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Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell'editore

Giorgio Israel

Nato nel 1945 a Roma, dove si è laureato in Matematica nel 1968, Giorgio Israel è professore ordinario di matematiche complementari all'Università  di Roma "La Sapienza", dove ha percorso tutta la propria carriera e ora tiene due corsi: teoria dei giochi e modellistica matematica. Agli inizi si è occupato di questioni di algebra commutativa, di geometria algebrica e di teoria dei campi, e in seguito di matematica applicata alla biologia e all'economia.

Dagli anni Ottanta i suoi interessi vertono esclusivamente sulla storia della matematica e della scienza, con particolare riguardo alla matematizzazione delle scienze biologiche e di quelle socioeconomiche, e all'opera del matematico italiano Vito Volterra. Ha fornito notevoli contributi alla divulgazione e alla didattica della matematica e della scienza scrivendo numerosi articoli ed alcuni saggi pubblicati in vari paesi.

D.: Professor Israel, inizi a raccontarci un po' di lei...

R.: Ho 59 anni, e con mia moglie ed i miei tre figli vivo a Roma, dove mi sono laureato nel '68 discutendo una tesi di algebra, con relatore Claudio Procesi. Sin dall'inizio della mia carriera insegno alla "Sapienza", e mi occupo di storia e filosofia della scienza: in particolare, di storia della matematica.

D.: Come si è avvicinato alla scienza e alla matematica?

R.: Nella mia famiglia non c'erano matematici, né avvertivo una particolare spinta verso la matematica, sebbene in casa vi fossero dei libri che trattavano questa disciplina. Quando mi iscrissi all'università , infatti, scelsi il corso di laurea in fisica, sotto l'influenza di mio padre, che era un biologo e voleva che studiassi biofisica. Però ben presto cambiai corso, optando per matematica. Evidentemente, almeno in quella fase della mia vita, ero portato verso tematiche un po' più astratte, forse perché molto interessato agli aspetti di filosofia della scienza. Poi, però, capii che bisogna innanzitutto studiare la materia della quale, eventualmente, in un secondo momento si possono anche approfondire la storia o la filosofia: come prima cosa, deve essere noto l'oggetto di cui ci si vuole occupare.

D.: Ha altri interessi al di fuori della matematica?

R.: Da piccolo, a scuola, avevo una passione molto forte per la letteratura e per la filosofia. Tuttora ho una propensione per quest'ultima, oltre, naturalmente a quella per la storia, considerato che essa costituisce - in relazione alla scienza, beninteso - il mio campo di ricerca. Non nascondo che ciò possa portarmi ad un certo eclettismo di interessi: per esempio, negli ultimi anni mi sono dedicato allo studio della Kabbalah ebraica, delle relazioni tra il misticismo e la formazione del pensiero scientifico moderno, e di argomenti a questi collegati. Tale eclettismo, che talvolta rischia di comportare "viaggi" in troppi continenti diversi, ha il vantaggio di stimolare, fra soggetti molto lontani fra loro, relazioni e connessioni che possono rivelarsi fonti di idee nuove. Naturalmente, mi piace molto leggere: il romanzo classico è la mia lettura prediletta. Da piccolo, inoltre, suonavo il violino, e coltivavo abbastanza intensamente la musica. Adesso, invece, non ho più tempo per dedicarmi a questo strumento - cosa che talvolta rimpiango - in quanto esso richiede almeno un paio di ore al giorno di esercizio solo per mantenere un livello decoroso, non per migliorare. Un altro hobby che pratico con piacere è fare passeggiate in montagna.

D.: Cosa sono le "matematiche complementari", il corso da lei attualmente tenuto qui all'Università  di Roma?

R.: La denominazione "matematiche complementari" fu creata da Federigo Enriques, il quale voleva introdurre una materia dedicata alla formazione degli insegnanti, cioè alla trasmissione della matematica superiore ai futuri docenti impegnati nella scuola secondaria. Non si tratta dell'unico insegnamento di questo genere, perché esiste anche quello chiamato "matematiche elementari da un punto di vista superiore", che ha un obiettivo non molto dissimile. Però, l'etichetta "matematiche complementari" non esprime bene quel che io insegno: la storia della matematica e della scienza. Nell'università  italiana c'è ancora questa usanza un po' ridicola della titolarità  della cattedra. Quando venni chiamato a insegnare, la cattedra di storia della matematica era già  occupata da un collega: due docenti di questa stessa materia parvero troppi, e allora mi inquadrarono con un diverso titolo; mentre, in realtà , tengo due corsi di matematica, di cui uno di teoria dei giochi, e uno di modellistica matematica. Credo, comunque, che sia giusto così: un docente non dovrebbe insegnare necessariamente la materia corrispondente al proprio terreno di ricerca. Nelle università  americane si è "professori di matematica" e non, ad esempio, "di algebra superiore", o "di matematiche complementari", come invece succede da noi. Inoltre, in matematica è importante possedere una certa elasticità  di atteggiamento: spesso, coloro che sono capaci di transitare da un settore all'altro portano nuove idee, a differenza di chi resta inchiodato in eterno allo stesso argomento.

D.: Qual è stato il suo percorso di ricerca in matematica?

R.: Iniziai svolgendo le mie ricerche nel campo dell'algebra, e in particolare nell'algebra commutativa e nella geometria algebrica. Dopo qualche anno, ritenendo tali argomenti eccessivamente astratti per me, decisi di passare all'analisi applicata alla modellistica. E così fu per vari anni: finché ho fatto il matematico in forma attiva, ho lavorato nel campo della modellistica matematica applicata alla biologia e all'economia. L'entrare a contatto con i modelli dell'equilibrio economico generale mi condusse a una serie di riflessioni circa le loro carenze, spostando dunque il mio interesse verso le questioni storico-epistemologiche, che già  studiavo da qualche anno. Così abbandonai definitivamente la ricerca matematica, e da allora mi sono dedicato completamente a questi ultimi argomenti. In un certo senso, proprio l'impressione abbastanza negativa che ebbi delle ricerche nel campo della modellizzazione delle scienze non fisiche mi indusse ad abbandonarle; tuttavia, le competenze acquisite in quel periodo mi permettono di tenere corsi anche di carattere puramente matematico.

D.: Come mai è così scettico nei confronti dell'applicazione della matematica alla biologia o all'economia?

R.: In linea generale, sono giunto a conclusioni alquanto negative circa l'utilità  della matematica al di fuori della fisica, cioè del mondo dei fenomeni inanimati. Con questo non intendo dire che non esistano applicazioni importanti della matematica nel campo della biologia o dell'economia, ma ritengo che siano quelle legate più direttamente a forme di quantificazione molto immediata: per esempio, di carattere numerico o statistico. Credo infatti che sia illusorio sperare di ottenere un tipo di modellizzazione analoga a quella che si compie nel campo delle scienze fisiche, ovvero capace di conseguire leggi generali di sviluppo, di evoluzione. Il problema di fondo è che in biologia - e, ancor più nelle scienze sociali e in quelle economiche - non si fornisce un concetto di legge analogo a quello dato in fisica. E ciò senza considerare che pure nella stessa fisica il concetto di legge è in crisi! Tuttavia, indiscutibilmente, la fisica classica e la fisica moderna hanno ottenuto enormi successi basandosi sul principio secondo cui il mondo è retto da leggi universali. Ancora oggi, quando in fisica si va alla ricerca dell'unificazione delle forze fondamentali, di fatto si persegue un'immagine del mondo basata, appunto, sull'idea che esso sia retto da leggi universali esprimibili in forma matematica. In economia, invece, non esiste un'idea di legge, e quindi l'uso della matematica in senso forte non funziona: se guardassimo alla portata dei risultati ottenuti nel campo della "matematizzazione" dell'economia, la situazione ci apparirebbe abbastanza deprimente. Dopo essermi occupato di quest'argomento, soprattutto nell'ambito della modellizzazione matematica della teoria dell'equilibrio economico generale - che rappresenta il centro concettuale della teoria microeconomica - ho raggiunto la conclusione che i risultati ottenuti in questo settore sono davvero mediocri. Assieme all'economista Bruna Ingrao, ho scritto un libro proprio al riguardo, intitolato La mano invisibile, pubblicato in Italia da Laterza e negli Stati Uniti da MIT Press.

D.: La matematizzazione dell'economia può portare chi la coltiva ad arricchirsi, come talvolta i giornali lasciano intendere?

R.: Io non credo ci siano persone che diventano ricche applicando la matematica all'economia; e, a mio avviso, nessun matematico serio potrebbe pensarla diversamente in proposito. Non ritengo sia possibile portare un esempio concreto - escludendo le leggende metropolitane - di una persona che, usando la matematica in economia, si sia arricchita. Naturalmente, spesso sui giornali si leggono articoli che parlano di "formule rivoluzionarie", ma poi tutto resta a livello di discorsi generici: infatti, se tali informazioni corrispondessero alla realtà , tutti i matematici o gli economisti- matematici avrebbero ville e panfili, il che è evidentemente falso. Tornando alle questioni teoriche, dico che, mentre sono scettico nei confronti dell'economia matematica teorica, trovo invece più utile e difendibile - almeno, entro certi limiti - l'econometria: un approccio in termini statistici, probabilistici, che effettua stime e previsioni sulla base di dati empirici, senza ricorrere a leggi generali, che, come dicevo, in economia non esistono. Come descrivere, del resto, il comportamento di un soggetto economico? Quale "forza" lo muove? Come formulare la legge del comportamento individuale? Si tratta di sfide che mai nessuno è riuscito a vincere. Nell'economia teorica vi sono costruzioni di carattere concettuale e astratto estremamente complesse dal punto di vista matematico, le quali, pur avendo permesso a molte persone di vincere il premio Nobel, tuttavia non possiedono la minima rilevanza empirica. D'altra parte, la matematica "va di moda": oggi non si conferiscono più premi Nobel in economia se non ad economisti matematici, mentre anni fa essi venivano assegnati anche ad economisti di tendenza storica. A mio avviso, alla base di questo fenomeno di "moda", vi è il fatto che usare la matematica sembra essere più rigoroso e più "scientifico"; ma si tratta soltanto di un pregiudizio, talvolta un po' puerile.

D.: L'economia, dunque, non si matematizzerà  quanto la fisica...

R.: Non credo proprio. Il problema è che la matematica è troppo rigida per descrivere questioni complesse come quelle poste dai comportamenti soggettivi umani: del resto, come si potrebbero rappresentare matematicamente le preferenze - cioè i "gusti" - di un individuo? Vi sono due possibilità . La prima è rappresentare le preferenze del soggetto mediante una funzione classica, di tipo deterministico; e allora risulterebbe evidente il difetto di una simile rappresentazione, perché nessuno si azzarderebbe a dire che il comportamento umano è di tipo deterministico, come è invece quello di un oggetto fisico macroscopico. Per di più, le preferenze soggettive si evolvono nel tempo, mutano in funzione dei rapporti con gli altri, per cui sarebbe impossibile pensare di poterle fissare una volta per tutte. D'altra parte, se volessimo descrivere il comportamento soggettivo in funzione dei numerosi parametri esterni che lo condizionano, questi ultimi risulterebbero così tanti che non riusciremmo neppure ad enumerarli. La seconda possibilità  è allora quella di rappresentare i gusti o il comportamento umano in modo probabilistico. Questa strada, tuttavia, a mio parere non è perseguibile, e al riguardo concordo con il celebre matematico René Thom, il quale giudicava assolutamente ridicola la rappresentazione delle scelte soggettive in termini di 6. Giorgio Israel eventi casuali. In effetti, non vi è nulla di più lontano dalla scelta soggettiva individuale - la quale richiama immediatamente il fatto che il soggetto decide secondo fini - del procedere casuale. Anzi, il procedere casuale risulta, appunto, esattamente l'opposto dell'atto decisionale. Quindi, il problema è che non possediamo una matematica adeguata a descrivere una situazione così complessa; opinione, questa, espressa anche da uno dei più celebri matematici del secolo scorso, l'ungherese John von Neumann. Egli, pur credendo nella possibilità  di una matematizzazione del comportamento umano, riteneva che sarebbe occorso molto tempo per conseguirla: se erano dovuti trascorrere secoli e secoli per passare dalle prime osservazioni astronomiche di Tycho Brahe alla fisica moderna con tutta la sua raffinatezza, senza dubbio la matematizzazione di fenomeni enormemente più complessi - come quelli umani, appunto - avrebbe richiesto periodi ancora più lunghi. A mio avviso, chi crede che l'economia matematica - caratterizzata da poco più di un secolo di storia, e da risultati certo non brillanti - possa conseguire in breve tempo risultati paragonabili a quelli raggiunti dalla fisica, "vende soltanto fumo". Oltretutto, l'indirizzo assunto negli ultimi decenni dalla matematizzazione dell'economia è decisamente involutivo, come risulta in maniera chiara dalla storia recente della teoria dei giochi, la materia su cui attualmente tengo un corso.

D.: Che cos'è la teoria dei giochi?

R.: La teoria dei giochi è una disciplina relativamente nuova, di cui si sono occupati sia economisti sia matematici, ed è nata studiando i giochi di società , come per esempio gli scacchi. Uno dei problemi classici della teoria dei giochi consisteva nel determinare quale fosse il comportamento ottimale da seguire in una partita a scacchi. Un altro problema era il verificare se il gioco degli scacchi fosse determinato oppure no: in altri termini, se il risultato di una partita potesse essere predeterminato nel caso in cui i due giocatori seguissero un comportamento ottimale. Naturalmente, occorre definire in modo preciso cosa s'intende per "comportamento ottimale". Precisazione, questa, non banale: infatti uno, se gioca a filetto, constata immediatamente che si tratta di un gioco determinato, nel senso che la sua soluzione è la patta: in termini espliciti, se i due giocano senza commettere errori, la partita finisce senza vincitori. È stato dimostrato che anche gli scacchi sono un gioco determinato, sebbene non se ne conosca la soluzione: cioè, se vinca il bianco, il nero o si abbia una patta. Da qui nacque l'idea, sviluppata soprattutto da von Neumann intorno agli anni Trenta, di generalizzare il concetto di gioco a ogni tipo di interazione sociale, a ogni forma di competizione, intendendo con quest'ultima sia il gioco in senso stretto, sia un confronto bellico, economico, tra imprenditori e sindacati, e così via. Insomma, secondo von Neumann, purché fosse intervenuta un'idea di conflitto fra interessi contrapposti, sarebbe stato possibile ricorrere a una rappresentazione matematica di carattere generale; e in tal modo egli sperava di creare una nuova matematica, più confacente alla comprensione e alla risoluzione dei problemi economico-sociali. Naturalmente, si trattava di un'idea molto brillante. Però, l'indirizzo dato da von Neumann andava nella direzione di uno studio dei conflitti sotto la forma di una rappresentazione cooperativa. Secondo lui, cioè, generalmente i soggetti in competizione si uniscono in gruppi: in un conflitto politico "gentile", le persone tendono a raggrupparsi in partiti; in un conflitto sociale, a raggrupparsi in sindacati e in associazioni di datori di lavoro; e così via. In effetti, difficilmente si potrebbe pensare a forme di competizione che coinvolgano un gran numero di soggetti, ciascuno dei quali possa essere considerato individualmente, come un'entità  che persegue i propri fini in modo del tutto indipendente: quasi sempre ogni persona agisce in accordo almeno parziale con altre, o, quantomeno, facendo compromessi con altre. Quindi, von Neumann sviluppò la teoria dei giochi in direzione di quello che egli stesso chiamò "approccio cooperativo", il quale comportava, dal punto di vista matematico, una problematica abbastanza complessa, e, tuttavia, assai originale.

D.: E come mai si è avuta un'involuzione nella teoria dei giochi?

R.:Per il fatto che il tanto celebrato indirizzo impresso alla teoria dei giochi dal matematico americano John Nash - su cui Sylvia Nasar scrisse la biografia che poi ispirò il celebre film su questo personaggio, A beautiful mind - va nella direzione opposta all'indirizzo dato da von Neumann. Nash considerava il gioco come un processo che coinvolge n soggetti, ognuno dei quali prende le proprie decisioni secondo criteri "razionali" e in modo completamente autonomo. La soluzione data da Nash a questo tipo di problema - nota come "equilibrio di Nash" - era quella in cui ciascun giocatore fornisce la risposta migliore possibile alla migliore possibile strategia di ogni avversario; in altri termini, ciascun giocatore, analizzate per conto suo tutte le possibili strategie che l'altro giocatore potrebbe opporgli, individua come propria quella corrispondente alla miglior risposta possibile. La Nasar racconta che quando Nash si recò da von Neumann - considerato, all'epoca, uno dei maggiori matematici del mondo - per esporgli la propria teoria, questi gli disse che si trattava di un risultato banale in quanto, dal punto di vista matematico, non consisteva altro che in un "teorema di punto fisso". Tuttavia, la teoria dei giochi prese la direzione preconizzata da Nash, che, pur essendo un matematico puro, ricevette il Nobel per l'economia grazie al proprio teorema, non particolarmente rilevante dal punto di vista matematico. Quale fu il motivo di ciò? Occorre tenere conto del fatto che il cosiddetto mainstream della teoria economica è rappresentato dalla teoria dell'equilibrio economico generale, dall'approccio microeconomico - ossia in termini di agenti individuali assolutamente autonomi, e per questo è detto anche dell'"individualismo metodologico" - che ha radici nella tradizione della scuola neoclassica di Léon Walras e Vilfredo Pareto. Per gli economisti, dunque, la formulazione di Nash fu come il trionfo dell'approccio neoclassico dal punto di vista formale. A mio avviso, invece, si tratta di un approccio sterile, e questa è un'opinione condivisa da molti, sebbene nell'economia teorica il predominio del mainstream resti intatto e venga anzi rafforzato dal risultato di Nash, appunto, da cui discese la dimostrazione dell'esistenza dell'equilibrio economico generale. L'indirizzo che aveva in mente von Neumann era, secondo me, più interessante. Ciò non toglie che oggi la teoria dei giochi abbia delle applicazioni di qualche utilità  in economia: ad esempio, essa permette di ragionare in modo originale su problematiche come quelle del duopolio, dell'oligopolio e del monopolio. Inoltre, in campo militare, essa è servita per teorizzare l'efficacia del cosiddetto "equilibrio del terrore", ovvero la politica del riarmo nucleare illimitato a scopo di deterrenza. Possiamo dire che, in linea generale, la teoria dei giochi consente di analizzare in termini euristici e formali alcuni problemi finora esaminati in modo puramente qualitativo; tuttavia, la sua utilità  diretta risulta alquanto limitata.

D.: E in sociologia, la matematizzazione è - o sarà  - utile?

R.: In sociologia la situazione è, in un certo senso, peggiore di quella presente in economia. L'economia matematica si sviluppò facendo ricorso a un approccio mutuato sostanzialmente dalla meccanica; approccio rivelatosi poi abbastanza efficace, almeno in termini astratti, perché permise di dimostrare alcuni risultati totalmente inapplicabili ma molto eleganti, e perché era sostenuto da un'ideologia forte: quella della rappresentazione dei comportamenti economici mediante il concetto del mercato competitivo. In sociologia, la matematizzazione si trova ad un livello molto meno avanzato; e, comunque, l'applicazione di un meccanicismo tanto spinto diventa ancor più problematica. In fisica, il processo di matematizzazione è ormai collaudato, sappiamo bene quali sono i rapporti tra fisica sperimentale e fisica teorica, e il concetto centrale di legge - per quanto traballante - continua a sorreggere tutta la struttura concettuale. Nel campo socio-economico, il problema del rapporto tra formulazione teorica e verifica empirica risulta molto più complesso, e metterlo da parte indica un atteggiamento assai poco serio. Qui, chiaramente, la verifica empirica assume un significato diverso da quello che presenta invece nella fisica o anche nella biologia; e, oltretutto, non esiste un'osservazione analoga a quella tipica della ricerca fisica, perché si tratta di un contesto all'interno del quale noi possiamo solo guardare al passato, senza compiere esperimenti. Il modo con cui spesso si cerca di risolvere quest'ultima difficoltà  consiste nel sostituire la realtà  materiale effettiva con una realtà  virtuale costruita al computer. Il problema però si ripropone, perché occorre spiegare in quali rapporti queste due realtà , appunto, si trovino tra di loro. Anche in fisica si fa uso della simulazione, ma nel senso di immettere nel modello alcune leggi di cui conosciamo la fondatezza. La matematizzazione dei processi socio-economici andrà  avanti, ma, a mio avviso, senza produrre risultati molto significativi, a parte quello di far acquisire la cattedra ad un certo numero di persone. In generale, nelle previsioni effettuate mediante la modellistica matematica esistono vari livelli di difficoltà : per quanto riguarda il campo dei fenomeni socio-economici, si tratta di un livello straordinariamente elevato, molto superiore a quello, già  elevatissimo, che caratterizza il campo biologico.

D.: Ecco, parliamo della matematizzazione della biologia...

R.: Un argomento di cui mi sono occupato a fondo nelle mie ricerche è l'opera del matematico italiano Vito Volterra, uno dei pionieri della matematizzazione della biologia. Non c'è dubbio che in biologia esistano degli ambiti - come quelli di cui si occupò Volterra - in cui la matematica ricopre un ruolo importante ed efficace: nella fattispecie, la descrizione di una serie di fenomeni relativi alla dinamica delle popolazioni. Nelle poche ricerche che ho sviluppato sulla modellistica matematica propriamente detta, mi sono interessato precisamente di dinamica delle popolazioni, e ho studiato una classe di modelli del tipo preda-predatore suggerita da un vecchio carteggio tra Vito Volterra e suo genero, lo zoologo Umberto D'Ancona, che gli parlava di una questione suggerita dal proprio collega Silvestri. Nell'ambito della dinamica delle popolazioni è possibile, almeno entro certi limiti, compiere in laboratorio delle verifiche empiriche di una formulazione teorica, in particolare se si tratta di animali di piccole dimensioni, come gli insetti. Tuttavia, se abbiamo a che fare con animali di notevoli dimensioni, o aventi una vita media abbastanza lunga, l'osservazione è praticamente impossibile, e quindi possiamo soltanto confrontare il modello con alcuni dati storici, qualora li si possegga. Nella biologia, quindi, rispetto a quanto succede nel campo socio-economico, il problema della verifica empirica si presenta in termini meno proibitivi e, talora, è possibile compiere esperienze che permettono di confrontare la teoria e le formule matematiche con la realtà . Comunque, relativamente alla formulazione di leggi di carattere generale, i risultati sono, anche in biologia, abbastanza incerti.

D.: Ma la famosa teoria del caos non porta a una matematizzazione della biologia, delle scienze sociali o di altre discipline?

R.: La teoria del caos, in questi campi, ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, perché il cosiddetto "caos deterministico", cui lei si riferisce, è un fenomeno essenzialmente matematico di difficilissima applicazione pratica. Anzi, per certi versi, l'applicazione del caos a scopo predittivo è una contraddizione di termini. Più di un secolo fa, i matematici francesi Henri Poincaré e Jacques Hadamard scoprirono il fenomeno della sensibilità  alle condizioni iniziali: una perturbazione, piccola quanto si vuole, dello stato iniziale delle soluzioni di un sistema di equazioni differenziali, può portare a una enorme divaricazione del comportamento della soluzione perturbata rispetto a quello della soluzione iniziale. In parole povere, quando risolviamo un sistema di equazioni differenziali, non facciamo altro che determinare una serie di curve nello spazio, le quali rappresentano l'evoluzione del sistema da noi studiato. Per esempio, Poincaré studiò il moto dei tre corpi, cioè il moto di tre corpi celesti sotto l'effetto delle loro reciproche interazioni gravitazionali. Esso viene descritto, in uno spazio opportuno, da una curva che rappresenta l'evoluzione del sistema: ogni suo punto fornisce un'informazione completa circa le posizioni e le velocità  assunte dai tre corpi nel corso del tempo. Quindi, partendo da un punto della curva, che rappresenta uno stato del sistema, è possibile seguire l'evoluzione del sistema stesso per ogni istante di tempo futuro e passato. Ci si aspetterebbe che una piccolissima perturbazione della posizione e della velocità  iniziali dei corpi del sistema non portasse a un cambiamento radicale della curva; anzi, che la curva di partenza si trasformasse in una curva molto simile. Invece, non è sempre così. E questo problema della "sensibilità  alle condizioni iniziali" è molto grave, perché nella realtà  le misure che noi facciamo relative agli stati dei corpi - posizione, velocità , temperatura, eccetera - risultano sempre approssimate: quindi, il fatto che un errore di misurazione, piccolo quanto si voglia, possa portare ad uno stato che differisce radicalmente da quello che si otterrebbe in assenza di tale errore, presenta conseguenze catastrofiche dal punto di vista della possibilità  di previsione; in parole povere, la previsione diventa inattendibile, o addirittura impossibile. Il celebre fisico e storico della fisica Pierre Duhem, circa un secolo fa, definì "per sempre inutilizzabile" un risultato matematico del genere.

D.: Poi, però, nella questione sono entrati in gioco i computer...

R.: Sì. Più di mezzo secolo dopo, nel 1967, il matematico e meteorologo Edward Lorenz, mentre lavorava su alcuni modelli matematici del comportamento dell'atmosfera, risolvendo numericamente le equazioni tramite un computer, a un certo punto si trovò di fronte al fenomeno della sensibilità  alle condizioni iniziali: egli verificò che una minima perturbazione dello stato iniziale dei parametri caratterizzanti il sistema atmosferico modificava la traiettoria di evoluzione in modo da tale da condurre a un esito atmosferico radicalmente diverso. È come se prevedessimo, partendo da certi dati, una situazione di bel tempo tra sei mesi; e invece, partendo da dati perturbati - anche di pochissimo - prevedessimo un uragano, a causa di una divaricazione nell'evoluzione del sistema, destinata a crescere in modo esponenziale nel tempo. Questo è il caos deterministico, fenomeno di cui sottolineo il carattere strettamente matematico. Su questo punto vi sono grandi confusioni epistemologiche. Può darsi benissimo - forse è anche probabile - che il mondo reale sia caotico, ma dovrà  essere la matematica a dirlo: insomma, il caos sta nel modello, non nella realtà ! Esiste una divulgazione di bassa lega che ripete la storiella del cosiddetto "effetto farfalla", secondo cui il battito delle ali di una farfalla potrebbe determinare, dopo sei mesi, un uragano ai Caraibi. Naturalmente, si tratta di un'emerita sciocchezza: il battito delle ali della farfalla rappresenta la perturbazione delle condizioni iniziali, che è un fatto matematico, ma non sappiamo affatto se quel che accade in matematica accada pure nella realtà . Peggio: come possiamo affermare che un modello caotico sia effettivamente una buona rappresentazione della realtà ? Proprio il carattere caotico del modello ci impedisce di compierne un confronto appropriato con la realtà ! Tutt'al più, potremmo dire che un modello caotico può essere usato per fare delle previsioni decenti su un brevissimo periodo; ma, appena ci spostiamo sul medio periodo, ogni previsione basata su quel modello diventa inattendibile. Quindi, il fenomeno matematico del caos deterministico non dimostra che il mondo è caotico o che il mondo non è più deterministico: ci fa semplicemente constatare che esiste un limite molto serio nella rappresentazione matematica dei fenomeni, e cioè il fatto che, quando incontriamo un fenomeno che non sappiamo rappresentare se non con modelli caotici, è possibile effettuare previsioni solo sul breve periodo, perché quelle a più lungo termine risultano inattendibili. Poiché nessuno è più riuscito a costruire modelli dell'atmosfera che non presentino il caos, la scoperta di Lorenz significa che noi, per il momento, con i modelli meteorologici di cui disponiamo, non siamo in grado di 6. Giorgio Israel formulare previsioni sul medio e sul lungo periodo. Al riguardo si possono certo assumere posizioni più sfumate: per esempio, secondo René Thom, un difensore accanito del determinismo, il fenomeno del caos non abbatte la possibilità  della previsione, bensì, semplicemente, dimostra che essa è costosa, e che il suo costo cresce esponenzialmente nel tempo. Ma tale conclusione non risulta molto diversa: è solo formulata in maniera più elegante, in quanto dei costi che crescono esponenzialmente possono diventare del tutto insostenibili.

D.: Quindi, il caos studiato dai matematici non è utile...

R.: Il caos, più che utile, è interessante, e costituisce più un problema che una soluzione. Infatti, dire che la previsione è "costosa in modo esponenziale con il tempo" significa che, pur essendo in teoria possibile fare una previsione il più possibile accurata cercando di ottenere dati numerici quanto più precisi, il costo di quest'operazione risulterebbe talmente elevato da renderla, di fatto, improponibile. I matematici, inoltre, spesso mostrano un interesse modesto per le applicazioni di ciò di cui si occupano: la più grande gioia del vero matematico, infatti, deriva dal dimostrare un teorema, e possibilmente in modo elegante. Nella teoria del caos, che riguarda le equazioni differenziali ordinarie e rappresenta una parte importante dell'analisi matematica e della fisica matematica, esistono bellissimi teoremi, teorie molto eleganti, di cui il matematico si compiace. Come è stato detto da un matematico americano di cui adesso non ricordo il nome, si tratta di una matematica molto "sexy"; ma non direi che essa abbia molta utilità  pratica e predittiva. Ecco il punto: il caos è interessante, ma solo per la matematica pura e perché ha messo in crisi determinate idee classiche. Per esempio, un'idea tradizionale era che il sistema dei corpi celesti fosse quanto di più armonioso, stabile e regolare si potesse immaginare, e che, sulla base delle equazioni di Newton, si sarebbe potuta effettuare una previsione a lunghissimo termine circa la stabilità  o meno del Sistema Solare. Poi invece, non molti anni fa, il matematico francese Jacques Laskar ha dimostrato, attraverso simulazioni numeriche, che non si possono fare previsioni attendibili circa la stabilità  del Sistema Solare oltre alcune centinaia di milioni di anni, un tempo che su scala astronomica è ridicolmente breve. Il caos, dunque, è una tematica interdisciplinare e molto affascinante, ma ha sollevato più problemi di quanti ne abbia risolti. Esiste una tendenza a ricavare dal caos implicazioni sensazionalistiche infondate, come quella secondo cui esso farebbe crollare il determinismo. In realtà , si può dire il contrario, cioè che i sistemi entro i quali si presenta il caos sono assolutamente deterministici: il problema sta nel fatto che non riusciamo a prevederne l'evoluzione. Questo è un problema serio, perché uno dei capisaldi della scienza classica è stata sempre l'idea secondo cui noi, pur rimanendo sempre infinitamente lontani dalla verità , pian piano avremmo potuto avvicinarci ad essa. Il caos, invece, suggerisce l'idea che vi siano delle ostruzioni insuperabili lungo questo percorso infinito di accrescimento della conoscenza.

D.: Quali sono i più interessanti matematici italiani del secolo scorso di cui lei si è occupato come storico?

R.: Certamente Vito Volterra, un grande uomo di cultura con una concezione generale della società  e un'ampia visione politica; fu quindi una figura di primo piano nella storia italiana, sia come intellettuale che come uomo politico. Volterra era un fisico matematico e si occupò anche di applicazioni della matematica alla biologia. Fu uno dei pochissimi uomini impegnati che si opposero al fascismo; non avendo prestato il prescritto giuramento di fedeltà  al regime, fu allontanato dall'università , pagando un prezzo molto alto. Volterra aveva idee lungimiranti circa il ruolo della scienza nella società , e fondò o ideò gran parte delle istituzioni che resero moderna l'Italia scientifica, come il Consiglio delle Ricerche, la Società  Italiana per il Progresso delle Scienze, la Società  Italiana di Fisica. Dopo Volterra, farei il nome di Tullio Levi-Civita, che si occupava di fisica matematica, di analisi e di geometria differenziale. Forse, dal punto di vista strettamente matematico, egli fu il più grande matematico italiano del secolo scorso. Levi-Civita era aggiornatissimo sugli sviluppi più recenti, e creò uno strumento fondamentale per la fisica moderna: il calcolo tensoriale. Ebbe un famoso scambio epistolare con Einstein, nel corso del quale mise in evidenza alcuni errori da quegli commessi nella prima formulazione della teoria della Relatività  generale: le equazioni non avevano una forma invariante corretta. Einstein, dopo aver cercato invano di difendere la sua presentazione, alla fine si arrese, ammettendo, in una lettera memorabile: «Lei va a cavallo sulla matematica, mentre io devo accontentarmi di andare a piedi...». Levi-Civita, quindi, fu indubbiamente uno dei più grandi matematici del Novecento a livello mondiale. Poi vanno ricordati Federigo Enriques, che fu anche un grande filosofo della scienza, e Guido Castelnuovo. Assieme posero le basi della geometria algebrica moderna, con dimostrazioni non sempre rigorose e talora anche inesatte, ma introducendo idee geniali. Crearono quella che venne chiamata la "scuola italiana di geometria", all'epoca la maggiore del mondo. In effetti si può dire che, fino alla metà  del secolo scorso, la matematica italiana, nel suo complesso, occupò la terza posizione a livello mondiale, dopo la matematica tedesca e quella francese.

D.: Cosa pensa delle recenti riforme nell'università ?

R.: Ritengo che, a partire da un certo momento in poi, nei confronti dell'università  - ma anche della scuola - sia cominciato un massacro che non è finito più. Oltretutto le riforme, mediocri e discutibili, sono state fatte "a pezzi e a bocconi". Ripensando al passato, viene da dire che, se avessimo adottato la riforma proposta dal ministro democristiano Luigi Gui proprio alla vigilia del Sessantotto - motivo per cui essa venne poi data alle fiamme - oggi avremmo un'università  di punta a livello internazionale. All'inizio del processo di trasformazione dell'università  elitaria in università  di massa, l'attenzione si concentrò, soprattutto in una certa fase, sulla questione del reclutamento dei docenti, che venne gestito con immissioni indiscriminate ope legis. Si è iniziato ad affrontare il problema centrale, quello della didattica, solo con la riforma Berlinguer del '98, che purtroppo, secondo me, è stata un disastro. La nostra vecchia università  non era affatto mediocre: un buon laureato in fisica italiano che voleva fare il dottorato negli Stati Uniti si classificava sempre primo agli esami di ammissione. Infatti, negli altri paesi europei in generale, e anche negli Stati Uniti, la laurea viene conseguita ad un livello molto basso: una persona laureatasi in matematica, per esempio, in Francia non sapeva quasi nulla rispetto a un laureato italiano. Sia in Francia che in altri paesi, però, esistono scuole superiori di altissimo livello, e dopo la laurea breve vi sono alcune possibilità  di perfezionamento che qui non esistono, salvo che in limitatissime situazioni, come la Scuola Normale Superiore di Pisa, o il dottorato, che però funziona assai male. Quindi, trasformare - come è stato fatto - l'università  in un "superliceo", comporta il fatto che non avremo più personale di alta formazione. La laurea specialistica, successiva a quella breve triennale, non ovvia a questo, perché proprio il suo rapporto di dipendenza dalla laurea breve ne fa un "tappabuchi" della prima: i due anni della laurea specialistica vengono usati in gran parte per recuperare i "buchi" di quella precedente; quindi, non vi è materialmente il tempo per dare una formazione superiore.

D.: E cosa pensa, invece, del sistema dei crediti?

R.: Il sistema dei crediti - secondo il quale a ogni corso viene attribuito un certo numero di crediti, per cui alla fine lo studente, oltre ad aver ricevuto i voti degli esami, deve anche aver accumulato questi ultimi - è stato copiato dagli Stati Uniti, che però rappresentano un mondo universitario completamente diverso, basato sul fatto che le università  sono tutte private. Si tratta di un meccanismo che provoca situazioni allucinanti. Può accadere che uno studente, una volta sommate le votazioni riportate agli esami, si accorga che gli manchino uno o due crediti, e così ti bussi alla porta dello studio chiedendoti: «Sarebbe disponibile a fare una chiacchierata di un paio d'ore per darmi un credito?». Mi è successo più volte. Insomma, ormai siamo al "mercato delle vacche". Oltretutto questa riforma, introducendo un sistema estremamente farraginoso, ha fatto perdere un'enormità  di tempo per capirne il meccanismo, e per metterlo in pratica. Si tratta di un sistema basato su un principio concorrenziale: quanto più offri, tanto più hai speranza di avere studenti. Così c'è stata la "moltiplicazione dei pani e dei pesci": sono nate lauree triennali di tutti i tipi, con materie e titoli fantasiosi. Inoltre, in base alla riforma, i finanziamenti avrebbero dovuto essere collegati a una sorta di produttività , consistente nel laureare il massimo numero di persone. Di recente, l'attuale ministro dell'Università  e della Ricerca ha rilevato con soddisfazione che la produttività  universitaria, appunto, è migliorata, perché si è ridotto il numero degli studenti fuori corso e degli abbandoni, e si consegue la laurea più rapidamente. È indubbio: il livello si è paurosamente abbassato, e va avanti gente a malapena alfabetizzata! Certamente è diminuita la percentuale di abbandoni, e la laurea viene conseguita più rapidamente, ma questi non sono certo fatti positivi: anzi, sono pessimi segnali, in quanto significano, semplicemente, che le università , per non apparire improduttive, hanno abbassato gli standard qualitativi. Le visioni meramente manageriali possono portare ad autentici disastri nel campo culturale!

D.: Come dovrebbe essere, secondo lei, un buon insegnante?

R.: È difficile dare una definizione univoca di che cosa si intenda per "buon insegnante". Sicuramente, questi dovrebbe avere una certa comunicativa, una certa capacità  di interessare gli studenti, di capire se le persone che ha di fronte lo stanno seguendo, e poi dovrebbe essere chiaro nelle spiegazioni. In matematica è fondamentale fare molti esempi, mostrare numerose applicazioni ed eseguire parecchi esercizi: la cosa più sbagliata sarebbe tenere delle lezioni consistenti in una sequenza di teoremi, perché esse non servirebbero a nulla. Le dimostrazioni sono molto importanti; ma oggi, pressati come siamo dalla "velocità ", da esigenze di produttività  e da uno spezzettamento della didattica in tanti mini- corsi, esse stanno scomparendo dall'insegnamento della matematica: perciò, si finisce col fornire agli studenti i risultati in forma dogmatica, assieme a un po' di esercizi. E anche questo problema è stato creato dalla laurea triennale, che in matematica - come, probabilmente, in tutte le discipline del campo scientifico - non ha molto senso. Al limite, potremmo pensare a una laurea triennale in farmacia - che, se non erro, è rimasta invece quadriennale perché gli ordini dei farmacisti si sono opposti - dato che oggi i farmacisti si limitano, per lo più, a vendere al banco, e perciò una laurea di questa durata potrebbe loro bastare.

D.: Quale difficoltà  si incontra, nel divulgare la matematica?

R.: La matematica, secondo me, è una delle materie più difficili da divulgare. E viene detestata - ingiustamente - anche per questo motivo: non la si divulga bene e in modo accattivante, non ne viene fatto capire il senso. Inoltre, nella tradizione della scuola classica italiana, è stata sempre insegnata in modo noioso, allo stesso modo del latino: ma se, dopo aver spiegato la regola di risoluzione di un'equazione di secondo grado, chiediamo allo studente di risolvere duecento equazioni tutte uguali fra loro, quello inevitabilmente si annoierà  a morte, non riuscendo a capire il senso di tale tortura. Bisogna invece trasmettere il senso del problema, far capire a quali interrogativi la matematica risponde, che tipo di questioni essa risolve. Fare divulgazione è diverso dall'insegnare. Un eccellente insegnante universitario non incontra troppi problemi nel presentare agli altri la propria materia, perché in fondo si rivolge a persone che possiedono già  una certa preparazione o che, almeno, dovrebbero possederla. La divulgazione, invece, richiede un altro tipo di approccio, che non necessariamente tutti hanno o "hanno voglia di avere", perché richiede uno sforzo straordinario di traduzione dei concetti nel linguaggio ordinario. Esistono ottimi insegnanti universitari di matematica che non hanno assolutamente voglia di divulgare le proprie conoscenze e le proprie idee, illustrandole al pubblico in forma comprensibile. La matematica, infine, risulta difficile da divulgare perché comprende argomenti effettivamente troppo difficili per poter essere esposti in un linguaggio accessibile.

D.: Però, si può comunque riuscire a divulgare molto...

R.:Sì, in realtà  si può divulgare parecchio della matematica: questioni che attengono, per esempio, ai numeri - di cui tutti abbiamo un'idea - oppure tematiche che hanno un risvolto applicativo. Quando la matematica viene vista come qualcosa che nasce nel contesto della descrizione dei fenomeni naturali, riesce più facile spiegarne i concetti. Personalmente, ho sempre usato questo approccio: far capire il ruolo della matematica nella natura, nella società  e nel pensiero moderno; approccio che credo funzioni. Ritengo che lo scopo più importante della divulgazione sia quello di suscitare interesse per il sapere, di accrescere il livello di conoscenza del mondo, e di soddisfare la curiosità  intellettuale delle persone. Oggi tendiamo ad occuparci troppo ed esclusivamente di argomenti di carattere tecnico: occorre invece far capire come la scienza non si riduca alla sola tecnologia, bensì si leghi all'esigenza di rispondere a domande fondamentali sul piano della conoscenza. Nella società  italiana, che ha una cultura scientifica piuttosto modesta, il matematico viene visto come un personaggio strano, che genera un moto di terrore e di orrore. Questo è dovuto a vari fattori: una cattiva divulgazione; il fatto che non si sia mai stati capaci di trasmettere al pubblico in modo efficace i concetti matematici; il fatto che si compiono divulgazioni noiose o troppo aristocratiche; il fatto, infine, che il giornalismo scientifico tende spesso a raccontare cose che non stanno "né in cielo né in terra". Circolano troppi ricercatori mediocri che, lavorando in ambiti marginali e non venendo presi sul serio in ambito scientifico, tuttavia riescono facilmente a trovare qualche sede giornalistica disposta a dare loro spazio solo perché propongono "cialtronate" che fanno effetto, come l'equazione della felicità  oppure quella dell'amore. Un esempio scandaloso in questo senso si è avuto proprio pochi mesi fa...

D.: Di che si tratta? Cosa è successo?

R.: Il giornale La Repubblica, all'inizio dell'agosto 2004, ha pubblicato a tutta pagina un articolo sul postulato delle parallele. La persona che lo ha firmato - di cui non ricordo il nome perché non l'avevo mai sentito prima - raccontava di un matematico libanese che per quarant'anni avrebbe lavorato alla dimostrazione del quinto postulato di Euclide: quello delle parallele, appunto. Nel- l'articolo si raccontava che questo matematico avrebbe riempito centinaia di quaderni nel tentativo di arrivare a una dimostrazione del postulato, e adesso riteneva di esservi pervenuto: anzi, diceva di averne trovata più d'una. E il giornalista proseguiva con frasi davvero risibili, dicendo, fra l'altro, che quel matematico aveva presentato tali lavori alle principali accademie europee, da cui aspettava una risposta; in proposito, commentava: «Speriamo che lo prendano sul serio e che non assumano un atteggiamento di supponenza...». Insomma, la cialtroneria scientifica veniva sostenuta con un argomento terzomondista! Oltretutto, il matematico libanese dichiarava che, nel caso la sua dimostrazione fosse stata riconosciuta, avrebbe chiesto di rivedere tutti i libri di matematica del mondo espungendo da essi le geometrie non euclidee. Difatti, a suo dire, queste ultime sarebbero la rovina dell'umanità , in quanto danno l'idea dell'esistenza non di uno spazio unico e assoluto - come, appunto, quello euclideo - ma di molti spazi diversi fra loro. Insomma, le geometrie non euclidee sarebbero la fonte del relativismo, dell'ateismo, e del materialismo! I lettori di un giornale come La Repubblica saranno un paio di milioni: non tutti avranno letto quella pagina, ma molti senz'altro l'avranno almeno scorsa. Dunque si è fatto credere, a chissà  quante migliaia di persone, che il postulato delle parallele è dimostrabile, sia pure in linea di principio. Così, magari, domani potrà  capitarmi di incontrare uno studente che sosterrà  questa follia; e, anche se gli dicessi che si tratta di una cialtronata, probabilmente mi risponderebbe: «Non è possibile. L'hanno scritto anche su La Repubblica, dedicandogli una pagina intera! Può uno dei primi giornali italiani essere così poco serio?». Ebbene sì, può esserlo, perché questo fatto incredibile è accaduto.

D.: Spesso sui giornali si nota pure un abuso della matematica...

R.: Sì, e lo si nota attraverso un fenomeno che indirettamente ha a che fare con la matematica: non passa giorno senza che su qualche giornale non si annunci la scoperta di un determinato gene: per esempio, quello della paura, dell'aggressività  o della timidezza, i quali permetterebbero di curare tutti e tre questi problemi. L'altro giorno, per caso, ho acceso la radio mentre stavano intervistando un biologo proprio su questo argomento. Il biologo diceva che alcuni esperimenti compiuti su animali invertebrati avevano determinato in questi, posti in condizioni di aggressività , la produzione di una certa sostanza; quest'ultima, trasferita negli stessi animali in condizioni opposte, produceva di nuovo aggressività . Il giornalista tendeva al sensazionalismo, e quindi diceva: «Bene! Allora abbiamo trovato un potenziale sistema di cura per...» e faceva alcuni esempi; al che il ricercatore ha osservato onestamente come non si potesse stabilire un legame causale così stretto da far considerare quella sostanza come l'unica responsabile dell'aggressività , dal momento che, soprattutto passando ai vertebrati, la quantità  di interazioni con l'ambiente e con gli altri fattori in gioco sarebbe risultata incredibilmente grande. Ecco un tipico esempio di una forma potente di diseducazione scientifica: la confusione tra causalità  e correlazione. Infatti, un conto è dire che nel prodursi di un fenomeno si manifesta sempre la concomitanza con una certa circostanza; e un conto è dire, invece, che questa stessa circostanza ne è la causa. Il fatto che esista una correlazione tra il fumo e il cancro al polmone è indubbio, ma dedurre da ciò che tutti coloro che fumano avranno un cancro al polmone è assurdo! Eppure, giornalisti anche autorevoli forniscono la cifra dei morti dovuti al fumo con una precisione spinta all'unità , e parlano di "morti per fumo", anziché di "morti per cancro polmonare", espressione che corrisponde all'unico dato oggettivo. Infatti, come potremmo stabilire, con assoluta certezza, se il cancro polmonare di cui è morta una persona sia dovuto a motivi genetici piuttosto che a un certo tipo di lavoro, allo stress o all'inquinamento provocato dalle automobili? Insomma, ci sono in gioco così tanti fattori che risulterebbe impossibile porre un legame di stretta dipendenza causale tra il fumo e la morte per cancro polmonare; al massimo, potremmo compiere delle stime, dicendo che il fumo incide in modo significativo. Questo modo di fare, dunque, è diseducativo dal punto di vista scientifico, perché porta la gente a confondere un concetto statistico, come quello di correlazione, con il concetto di causalità .

D.: Questa era la mia ultima domanda. La ringrazio molto.

R.: Grazie a lei. (Roma, 5 ottobre 2004)

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