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Sullo sfondo di una delle pagine più drammatiche del 900,"la vita è bella" di Benigni risulta un miscuglio perfetto tra tragicità e comicità .come se alla fine la nostra esistenza non sia altro che l'alternarsi di questi due momenti.come se in questo mondo non esista gioia senza dolore,felicità senza tristezza.come se sia necessario che la nostra risata si trasformi sempre in amarezza e poi in pietà .in fin dei conti è come diceva Montale "tra l'orrido e il ridicolo il passo è un nulla".
Materie trattate: italiano, latino, storia, filosofia, storia dell'arte, scienze della terra, inglese
Introduzione: documenti vari
Storia: olocausto
Latino: Trimalcione, Petronio
Filosofia: Nietzsche
Scienze della terra: la nascita della vita sulla terra
Inglese: Macbeth, Shakespeare
Storia dell'arte: I pagliacci di Picasso
Italiano: Pirandello, tragicommedie
“LA VITA E’ BELLA”
Molti si sono chiesti come sia possibile intitolare un film sull’olocausto “la vita è bella”. Forse
perché Benigni rimane quello che è sempre stato, un provocatore. E invece no. Perché non si può
che rimanere commossi dal Benigni poeta, che nelle due ore di film canta il suo inno alla Vita,
anche quando il Mondo, senza alcun ritegno, si rivela il peggiore dei mondi possibili. L’idea di
salvare il proprio figlio dall’orrore facendogli credere che tutto è un gioco, è una denuncia tanto
originale quanto forte. In fondo è un atto estremo di non-accettazione della follia nazista, un non-
riconoscerla, non attribuirle importanza. L’equilibrio tra drammaticità e comicità è perfetto, e nello
stesso tempo tra le lacrime si riesce ad abbozzare una risata. E poi, l’amore. L’amore di un marito
che adora la sua “principessa” e si commuove quando ascolta la Barcarola di Hoffmann. L’amore di
un padre che fino all’ultimo, anche quando ormai la brutalità dell’uomo ha pervaso ogni minima
speranza, anche quando un fucile puntato gli ricorda che la morte è ormai a un passo, ride e scherza
perché il figlio non cresca pensando che la vita non è poi così bella.
Tratto dal libro “La vita è bella”
Il titolo
Ho scelto il titolo “La vita è bella” perché sembra una frase consumata e invece vuol dire proprio
quel che dice: la nostra vita è bella. Anche nei grandi momenti di sconforto quella frasettina spezza
il costato, avviluppa il cuore, fa sentir piú dolce tutto il mondo. E' anche un bel verso, ora perché
l'abbiamo già sentito mille volte, ma il primo uomo che ha detto a una donna: «I tuoi occhi sono
come le stelle» è il piú grande poeta del mondo. Cosí come chi ha detto la prima volta «la vita è
bella». Anche Primo Levi molto dolorosamente in “Se questo è un uomo” scrive: «Pensavo che la
vita fuori era bella e che avrebbe continuato a essere bella». «La vita è bella» è una frase che usa
anche Trotzkij alla fine dei suoi diari. L'ha trovata Vincenzo Cerami, uno dei piú grandi
sceneggiatori del mondo, quando ci vuole ci vuole
Il comico e il pregiudizio
“La vita è bella” non è una commedia, ma io sono un comico, questa è la differenza. Ci sono dei
pregiudizi contro la commedia. Einstein diceva: «E piú facile disintegrare un atomo che un
pregiudizio».
Talvolta soltanto i clown arrivano a esprimere quello che gli attori tragici non riescono a esprimere.
Nel film il mio personaggio resta un clown in un campo di concentramento, che prova a
sopravvivere in una situazione estrema. Un uomo travestito da donna è il livello piú basso della
farsa. Ma questo travestimento arriva nel momento piú tragico del film: quando il mio personaggio
sta per morire. Allora io utilizzo il trucco piú terra terra della farsa per farne una tragedia, è l'ultima
risata in quell'orrore, una risata che ci resta di traverso in gola. La scena mi piace perché lí non sono
piú comico, ma orribile. E come dice Montale, «Tra l'orrore e il ridicolo il passo è un nulla».
La vita è bella come la vedo io
Il film è sdrammatico. Non è una parodia e non è neppure un film neorealista, è una fiaba. Non è
malinconico, è commovente e la cosa è ben diversa. Quando la risata sgorga dalla lacrima si
spalanca il cielo. Finisce il primo tempo che gli spettatori hanno le lacrime agli occhi dalle risate e il
secondo tempo che hanno le risate per le lacrime agli occhi. Roberto Benigni
IL DIARIO DI ANNA FRANK
Questa è una storia vera, che mostra tutti i suoi lati positivi e negativi dell'esistenza umana. E’ un romanzo
bello e triste allo stesso tempo. Bello perché ci fa capire veramente il senso della vita, affrontato da una
ragazza di soli 13 anni. Triste perché tutti i desideri, tutte le idee che appartenevano ad Anna, sono state
distrutte, buttate all'aria, per il semplice fatto che lei, ragazza innocente, era di origini ebree.
Mercoledì, 8 luglio 1942 Cara Kitty,
da domenica mattina a oggi sembra che siano
passati degli anni. Sono avvenute tante cose da far
credere che il mondo si sia capovolto. Ma, Kitty,
vedi bene che vivo ancora, e questo è ciò che
conta, dice papà.
Sì, effettivamente io vivo ancora, ma non mi
domandare dove e come. Penso che oggi non
capirai più nulla di me, perciò comincerò a
raccontarti quanto è avvenuto nel pomeriggio di
domenica.
Alle tre (Harry se n'era appena andato, per tornare
più tardi), qualcuno suonò alla porta. Io non udii,
perché stavo in veranda e leggevo prendendomi il
sole distesa su di una sedia a sdraio. Poco dopo
comparve Margot, eccitatissima, alla porta della
cucina. «C'è una chiamata delle S.S. per papà»
mormorò «mamma è già andata dal signor Van
Daan.» (Van Daan è un buon amico, collaboratore
di papà nella ditta.) Mi spaventai immensamente;
una chiamata, si sa che cosa significhi. Nella mia
mente già vedevo campi di concentramento e celle
di segregazione. E doverci lasciar andare il babbo!
«Naturalmente non si presenterà» mi spiegò
Margot, mentre in camera aspettavamo il ritorno
della mamma.
«Mamma è andata da Van Daan per consigliarsi se convenga trasferirci nel nostro rifugio segreto.
Siccome i Van Daan verranno con noi, saremo sette in tutto.» Silenzio. Non potevamo più parlare.
Il pensiero di papà che, senza sospettare nulla di male, era andato a visitare dei vecchi all'Ospizio
ebraico, l'attesa di mamma, il caldo, la tensione, tutto ci faceva tacere. Suonarono di nuovo. «E'
Harry» dissi io. «Non aprire» fece Margot, trattenendomi. Ma era inutile: udimmo mamma e il
signor Van Daan che parlavano di sotto con Harry, poi entrarono e chiusero la porta dietro di sé.
Ora a ogni scampanellata io o Margot avremmo dovuto scendere piano piano per vedere se era
papà, e non aprire a nessun altro.
Margot e io fummo mandate fuori della stanza. Van Daan voleva parlare da solo con mamma.
Quando ci trovammo nella nostra camera da letto, Margot mi raccontò che la chiamata non
riguardava papà, ma lei. Ne fui più che mai spaventata e cominciai a piangere. Margot ha sedici
anni: dunque vogliono proprio portare via da sole delle ragazze così giovani? Ma per fortuna non ci
andrà, anche mamma lo ha detto; a questo si riferiva il babbo quando parlava con me di
nasconderci.
Nasconderci! dove dovremmo nasconderci, in città, in campagna, in una casa, in una capanna,
quando, come, dove...? Erano problemi ch'io non volevo pormi, e che tuttavia continuamente
riaffioravano. Margot e io cominciammo a stipare l'indispensabile in una borsa da scuola. La prima
cosa che ci ficcai dentro fu questo diario, poi arriccia-capelli, fazzoletti, libri scolastici, un pettine,
vecchie lettere; pensavo che bisognava nascondersi e cacciavo invece nella borsa le cose più
assurde. Ma non me ne rammarico, ci tengo di più ai ricordi che ai vestiti.
Alle cinque finalmente arrivò papà; telefonammo al signor Koophuis e gli domandammo se sarebbe
potuto venire ancora la sera stessa. Van Daan andò a prendere Miep. Miep lavora con papà dal 1933
ed è divenuta una nostra intima amica, così come il suo novello sposo Henk. Miep arrivò, mise in
una borsa scarpe, vestiti, biancheria, calze, e li portò via promettendo di tornare la sera. Poi vi fu
silenzio nella nostra casa; nessuno di noi quattro volle mangiare, faceva ancor caldo e tutto appariva
tanto strano. Avevamo affittato la grande camera del piano di sopra a un certo signor Goudsmit, un
uomo divorziato, sulla trentina, che quella sera sembra non avesse nulla da fare, perciò rimase a
ciondolarci attorno fino alle dieci, e con buone parole non c'era verso di liberarcene. Alle undici
giunsero Miep e Henk van Santen. Scarpe, calze, libri e biancheria scomparvero ancora una volta
nella borsa di Miep e nelle profonde tasche di Henk; alle undici e mezza se n'erano andati anche
loro. Io ero stanca morta, e sebbene sapessi che quella era l'ultima notte che avrei passato nel mio
letto, dormii sodo e fui svegliata alle cinque e mezza dalla mamma. Per fortuna faceva meno caldo
che domenica, e piovve poi tutto il giorno. Ci infagottammo tutti e quattro come se dovessimo
passare la notte in una ghiacciaia, e ciò allo scopo di portar via quanto più vestiario potevamo.
Nessun ebreo, nelle nostre condizioni, avrebbe osato uscir di casa con una valigia piena di abiti. Io
avevo addosso due camicie, tre calzoncini, una sottoveste, una sottana, una giacchetta, una giacca
da estate, due paia di calze, scarpe pesanti, un berretto, uno scialle e altro ancora; soffocavo già
prima d'uscire di casa, ma nessuno se ne preoccupava.
Margot riempì la sua cartella di libri scolastici, tolse la bicicletta dalla rimessa e filò dietro a Miep
per destinazione a me sconosciuta. Io infatti continuavo a ignorare dove fosse il luogo misterioso
che ci attendeva. Alle sette e mezza anche noi ci chiudemmo la porta dietro; l'unico essere da cui
presi congedo fu Moortje, il mio gattino, che avrebbe trovato buon alloggio presso i vicini, come
era detto in una lettera indirizzata al signor Goudsmit.
In cucina un bel pezzo di carne per il gatto e le tazze della colazione sul tavolo, i letti disfatti, tutto
lasciava l'impressione che noi fossimo scappati a rotta di collo. Ma le impressioni degli altri non ci
importavano, noi volevamo andar via, via, e arrivare al sicuro, nient'altro.
Continuerò domani.
La tua Anna. Anna Frank
SE QUESTO E’ UN UOMO
Se questo è un uomo è un libro rigorosamente semplice e asciutto nella scrittura, senza domande,
ma colmo di riflessioni in grado di sollecitare costantemente il lettore. Proprio qui sta la sua
potenza espressiva, integra e attuale malgrado tanti anni dalla sua pubblicazione: nel suo
presentarsi ai nostri occhi come un libro impossibile, impossibile da scrivere e da riscrivere; un
romanzo che, trattando di genocidio, sa portarci in contatto con i misteri più insondabili e
raccapriccianti insiti nella natura umana. Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sí o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piú forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
SE QUESTO E’ UN UOMO
Sul fondo
Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l'autocarro si è fermato, e si è vista una grande
porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni):
ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera
vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell'acqua nei radiatori ci
rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c'è un rubinetto: sopra un cartello, che
dice che è proibito bere perché l'acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è
una beffa, « essi » sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera, e c'è un rubinetto, e
Wassertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l'acqua è tiepida e
dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l'inferno. Oggi, ai nostri giorni, l'inferno deve essere cosi, una camera grande e vuota, e
noi stanchi stare in piedi, e c'è un rubinetto che gocciola e l'acqua non si può bere, e noi aspettiamo
qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come
pensare? Non si può piú pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo
passa goccia a goccia. Non siamo morti….
…. Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi
l'uno sull'altro. Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi