ne circolavano davvero tanti. Anche lì, però, vi erano persone di grande valore e altre di valore minore, sebbene nell'ambiente matematico pisano di quell'epoca "minore" stesse a indicare comunque un ottimo livello. Oggi, più che allora, in qualsiasi università  si trovano persone di prim'ordine e altre meno valide: se uno non sa quali sono le prime, rischia di andare appresso alle seconde. Una buona guida aiuta molto, soprattutto nell'individuazione dei problemi interessanti e alla nostra portata. Infatti, spesso lo studente non sa distinguere i problemi "buoni", cioè che hanno senso, i quali, di solito, non sono né quelli troppo difficili né quelli troppo facili. Se capita in un ambiente scadente, un giovane rischia dunque di continuare a girare intorno a questioni irrilevanti, che magari si rivelano pure estremamente complesse; mentre i problemi buoni, senza che lo sappia, stanno "alla porta accanto".

D.: Come è cambiata la matematica nel tempo?

R.: Negli ultimi cento anni, la matematica non è che sia cambiata molto dal punto di vista strutturale. Neppure il modo di farla si è trasformato nel tempo: oggi ci si dedica ad essa con lo stesso spirito con cui la si praticava nell'antica Grecia o nel mondo arabo. Certo, con il passare dei secoli la matematica si è sviluppata notevolmente, si è estesa; però il modo in cui lo studioso si pone davanti a un problema, la necessità  di partire dalle ipotesi, di eseguire le dimostrazioni seguendo un determinato procedimento, sostanzialmente non sono cambiati. Ciò che nell'ultimo secolo è cambiato in maniera eclatante è stato invece il numero di persone che lavorano in matematica, diventato incommensurabile, più di mille volte maggiore rispetto agli inizi del Novecento: un fenomeno che, probabilmente, ha interessato anche molti altri campi. È aumentata, dunque, l'estensione della fascia di ricerca medio- buona. Il raggiungimento di risultati di livello eccezionale, invece, secondo me non dipende dal numero di persone che lavorano in questo settore. I risultati di assoluto rilievo, infatti, non aumentano in proporzione con il numero dei matematici; il loro aumento, che pure si è osservato, va riferito al fatto che nell'ultimo secolo sono scese in campo nuove nazioni in cui prima non c'era nulla: per esempio, il Giappone, in cui nell'Ottocento facevano ancora una matematica analoga a quella dell'Europa cinquecentesca.

D.: I matematici di grande talento sono in aumento oppure no?

R.: All'Università  di Firenze, quando vi arrivai io, cioè nel 1980, al primo anno avevamo 150 studenti; adesso, invece, se ne contano solo 50. Quindi si è verificato un calo notevolissimo degli iscritti, compensato in parte dal fatto che all'epoca non esisteva la laurea in informatica. Il calo, però, è stato generalizzato: ha riguardato tutte le facoltà  scientifiche d'Italia; anzi, direi di quasi tutto il mondo, perché pure gli Stati Uniti si trovano in difficoltà . Invece, il numero di studenti bravi è rimasto il medesimo di allora: un paio ogni anno, uno più uno meno. L'aumento del numero degli studenti iscritti, quindi, non significa che vi sia stato un aumento proporzionale di quelli bravi: questi ultimi, cioè, non corrispondono - diciamo - al tre percento delle matricole. I fatti dicono che la zona da cui attinge l'Università  di Firenze dà  due studenti bravi all'anno, a prescindere dal numero di iscritti. E così accade anche un po' più in generale: di matematici eccezionali, al mondo, ne vengono fuori - tanto per dire un numero - venti ogni secolo; ciò indipendentemente dal fatto che ci siano in circolazione diecimila, centomila o un milione di matematici. Il numero di matematici di livello straordinario dipende, naturalmente, da dove viene fissato il livello di soglia al di sopra del quale si è "eccezionali"; quindi è possibile anche che ne appaiano uno al secolo, ma in ogni caso esso non dipende dal numero dei matematici in circolazione. Al contrario, la quantità  di ricerca media e buona dipendono strettamente da quest'ultimo fattore, perché più gente si dedica alla ricerca e più buoni matematici vi sono in giro. Inoltre, in questo caso si crea un effetto di interazione positiva: un giovane che si reca a fare ricerca in un posto dove ci sono buoni matematici, ha molta più probabilità  di diventare anche lui un buon matematico rispetto a chi invece lavora in una struttura dove esistono soltanto persone mediocri.

D.: A cosa serve, oggi, la matematica?

R.:La matematica serve a tutto. È un po' come il nostro scheletro: da fuori non si vede, ma guai se non ci fosse! La matematica è assai importante da un punto di vista culturale perché ha accompagnato l'umanità  sin dai suoi primi sviluppi. Oggi è uno dei linguaggi più diffusi, più universali: chi non conosce questa parte importante della cultura scientifica non riesce a comprendere la moderna realtà  quotidiana in tutti i suoi aspetti. La matematica presenta anche un aspetto operativo: cioè serve perché è lo strumento che usiamo ogni giorno quando vogliamo uscire dall'approssimato e compiere ragionamenti più esatti. Essa, in altre parole, rappresenta in qualche modo la parte esatta del nostro pensiero; anzi, due dei suoi caratteri principali consistono proprio nell'astrazione e nel rigore, che poi sono anche i suoi punti di forza. La matematica sorge nel momento in cui si astrae dal contesto; dopodiché, l'algoritmo matematico, sviluppato nella sua astrattezza, lo si può riportare nella concretezza applicandolo a tutte le situazioni reali in cui ciò sia possibile. Inoltre, essendo la matematica una disciplina astratta dal contesto, il suo modo di operare deve sempre risultare quanto più possibile rigoroso e preciso. La matematica, proprio perché astrae dal contesto, serve ovunque; anzi, è il linguaggio comune di gran parte delle altre scienze, e ha numerose applicazioni nelle discipline più varie. La cosa bizzarra, però, sta nel fatto che la matematica applicata alla realtà  quotidiana molto spesso non ha niente a che vedere con quella che invece un tempo si pensava sarebbe stata un giorno applicata.

D.: Vale a dire, in concreto?

R.: Una persona potrebbe pensare, ad esempio, che le equazioni alle derivate parziali, avendo molto a che fare con la natura, si applichino di più rispetto ad altre parti della matematica. Se però andiamo a vedere la realtà , ci rendiamo conto di come l'area della matematica maggiormente applicata negli ultimi cinquant'anni sia stata invece la logica, in quanto i linguaggi di programmazione dei computer si basano, appunto, su una logica di tipo matematico, in cui le cose sono "bianche" o "nere", e in cui un solo esempio contrario basta a falsificare tutto. La logica, quindi, che prima degli anni Cinquanta sembrava una delle discipline più astratte 5. Enrico Giusti 109 del mondo, con i computer è diventata invece la parte della matematica più applicata in assoluto. Nella prima metà  del secolo scorso, il matematico inglese Godfrey Hardy, uno dei più grandi teorici dei numeri, diceva: «Sono sicuro che la teoria dei numeri non sarà  mai applicabile e, soprattutto, non sarà  mai un qualcosa che si può utilizzare in guerra». Oggi, invece, sulla teoria dei numeri si basa tutta la crittografia moderna: da quella che permette di effettuare acquisti sicuri via Internet a quella usata dai militari nelle comunicazioni. Certo, alcuni settori della matematica, come la teoria delle equazioni differenziali, si applicheranno sempre, perché gran parte dei fenomeni fisici sono descritti, appunto, da equazioni differenziali. Ma a parte queste applicazioni, per così dire, di routine, è molto difficile prevedere quale parte della matematica si applicherà  maggiormente in futuro.

D.: L'introduzione del computer cosa ha cambiato, secondo lei, nel mondo della matematica?

R.: Ha cambiato innanzitutto il calcolo numerico, che costituisce una sorta di "interfaccia" tra la matematica e le sue applicazioni: se diciamo "la soluzione di tal problema è questa" e forniamo un grosso integrale attraverso il quale risulta espressa, poi va effettivamente calcolata; oppure, se dimostriamo che la soluzione di un problema esiste e ha certe proprietà  ma vogliamo trovarla in modo esplicito, dobbiamo usare il calcolo numerico. Prima dell'arrivo del computer, quando si doveva, per esempio, progettare una nave, un numero cospicuo di persone eseguivano i conti con le calcolatrici, prima a mano e poi elettriche. Oggi, un computer compie queste stesse operazioni in un decimo di secondo, o anche meno: certe elaborazioni che in passato erano impossibili, perché avrebbero richiesto il lavoro di migliaia di persone per decine di anni, adesso sono fattibili con facilità . Il computer, quindi, oggi serve moltissimo per effettuare le elaborazioni numeriche sulla base di modelli di approssimazione o di modelli di sistemi dinamici, come quelli studiati dalla teoria del caos, che descrivono l'evoluzione nel tempo di un oggetto o di un apparato (il "sistema", appunto): basti pensare, per esempio, alle previsioni meteorologiche. Il computer, inoltre, ha cambiato la matematica aprendole nuovi campi di ricerca tout court e rivitalizzandone alcuni preesistenti.

D.: Ci può fare qualche esempio a tale proposito?

R.:Beh, un esempio è dato proprio dalla stessa teoria del caos. Una volta, infatti, si studiava l'evoluzione continua dei sistemi dinamici utilizzando le equazioni differenziali, che regolano l'evoluzione di un determinato sistema e permettono di vedere come esso si comporta nel tempo. Quando allo studio dei sistemi dinamici venne applicato il computer, si verificò una grossa rivoluzione: tornarono in auge i sistemi discreti, in quanto la macchina non calcola in modo continuo, bensì in maniera discreta; ogni stato intermedio del calcolo, in pratica, genera quello successivo a partire dal precedente. Così, grazie al computer, si potè vedere, disponendo, per di più, di una visualizzazione immediata, cosa succedeva nei sistemi dinamici in situazioni di questo tipo. All'inizio, i fenomeni caotici sembravano una curiosità , una rarità ; poi, però, si vide che essi si verificavano in un numero ampio di casi, e quindi si è ben presto aperto un nuovo campo di indagine matematica. Ma il computer ha consentito anche di rivitalizzare un campo che era totalmente secondario: quello delle geometrie finite, cioè fatte con un numero finito di punti. Dal momento che lo schermo è costituito da un numero finito di punti, i problemi della grafica sui nostri monitor hanno portato a rivedere questa disciplina in un'ottica totalmente nuova. Quindi il computer ha certamente contribuito - e contribuirà  ancora in futuro - ad allargare gli orizzonti matematici. Invece, bisogna dire che il suo influsso nella pratica matematica, ad esempio nelle dimostrazioni, è stato finora molto più limitato - sebbene non nullo - e ha portato a discussioni in qualche modo filosofiche tra gli addetti ai lavori.

D.: Si riferisce al famoso problema dei quattro colori?

R.: Sì, un tipico esempio di tali discussioni lo si ha proprio nel celebre problema dei quattro colori, sorto nella seconda metà  dell'Ottocento come un problema di colorazione delle carte geografiche: in esso, ci si domandava se quattro colori fossero sempre e comunque sufficienti per colorare gli stati di una qualsivoglia cartina geografica senza che due stati contigui qualsiasi avessero il medesimo colore. Con "carta e penna", cioè con metodi tradizionali, si dimostrò l'esistenza di un numero finito di casi possibili: se i quattro colori erano sufficienti in tutti quei casi, allora lo sarebbero stati sempre. Ma il numero finito di casi era piuttosto rilevante: chi si fosse messo ad esaminarli a mano, ci avrebbe impiegato una decina di milioni di anni! Quindi, trattandosi di un problema "risolvibile" solo in linea di principio, si era punto e daccapo. Grazie al computer, però, si è potuto realizzare un programma che è riuscito a verificare tutti i casi fornendo una risposta positiva. A quel punto, ci si è chiesti in che senso questa fosse una dimostrazione. Esistono sempre, infatti, delle ipotesi esplicite e delle ipotesi implicite. Le prime sono quelle della matematica: nel nostro caso, "è assegnata una superficie", "essa è divisa in un certo numero n di regioni", eccetera. Le ipotesi implicite, invece, sono "che la macchina funzioni effettivamente come dice di funzionare", "che il programma lungo alcune centinaia di pagine non contenga 'bachi' ", e così via. Difatti, chiunque scriva un semplice programma, anche solo di dieci righe, poi vi trova sempre qualche errore nascosto: chi ci dice, allora, che nell'algoritmo adoperato per risolvere il problema dei quattro colori, non vi sia un baco sfuggito anche a chi, eventualmente, era incaricato di verificarlo? In matematica, un uso simile del computer, cioè per "dimostrare" qualcosa, si è avuto anche in riferimento a un importante teorema di teoria dei gruppi finiti: una volta ridotto il problema a un numero finito - ma molto grosso - di casi da verificare, il computer ha fornito, appunto, il responso.

D.: Come si svolge, in pratica, il lavoro del matematico?

R.:Il lavoro del matematico si articola sostanzialmente in tre passi: ipotesi, elaborazione e dimostrazione. L'ipotesi non è intesa qui in senso strettamente matematico, cioè come seguita da una tesi: bensì, si studia un problema e si ipotizza il risultato a cui si dovrà  arrivare. Infatti, se non sappiamo dove vogliamo arrivare, non giungeremo mai da nessuna parte! Per esempio, uno dice: «Secondo me, le soluzioni di questa equazione differenziale hanno queste proprietà ...». Oppure: «Secondo me, queste superfici hanno delle singolarità  che si possono classificare nel seguente modo...». Dopodiché, si cercano esempi abbastanza particolari, tali da poter essere in qualche modo padroneggiati, e che riflettano la situazione generale. Quest'ultima richiesta non è banale: scegliere l'esempio giusto è sempre molto difficile; però, se uno ci riesce, ha già  compiuto un bel passo. Molto spesso, infatti, l'esempio è troppo ad hoc, per cui funziona solo nel caso in esame, oppure è troppo complesso, e quindi risulta impossibile padroneggiarlo. Gli esempi ci servono per "mettere alla prova" ciò che abbiamo pensato: con essi, cominciamo a orientarci finché non riusciamo a focalizzare meglio le nostre idee. Nel frattempo, cominciamo a cercare di dimostrare qualcosa, e magari scopriamo che nella dimostrazione c'è un punto piuttosto ostico; allora ci inventiamo nuovi esempi, verificando come essi "funzionino" su quello stesso punto. Così, o superiamo l'ostacolo o scopriamo di dover fare delle ipotesi aggiuntive, o, ancora, che le ipotesi iniziali erano semplicemente sbagliate. Insomma, c'è tutto un lavoro di questo tipo da compiere, e alla fine, se siamo fortunati, tutti i pezzi si mettono a posto e si trova la dimostrazione.

D.: In che modo il computer può essere di aiuto?

R.: Il computer, per quel che riguarda la costruzione di esempi e la verifica di certe proprietà , in alcuni casi può essere di aiuto. L'uso del computer nelle dimostrazioni, invece, come accennavo prima, è una faccenda molto più delicata e controversa. Ai matematici, si sa, "non importa di che colore sia il gatto, purché acchiappi i topi": se "il topo è stato acchiappato", va bene anche che ciò sia avvenuto attraverso l'impiego del computer. Naturalmente, il giorno in cui si trovasse una dimostrazione "a mano" del problema dei quattro colori, tutti quanti sarebbero più contenti e ne verrebbero tranquillizzati. Comunque, i casi in cui il computer riesce a fornire un apporto decisivo alle dimostrazioni sono, tutto sommato, pochi. Questo perché in matematica i teoremi che valgono solo per un numero finito di oggetti non rivestono grande interesse; e, d'altra parte, i risultati matematici più generali - e dunque importanti - ottenibili tramite una dimostrazione al computer sono esigui, soprattutto perché deve verificarsi un raro concatenarsi di eventi: da una parte, il riuscire a ridurre il caso generale, che coinvolge infinite situazioni, a un numero finito di possibilità ; e, dall'altra, il fatto che questo numero finito risulti troppo grande per poter essere trattato a mano, ma allo stesso tempo abbastanza piccolo per poter essere trattato dal computer. Infatti, se nel problema dei quattro colori il numero di casi da verificare fosse stato gigantesco, anche il computer si sarebbe arreso; se, invece, fosse stato piccolo - per esempio, venticinque - si sarebbe proceduto manualmente. Questi casi ad hoc, dunque, in matematica certamente si presentano, però non in grande quantità .

D.:La classica distinzione tra "geni" e "persone normali" è netta, in matematica, o esiste, piuttosto, una sorta di continuum?

R.: Esiste una specie di continuum, effettivamente. Alcuni sono chiaramente dei geni, mentre altri sono chiaramente delle persone normali; poi, tra queste due "categorie", si trova una "zona grigia" composta da coloro che, a seconda dei casi, vengono considerati da alcuni - o si considerano essi stessi - dei geni, e che invece altri considerano persone dotate ma normali. In matematica, però, c'è un aspetto positivo: senza risultati, non si è nessuno; ovvero, le persone vengono valutate, in genere, per ciò che hanno fatto. Ovviamente, l'età  incide sui risultati, perché quelli importanti richiedono tempo, cioè mesi o addirittura anni - le dimostrazioni eseguibili in mezza giornata nella migliore delle ipotesi sono sbagliate, nella peggiore inutili - ma il talento in una persona, se c'è, si nota subito. Un matematico non ottiene il grande risultato improvvisamente: un giovane talento comincia subito "a sparare bello alto", magari non altissimo, ma comunque si riesce a vedere dove colpisce. Un esempio di genio è Bombieri, un matematico di grandissimo livello, che, non a caso, ha vinto la medaglia Fields. Una persona con cui lo metterei "in competizione" era De Giorgi, che non vinse la medaglia Fields probabilmente perché il suo lavoro sulle equazioni alle derivate parziali fu contemporaneo a quello di John Nash relativo allo stesso argomento: tanto è vero che si parla di teorema di De Giorgi-Nash. Essi dimostrarono il teorema in due modi del tutto diversi fra loro, non sapendo che si stavano occupando dello stesso problema. Nash, in seguito, ricevette il premio Nobel per l'economia per il suo lavoro sulla teoria dei giochi non competitivi, che ebbe molte applicazioni.

D.: Quindi, De Giorgi era una "quasi medaglia Fields"...

R.: Le "quasi medaglie Fields" non esistono; però, il teorema di De Giorgi-Nash rappresenta uno di quei risultati che aprono la strada. Prima, nella teoria delle equazioni alle derivate parziali non lineari era tutto "bloccato"; poi, superato l'ostacolo, il settore ha conosciuto uno sviluppo a dir poco impetuoso. L'altro grande risultato di De Giorgi - quello sulle superfici minime, di cui ho parlato in precedenza - non gli valse la medaglia Fields perché quel lavoro praticamente non lo pubblicò mai, o meglio, lo pubblicò in una nota stampata privatamente e in poco più di 50 esemplari. Infatti De Giorgi, che aveva la costanza di lavorare per lungo tempo a un problema particolarmente difficile, dopo averlo risolto, quando si trattava di esporre la soluzione in un articolo da pubblicare, diventava improvvisamente pigro. All'epoca, poi, capitò il seguente fatto. Quando uno vince il concorso di professore straordinario, dopo tre anni deve superare un altro concorso molto più semplice, di conferma, per diventare ordinario, e in quell'occasione deve presentare i lavori realizzati. A De Giorgi, che non aveva pubblicato nulla nei tre anni di straordinariato, scadeva questo concorso, ed egli aveva tra le mani questo risultato gigantesco, che poi avrebbe fatto epoca, aprendo il campo alla teoria delle superfici minime in più dimensioni. Mancando ormai pochi giorni al concorso, non poteva più inviare il proprio lavoro a una rivista, perché non sarebbe stato pubblicato in tempo, considerato che non lo aveva neppure ancora scritto. Allora si mise a illustrarlo alla lavagna, di fronte ad alcuni suoi collaboratori, i quali riportarono il lavoro su carta e poi lo fecero pubblicare, a Pisa, da un editore locale. Dunque il lavoro in questione - scritto, per di più, in italiano - non comparve mai su alcuna rivista. Per carità ! Tutte le persone che avrebbero dovuto conoscerlo, ne vennero a conoscenza, ma esso non uscì mai su una rivista matematica.

D.: Cosa occorre per raggiungere livelli di eccellenza?

R.: I fattori personali sono fantasia e disciplina. La fantasia, che in parte si coltiva, è essenziale. Poi è necessario studiare: occorre occuparsi delle cose importanti e andare dietro ai maestri. Purtroppo, non sempre ciò risulta compatibile con la struttura accademica, per cui si deve sempre arrivare a dei compromessi. Chi fa un ragionamento del tipo "mi sono laureato e ho 23 anni: passerò i prossimi 10 anni a studiare", non troverà  mai posto nel- l'università , in nessuna parte del mondo. Infatti, bisogna cominciare a ottenere subito alcuni risultati; si dovrà  anche cercare di aumentare la propria cultura, però approfondendo, al tempo stesso, certi campi specifici. Questo è un po' il dilemma del giovane, perché egli, una volta giunto al dottorato, si è ormai costruito un proprio campo di ricerca, per cui poi continua a dedicarvisi praticamente disinteressandosi di tutto quel che gli sta intorno: spesso, dunque, avviene un'iperspecializzazione precoce, cheprovoca, secondo me, un grosso danno. È vero che la specializzazione aiuta perché un elemento bravo ottiene subito i risultati che gli permetteranno di vincere un concorso e di fare carriera; però c'è il rischio che egli si rinchiuda in una gabbia da cui poi non uscirà , mentre avrebbe potuto compiere ricerche molto più importanti, se avesse acquisito un ventaglio più ampio di conoscenze. Molto spesso, infatti, in matematica alcuni risultati di rilievo sono dovuti all'ingresso di idee che precedentemente erano state sviluppate in un altro settore, adiacente o, a volte, pure un po' distante. Ovviamente, non si potrà  mai riuscire a padroneggiare tutta la matematica; però, almeno alcuni campi vicini al proprio bisogna conoscerli, e occorre avere delle conoscenze di base - ma a un livello avanzato - piuttosto grosse. Io credo che non vi sia matematico che non dica, prima o poi: «Ah, se avessi saputo quest'altra cosa, sarei arrivato io a quel risultato importante cui è giunto un altro: mi trovavo proprio lì vicino, e non sapevo che...». Io stesso, se fossi stato a conoscenza di certe tecniche di geometria differenziale avanzata, avrei potuto applicarle con profitto in un problema sul quale mi sono a un certo punto fermato, mentre altri, poi, sono invece andati avanti.

D.: Quindi è anche utile lavorare in collaborazione...

R.: Sì. Il matematico lavora spesso con altre persone - con cui si deve trovare a proprio agio - e quindi anche gli articoli portano spesso due o più firme. Certo, da noi non accade come nella fisica sperimentale, dove per eseguire, ad esempio, un esperimento di fisica delle particelle, occorrono dall'esperto in campi magnetici a quello capace di far funzionare i programmi al computer, motivo per cui i lavori vengono firmati da moltissime persone insieme: in matematica siamo sempre a livelli numericamente più ridotti, considerando pure che i collaboratori devono stare vicino per mesi, se non per anni. Anch'io ho lavorato molto in collaborazione, in genere con una persona, a volte con due. Quando arrivai a Pisa, avevo uno studio insieme a Mario Miranda, che si era laureato avendo per relatore De Giorgi: poiché non si poteva stare a parlare sempre di calcio, per quanto l'argomento fosse interessante, cominciammo a discutere di matematica, e così la collaborazione nacque spontanea: andavamo insieme a trovare De Giorgi per esporgli i problemi e riceverne dei consigli, delle indicazioni: «Provate a fare così, oppure in quest'altro modo...», ci diceva. E così, in collaborazione con Miranda, pubblicai tre o quattro articoli; poi egli vinse un concorso e andò via, per cui questo rapporto di lavoro si interruppe. Inoltre, nel Dipartimento di Matematica di Pisa c'era un corridoio su cui si affacciavano tutti i vari studi, le porte dei quali erano sempre aperte; per cui, poteva capitare che un collega, passando davanti alla mia stanza, e vedendo, ad esempio, lei e me che parlavamo di matematica, entrasse, si sedesse, stesse ad ascoltarci e magari chiedesse qualche spiegazione sull'argomento. Ciò si rivelava molto utile, perché quella persona aveva modo di rendersi facilmente conto delle idee che circolavano in giro e, se si mostrava interessata, ci poteva pure "scappare" un lavoro in collaborazione. Invece, quando uno sale di grado e diventa professore ordinario, la situazione cambia: si riceve uno studio personale, per cui le collaborazioni bisogna andarsele letteralmente a "cercare", cosa non sempre facile!

D.: Lei, all'inizio della sua carriera, ha lavorato anche all'estero. Ha mai pensato di rimanervi?

R.: Io sono stato all'estero non moltissimo, e in più periodi. In particolare, ho trascorso un anno in California come visiting professor, prima a Berkeley e poi a Stanford; e, successivamente, un semestre all'Institute for Advanced Studies di Princeton. Quest'ultimo è un posto dove si fa solo ricerca, non si insegna. Io non ho mai considerato l'idea di rimanere negli Stati Uniti. All'Institute, in ogni caso, no di certo, perché il diventare professori lì è un qualcosa di difficilmente realizzabile. Probabilmente, se avessi deciso di rimanere negli Stati Uniti, avrei trovato un posto senza difficoltà , ma non ci ho mai pensato. Negli Stati Uniti, poi, c'è un ambiente molto competitivo: aspetto, questo, forse positivo per la matematica, ma certamente non per chi la pratica, dal momento che si lavora meglio quando si è più rilassati. Laggiù la competizione si sente, forte, sin da quando si arriva: anche se sei un visitatore, avverti chiaramente come tutti si aspettino di vederti pubblicare qualcosa mentre sei nel loro istituto, e di leggere nei tuoi articoli: «Questo lavoro è stato svolto mentre ero visitatore presso...». Nell'università  italiana, invece, tale pressione non si sente: nessuno si aspetta chissà  che cosa e, soprattutto, a nessuno sembra di avere "il fiato addosso". L'Italia ha proprio questo di bello - e, allo stesso tempo, di brutto - e cioè di non essere molto competitiva: qui sei tranquillo, puoi fare ricerca con calma, senza che qualcuno ti "stia dietro" per vedere quanto lavoro hai prodotto, quanti articoli hai pubblicato. In compenso, negli Stati Uniti - almeno nei posti migliori - viene sempre fatto di tutto per consentire a un ricercatore di lavorare al meglio. Infine, un'altra differenza tra la nostra università  e quella americana sta nel fatto che, in quest'ultima, lo stipendio dipende dalle pubblicazioni che si hanno al proprio attivo, e si negozia: uno, se ha ottenuto dei risultati di ricerca importanti, per cui magari c'è un'altra università  che gli fa un'offerta economica migliore, lo fa presente alla propria, facendone dunque una questione di soldi.

D.: Che vita è, secondo lei, quella del matematico?

R.: Quella del matematico è una vita che "prende" molto. Non accade, come invece per altri mestieri, che alle cinque "suoni la campana", e quindi si finisca di lavorare. Si va un po' a periodi: un matematico, quando ha un problema che gli "ronza" in testa e che non riesce a risolvere, se lo porta sempre dietro, seppure inconsciamente; così, magari, mentre sta mangiando, il cervello in realtà  gli continua a girare sempre intorno alle medesime questioni irrisolte. Ciò può portare, ad esempio, a dimenticarsi sul fornello l'uovo alla coque, che nel frattempo diventa sodo o, addirittura, brucia. Per fortuna, questi periodi sono relativamente rari: durano un po', ma poi si torna alla vita normale. Quella del matematico è anche una vita che dà  a buon mercato molte soddisfazioni perso 5. Enrico Giusti 119 nali, essenzialmente intellettuali: scoprire qualcosa di nuovo, in matematica come in ogni disciplina scientifica, gratifica sempre tantissimo. C'è un momento, quando si cerca di risolvere un problema, in cui miracolosamente tutto si mette a posto, in cui si incastra a perfezione tutto ciò che si doveva incastrare, e viene fuori un risultato che, quando uno lo vede, gli viene da dire: «Vabbè, era così facile! Com'è che non c'ho pensato prima?...». Ebbene, questo momento in cui si sistema tutto è meraviglioso! Invece, è brutto quando non si riesce ad arrivare a capo di un problema. Un giovane appena laureato, che quindi ha studiato problematiche già  note, già  affrontate da altri, poi comincia a dedicarsi con entusiasmo ad argomenti che non si conoscono bene, in cui ci sono problemi che deve risolvere: se all'inizio non ci riesce, a volte rischia proprio una crisi; anche perchè, magari, vede che il suo vicino di scrivania un altro problema l'ha risolto, sebbene quello fosse abbordabile, mentre il suo no perché troppo difficile. Perciò, l'avere un buon maestro è importante, in quanto riesce a capire il livello del proprio allievo, indirizzandolo, almeno inizialmente, verso problemi che siano alla sua portata. Dopo, ciò non importa: quando uno ha risolto due o tre problemi, e di conseguenza ha pubblicato due o tre articoli, se poi c'è una ricerca che non riesce a portare a buon fine, pazienza! Ma un giovane matematico, se gli va male il tentativo di risolvere le prime due questioni che decide di affrontare, spesso poi smette di fare ricerca.

D.: Lei si occupa da anni di divulgazione della matematica. Cosa vuol dire, in pratica, "divulgare la matematica"?

R.: Innanzitutto bisogna dire che, dopo moltissimi anni di silenzio, o quasi, oggi la divulgazione della matematica sta vivendo una stagione vivace. Vengono pubblicati articoli e libri che divulgano questa materia, e sono stati realizzati film che hanno contribuito non poco in tal senso, rivolgendosi a strati sempre più ampi del pubblico. Personalmente, ormai da una decina di anni mi interesso alla divulgazione della matematica attraverso le strutture museali. Più che di divulgazione, preferirei parlare, in questo caso, di "azione di avvicinamento" del pubblico alla matematica. La matematica è generalmente considerata dalla gente - non solo dai ragazzi - un incubo: noi che ci dedichiamo all'attività  di divulgazione vorremmo allontanare questa immagine e farla diventare, invece, un sogno: ciò è possibile rendendo la matematica familiare nelle sue parti più piacevoli perché, per chi vi si avvicina dall'angolazione giusta, essa si rivela veramente una disciplina divertente, in grado di regalare soddisfazioni intellettuali.

D.: Lei dirige un museo della matematica. Com'è fatto?

R.: È un struttura in cui cerchiamo di sviluppare al massimo l'interattività . Quindi, non si tratta di "passare davanti a delle vetrine" e di vedere qualcosa, bensì, appunto, di interagire con gli oggetti esposti, in modo da "interrogarli". La matematica, infatti, è una scienza astratta, non ha oggetti che si riconoscano immediatamente come matematici... eppure sta dentro moltissimi oggetti, ne regola il funzionamento e permette che questi svolgano la funzione per cui sono stati progettati. Nel museo esistono perciò una serie di percorsi con vari oggetti, disposti in modo tale che emerga un'interazione fra loro: fermandosi a un singolo oggetto - sia costruito apposta sia preso dalla vita di tutti i giorni - si vedrebbe e si capirebbe ben poco. Per esempio, noi nel museo abbiamo una vecchia macchina da cucire azionata mediante un pedale, il quale non è altro che la realizzazione materiale di un oggetto matematico che si inserisce in maniera piuttosto rilevante anche nella tecnologia: il quadrilatero articolato, ovvero quattro aste incernierate ai quattro estremi, che si possono muovere proprio perché il quadrilatero può essere deformato. Questo semplicissimo strumento consente di compiere le cose più strane: ad esempio, fare andare diritto un pistone in un cilindro; oppure, come nel caso della macchina da cucire, tramutare il moto alternato dei piedi in quello circolare della ruota. Da questi oggetti di tutti i giorni, cerchiamo di estrarre le strutture matematiche loro soggiacenti, collegando il mondo concreto della realtà  quotidiana a quello, più astratto, della matematica.

D.: Ci può raccontare come è nata l'idea del museo?

R.: Tutto è nato con la mostra itinerante Oltre il compasso, realizzata in grandissima parte da Franco Conti, un professore della Scuola Normale che purtroppo è scomparso qualche anno fa. Conti ed io avemmo l'idea di organizzare una mostra sulla geometria delle curve che fosse interattiva e che avesse appigli con la realtà . Così, nel '92, allestimmo questa mostra, la quale riscosse un grosso successo, tanto da continuare, itinerante, per molti anni; dopodiché, provammo a renderla stabile a Pisa, dove però non riuscimmo a convincere i possibili finanziatori circa il fatto che si sarebbe trattato di un progetto utile. Poi, siccome conoscevo da tempo il sindaco del mio paese natale - Priverno, in provincia di Latina - parlai con lui dell'iniziativa. Un po' fuori Priverno si trovava una villa cinquecentesca appena restaurata e che l'amministrazione comunale non sapeva bene come utilizzare: così, nel '99, con il sostegno del Comune di Priverno, vi insediammo il museo, cui sono affluiti circa 15.000 visitatori all'anno. Purtroppo, recentemente l'amministrazione è cambiata, e la nuova ha deciso di procedere per altre strade in maniera autonoma; di conseguenza, l'esperienza di Priverno si avvia verso la conclusione. Per fortuna, ad aprile del 2004, noi avevamo aperto un altro museo qui a Firenze, grazie all'interessamento della Provincia di Firenze e ai contributi della Regione Toscana e dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze.

D.: "Noi" chi? L'università  di Firenze?

R.: Con "noi" intendo un consorzio composto dalle università  toscane e da altri enti, chiamato "Il Giardino di Archimede", che è pure il nome di entrambi i musei; e siamo uno dei pochi consorzi esistenti che non chiede soldi ai propri consorziati. Il Giardino di Archimede, inoltre, è il primo museo al mondo, che io conosca, dedicato solo alla matematica. Esistono, certamente, musei della scienza che possiedono sezioni riservate a tale disciplina - sebbene spesso siano molto piccole - e all'estero ci sono mostre itineranti anche importanti: però, come museo stabile e aperto al pubblico, il nostro è stato il primo. Adesso ce n'è un altro in Germania e ne stanno per aprire uno pure in Portogallo, ma noi siamo stati, appunto, i primi. Il progetto iniziale, elaborato con Franco Conti, prevedeva la possibilità  di fondare vari piccoli musei in posti diversi, così che ognuno di essi servisse un bacino di utenza rappresentato dalle persone che potevano raggiungere il museo, visitarlo e tornare indietro in giornata. Naturalmente, le scuole sono il nostro target principale, ma nel caso di Firenze si può pensare anche a un turismo che viene da lontano per permanere più giorni. Al momento, non sono previste altre sedi, considerando pure che noi, dal punto di vista finanziario, ci basiamo esclusivamente sugli incassi, per cui la situazione si presenta sempre di estrema precarietà .

D.: Come mai si dedica alla divulgazione?

R.:Principalmente perché mi diverte. Se un mestiere diventa troppo una routine, preferisco cambiare attività . D'altra parte, uno dei fattori essenziali per la riuscita di qualsiasi intrapresa è proprio l'entusiasmo di chi vi si dedica: e uno si entusiasma se, appunto, si diverte. Invece, lo scopo "nobile" della divulgazione, quello che uno dichiara in giro tacendo l'altro, è cercare di avvicinare il cittadino alla matematica, tentare di alzare un po' il livello di conoscenza di tale materia da parte del pubblico, cercando di far capire come molto spesso essa entri nella vita quotidiana - magari in semplici oggetti di uso comune - senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Io ho appena pubblicato un libro, La matematica in cucina, nel quale si spiega, appunto, come tantissimi strumenti adoperati comunemente in cucina - dalla centrifuga per l'insalata alle levette di tutti i tipi, all'imbuto, agli stessi fornelli, al lavello - funzionino proprio grazie a meccanismi o a princìpi matematici. Attraverso la matematica, riusciamo pure a capire perché le salsicce cuociono prima dell'arrosto! Alcune di queste applicazioni sono "profonde", nel senso che, ad esempio, certi risultati ottenuti studiando le superfici minime a livello di ricerca si "ritrovano" applicati nella forma delle scatole dei pomodori pelati o in quella del boiler dell'acqua calda. Inoltre, lavorando nel museo, ho capito come non esistano argomenti troppo banali, in matematica. Nella nostra struttura, per esempio, è presente un mappamondo con un filo che lo percorre per un tratto: noi lo usavamo per illustrare la nozione di geodetica dal punto di vista matematico; adesso, invece, lo usiamo per far capire al pubblico come mai con l'aereo, in un volo intercontinentale, spesso convenga passare per il Polo piuttosto che andare "dritti" alla meta lungo un parallelo. L'oggetto, così utilizzato, non suscita sorpresa, ma fa esclamare alla gente: «Finalmente ho capito perché quegli imbecilli continuavano a deviare invece di andare dritti!». Infatti, sulla cartina i paralleli sono dritti, mentre nella realtà  no: cosa, questa, che inizialmente mi sembrava una banalità , mentre poi si è rivelata invece di estremo interesse per il pubblico.

D.: Quali caratteristiche deve avere, secondo lei, un buon divulgatore di matematica?

R.: Io penso che per divulgare la matematica servano le stesse qualità  che occorrono a un matematico e, più in generale, a un ricercatore: fantasia e disciplina. Naturalmente, il gusto per la divulgazione si apprende, ma innanzitutto bisogna trovarlo dentrose stessi. È quella sensazione di contentezza che proviamo quando riusciamo a cogliere un lampo di intelligenza da parte della persona a cui stiamo spiegando qualcosa. Questa, dunque, credo sia la molla fondamentale per riuscire a fare una buona divulgazione. Poi contano pure le tecniche, ma queste ultime si imparano: oggi cominciano ad esserci, ormai in varie università , una serie di master e di corsi di laurea mirati alla divulgazione scientifica in generale, che trattano pure, in particolare, di divulgazione della matematica, e che forniscono quel substrato tecnico da cui un divulgatore non può evidentemente prescindere. Infine, occorre tenere sempre presente che parlare di "matematica semplice" non è più facile che parlare di "matematica difficile": dipende dalle persone a cui ci rivolgiamo e da quanto riusciamo a comunicare loro.

D.: Che difficoltà  ha incontrato nel divulgare la matematica?

R.: L'aspetto complicato della divulgazione della matematica riguarda, secondo me, la mancanza di un criterio abbastanza spiccio per misurare il successo della comunicazione. Quando uno dimostra un buon risultato in matematica, tutto il mondo viene a saperlo: Tizio ha dimostrato un bel risultato, e quindi sale di un gradino rispetto a chi ha ottenuto risultati inferiori; inoltre, egli stesso si rende immediatamente conto di aver dimostrato un buon risultato. Invece, la comunicazione al pubblico si presenta sempre molto delicata, giacché occorre mettersi nei "panni" di altri, di persone comuni che non sanno niente di quello che sai tu, cioè che non sono tuoi "pari" in quanto a conoscenza. In ogni caso, la bontà  e il successo della comunicazione dipendono dal pubblico: se quest'ultimo è contento, la comunicazione di Tizio è buona; se invece si annoia, allora la comunicazione è scadente, nonostante, magari, Tizio sia bravissimo nella ricerca matematica. Poi, naturalmente, bisogna avere fantasia. A rendere tutto complesso è lo iato, anche temporale, tra il momento in cui un argomento viene proposto e quello in cui il pubblico lo recepisce, lo fa proprio: la difficoltà  sta proprio nel misurare in maniera oggettiva il livello di accettazione da parte del pubblico. Questo livello in un libro dipende dalle copie vendute, e, in un museo, dal numero di visitatori. Ma il fatto che siano giunti molti visitatori talvolta inganna: seguendo un approccio troppo scolastico, si rischia di diventare molto noiosi; allontandosene troppo, però, le scuole non si riconoscono più come destinatari di tale genere di divulgazione e magari il numero dei visitatori crolla. Quindi, mentre nella ricerca matematica riusciamo a capire subito se abbiamo ottenuto un bel risultato, nella divulgazione, invece, la valutazione della bontà  del proprio lavoro è molto più complicata.

D.: C'è un episodio divertente, capitatole nel corso della sua carriera scientifica, che ci vuole raccontare?

R.: Sì, ce n'è uno capitatomi quando ancora mi occupavo di fisica, e non è escluso che io poi non abbia fatto il fisico anche per questo motivo. Preparavo la mia tesi di laurea presso i Laboratori Nazionali di Frascati del CNEN. All'epoca, si cominciavano a realizzare dei nuovi acceleratori di particelle, i cosiddetti anelli di accumulazione, basati sull'idea che uno, per vedere delle particelle nuove, può accelerare le particelle che già  conosce e poi farle sbattere con grandissima energia contro un bersaglio, poiché in quest'urto si creano, appunto, tutta una serie di particelle nuove. Negli anelli di accumulazione, dunque, le particelle non si fanno sbattere contro un bersaglio fisso, bensì collidere l'una contro l'altra dopo averle accelerate in direzioni opposte lungo un anello circolare. In questi primi anelli, che erano una specie di sincrotroni, le nuove particelle si ottenevano inviando in una direzione degli elettroni negativi e nell'altra degli elettroni positivi, o positroni: quando queste particelle sbattevano fra loro o uscivano fuori dalla macchina, l'evento si osservava bene sullo schermo del computer, perché l'altezza delle tracce visualizzate sul monitor dipendeva dalla massa delle particelle stesse. Oltre a queste tracce "normali", se ne notavano, però, anche altre più piccole, e tutti si chiedevano cosa "diavolo" potessero essere! Una possibilità , per la verità  alquanto remota, era che si trattasse di particelle mai viste con una massa più grande di quella dell'elettrone. La mia tesi, dunque, consisteva nel vedere se era possibile che vi fossero veramente delle particelle mai viste che si creavano in questo modo. Per fortuna, la risposta che diedi nella mia tesi fu che no, non era possibile. E infatti, poco prima che mi laureassi, quando avevo già  scritto la tesi, si scoprì che in realtà  questi impulsi più piccoli dipendevano da Peppino, una persona che lavorava a questi esperimenti e che, stando vicino alla macchina acceleratrice, ogni tanto si girava e dava involontariamente con il gomito un colpetto sul tavolo, producendo tale effetto. Perciò, la mia tesi divenne nota in tutto l'istituto, tra gli studenti e tra i professori, come la tesi "sul gomito di Peppino...".

D.: La ringrazio molto per la bella e lunga intervista, nonché per la sua grande disponibilità .

R.: Grazie a lei. (Firenze, 21 dicembre 2004)

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