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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2009

Titolo: Trent'anni che sconvolsero la fisica

Autore: Ribet Federico

Descrizione: la tesina, ispirata all'omonimo saggio di divulgazione scientifica del fisico g.gamow, espone la storia della teoria dei quanti e la crisi epistemologica che ne conseguì.

Materie trattate: Fisica, Filosofia, Scienze, Astronomia

Area: scientifica

Sommario: Fisica, George Gamow, Trent'anni che sconvolsero la fisica, La storia della teoria dei quanti; Fisica, Dal Big Bang ai buchi neri, S.Hawking, Teoria del Tutto.

Estratto del documento

Il corpo nero

Nel 1860 il fisico Gustav Robert Kirchhoff introdusse la nozione di “corpo nero”, un oggetto capace di

assorbire completamente onde elettromagnetiche di qualunque lunghezza d’onda. Poiché ogni corpo può

emettere le stesse lunghezze d’onda che è in grado di assorbire, il corpo nero è anche capace di emettere

radiazioni di qualunque lunghezza d’onda. Il corpo nero è un modello ideale che non esiste in natura (anche

se ci si può avvicinare parecchio).

In laboratorio è costituito da un oggetto cavo mantenuto a temperatura costante le cui pareti assorbono ed

emettono continuamente radiazioni di tutte le possibili lunghezze d’onda. L’introduzione di questo

dispositivo permise di condurre misure sempre più accurate sulle proprietà della radiazione di corpo nero. Fu

così possibile giungere a diversi risultati sperimentali.

Lo spettro della radiazione emessa dipende dalla temperatura e non dalla composizione chimica e geometrica

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del corpo. Al crescere di la lunghezza d’onda

T, A AA

λ

defined. a cui corrisponde il massimo della curva si sposta verso minori.

λ

Max

A

La distribuzione ottenuta sperimentalmente è nettamente in disaccordo con la previsione classica, per la

0

λ gli spettri crescevano indefinitamente.

quale, applicando le equazioni di Maxwell, per 

Questo mise in crisi i fisici alla fine dell’Ottocento.

Il Cubo di Jeans

Il cubo di Jeans è una scatola cubica le cui pareti interne sono composte da specchi ideali che riflettono

totalmente la luce.

Supponiamo di servirci di tale cubo per un esperimento concettuale:

Facciamo entrare un po’ di luce rossa e, per ottenere uno scambio di energia tra la onde stazionarie, vi

inseriamo all’interno un corpo nero (il carbone ne è una buona approssimazione).

6

Per il principio di equipartizione (quello valido per le particelle browniane) l’energia della luce introdotta nel

cubo si trasformerebbe in luce viola, ultravioletta, raggi x, raggi gamma e così via senza limite.

Esattamente come accadrebbe alle corde di un pianoforte a coda se non ci fosse un processo di smorzamento:

l’energia si propagherebbe a tutti i tasti e quindi, nel caso di un pianoforte infinito, fino agli ultrasuoni.

Per intendersi sarebbe davvero temerario starsene accanto alla luce del caminetto, che in questo modo si

trasformerebbe presto nella pericolosa radiazione emessa dai prodotti di fissione!

Evidentemente, dato che ciò non accade, c’era qualcosa di sbagliato nella teoria del XIX secolo, che

prevedeva appunto questa ‘’catastrofe ultravioletta’’.

L’ipotesi di Planck

Alla riunione della Società Tedesca di Fisica del 14 Dicembre 1900 Max Planck, un fisico classico, espose le

sue idee a proposito della spiegazione dello spettro del corpo nero, formulando un modello che forniva

risultati in perfetto accordo con le curve sperimentali.

Nella conferenza egli affermò che si poteva porre rimedio alle conclusioni paradossali dei due esperimenti

descritti prima se “si poneva come postulato che l’energia delle onde elettromagnetiche può esistere soltanto

sotto forma di certi pacchetti discreti, o quanti, essendo il contenuto in energia di ogni quanto direttamente

proporzionale alla frequenza corrispondente”.

L’energia E scambiata con le pareti è dunque: E n h f

= ⋅ ⋅

dove è la frequenza, è un numero intero e è un coefficiente detto costante di Planck, il cui valore

f n h

−34

6

, 62618 10 J s

⋅ ⋅

numerico è .

Il valore numerico estremamente piccolo di questa costante fa sì che la teoria quantistica sia del tutto

trascurabile in fenomeni su grande scala ed emerga soltanto in processi che hanno luogo su scala atomica.

Inizialmente, tuttavia, lo stesso Planck considerava questi risultati come semplice frutto di un artificio

matematico più che di una realtà fisica.

Per questi studi e la scoperta del quanto di energia Planck ricevette nel 1918 il Premio Nobel.

Il fotone

Albert Einstein, invece, prese subito sul serio questa possibilità della quantizzazione dell’energia, e nel 1905

propose di rompere definitivamente con la fisica classica e di postulare un’individualità propria per gli

elementi d’energia, ossia affermare che il campo elettromagnetico era fisicamente costituito da quanti, i quali

furono in futuro battezzati da Arthur Compton “fotoni”.

Ogni fotone ha massa nulla e trasporta un’energia E direttamente proporzionale alla sua frequenza.

Tale modello non è in contraddizione con la teoria di Maxwell: l’enorme numero di fotoni che costituisce un

normale fascio fa sì che questi si comportino come un’onda.

A dare manforte all’interpretazione einsteiniana contribuirono poi alcuni importanti esperimenti quali:

l’effetto fotoelettrico, l’effetto Compton e l’esperimento di Franck e Hertz.

7

L’effetto fotoelettrico

Nel 1902 il fisico Lenard introdusse l’uso di un tubo a vuoto nel quale una radiazione monocromatica

ultravioletta, di lunghezza d’onda colpisce una lastra metallica.

λ, ) degli elettroni è

I dati sperimentali mostrano che la velocità di emissione (ovvero l’energia cinetica K

max

indipendente dall’intensità della radiazione incidente, ma dipende soltanto dalla sua frequenza, crescendo col

crescere di quest’ultima; aumentando invece l’intensità della luce incidente aumenta solo il numero degli

elettroni espulsi. K hf W

= −

max e

Questo risultato sperimentale non può essere spiegato con l’elettromagnetismo classico.

Secondo Einstein le proprietà dell’effetto fotoelettrico si spiegano solo se si ammette che vi sia sempre e

soltanto l’interazione di un singolo fotone con un singolo elettrone.

L’effetto Compton

Per diversi anni tuttavia l’esistenza dei fotoni non fu accettata da tutto il mondo scientifico.

Nel 1923 però Arthur Compton pubblicò i risultati delle sue ricerche: effettuò un esperimento con il quale

intendeva studiare l’urto fra un quanto di luce e un elettrone in moto libero nello spazio. Nonostante ciò fosse

impossibile da ottenere sperimentalmente per l’epoca (se non in tempi lunghissimi, nell’ordine del secolo!),

egli riuscì a superare questa difficoltà utilizzando raggi X con un’energia sufficientemente alta da poter

considerare trascurabile l’energia di legame degli elettroni col nucleo di elementi leggeri.

8

L’esperimento consisteva nell’inviare un fascio monocromatico di raggi X contro un bersaglio di grafite e

'

λ della radiazione diffusa a diversi angoli.

nel misurare le lunghezze d’onda

Nella diffusione dei raggi X, accanto al fenomeno classico di diffusione, si ottiene anche la diffusione di una

'

λ maggiore di quella iniziale

radiazione di

e ciò non può essere spiegato dall’elettromagnetismo classico.

Inoltre l’elettrone urtato (denominato elettrone di rinculo) varia la sua velocità per aver acquistato una parte

dell’energia cinetica del fotone stesso.

Il risultato dell’esperimento è spiegabile ammettendo che la radiazione elettromagnetica è composta di quanti

che interagiscono con gli elettroni in modo individuale come particelle singole e subendo urti elastici,

tenendo conto del fatto che un fotone si muove sempre alla stessa velocità e trasportando una quantità di

c

hf .

moto c

Dopo l’esperimento di Compton nessuno poteva più avere dubbi: i fotoni esistono realmente.

9

Lo spettro dell’atomo d’idrogeno

Se si scompone con un prisma la luce emessa da un gas monoatomico portato ad alta temperatura, o

attraversato da corrente elettrica, si vede un insieme di righe brillanti, ciascuna di colore (e quindi frequenza)

ben definito. Si tratta di uno spettro di righe.

Fin dai primi studi sugli spettri luminosi, i fisici si accorsero che, nonostante l’apparente disordine, esiste una

certa regolarità nella distribuzione delle righe spettrali degli elementi.

Nel 1885 il fisico Johann Balmer scoprì per via empirica che le lunghezze d’onda delle righe dello spettro

visibile dell’idrogeno potevano essere espresse mediante una semplice formula:

1 1

 

f cR

= −

 

0 h 2 2

2 n

 

f R

dove è la frequenza della riga spettrale, è la velocità della luce nel vuoto, è una costante il cui valore

c

0 h

7 1

, 097 10

1 −

m

è e è un numero intero maggiore di 2.

n

f

L’insieme dei valori ottenuti è detto serie spettrale di Balmer.

0

Questa serie però contiene soltanto le righe di emissione nel visibile; tutti gli altri casi, anche nelle frequenze

ultraviolette e infrarosse, sono calcolabili mediante la formula

1 1

 

f cR

= −

 

0 h 2 2

m n

 

dove e sono due numeri interi, con >

m n n m.

Ai tempi di Balmer non era affatto chiaro perché a un determinato elemento dovesse corrispondere un ben

preciso spettro di emissione. 10

Il modello di Bohr

La scoperta del fatto che la luce si propaga nello spazio e può essere emessa dalla materia soltanto sotto

forma di pacchetti discreti influì profondamente sulle idee che si avevano in quegli anni riguardo la struttura

degli atomi stessi.

Alle fine dell’Ottocento il modello più valido, dopo la scoperta dei raggi catodici, era quello proposto nel

1897 da J. J. Thomson, noto come “plum pudding model”, secondo cui l’atomo è costituito da una sfera

carica positivamente, che possedeva gran parte della massa dell’atomo stesso, contenente disseminati al suo

interno gli elettroni.

Nel 1911 però Ernest Rutherford portò a termine una serie di esperimenti al fine di sottoporre a verifica il

modello di Thomson. L’esperimento principale consisteva nel lanciare contro una lamina d’oro molto sottile

un fascio di particelle Queste particelle viaggiano ad 1/10 della velocità della luce e la maggior parte

α.

attraversa la lamina come se questa non ci fosse. 11

Misurando gli angoli di diffusione delle particelle deviate si possono ottenere informazioni sulla struttura

α

dei bersagli che hanno urtato, anche se questi non sono visibili. A differenza di quanto ipotizzato dal modello

di Thomson, le particelle avevano grandi angoli di diffusione ed alcune venivano addirittura respinte dalla

lamina. Per spiegare questo fenomeno Rutherford propose un nuovo modello, noto come modello planetario

dell’atomo: l’atomo è costituito da un nucleo positivo estremamente piccolo posto al centro di una sfera

molto più grande dove la carica negativa degli elettroni è distribuita in modo più o meno uniforme, ma di

certo non in modo statico altrimenti verrebbe attratta per la forza di Coulomb. Venne inoltre naturale vedervi

la somiglianza con la formula di gravitazione universale, che portò a supporre che gli elettroni si muovessero

lungo orbite ellittiche.

Sulla base dell’esperimento di Rutherford gli elettroni risentirebbero di un’accelerazione centripeta, e quindi,

secondo la teoria di Maxwell, una carica accelerata emette sempre energia sotto forma di onde

elettromagnetiche. Ciò comporta due problemi:

l’emissione continua di energia dovrebbe portare gli elettroni ad avvicinarsi sempre di più al nucleo,

• descrivendo una traiettoria a spirale, fino a giungere su di esso in un intervallo di tempo dell’ordine di

7

10 s .

Durante il movimento a spirale, le onde elettromagnetiche emesse dovrebbero avere uno spettro

• continuo, ovvero dovrebbero contenere tutte le frequenze comprese tra un valore minimo e uno massimo.

Nel 1912 il giovane Niels Bohr, che aveva studiato sotto la guida di Rutherford, suppose, per ovviare a

questa contraddizione, che a livello atomico le leggi della meccanica e dell’elettromagnetismo non valessero

più. Introdusse così alcune ipotesi arbitrarie, ma che furono in seguito spiegate scientificamente.

Il raggio delle orbite degli elettroni attorno al nucleo può avere soltanto un certo insieme di valori

• permessi.

Quando l’elettrone percorre una di queste orbite (dotate di un’energia ben definita) non irraggia.

In sostanza, dunque, l’elettrone rotante intorno al nucleo obbedisce a tutte le leggi meccaniche della fisica

classica, ma non alle leggi elettromagnetiche di Maxwell, nel senso che nel suo moto non emette radiazione.

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