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Wow. Grazie mille.
E l'ultimo di Injava è fantastico![:-D](./images/smilies/003.gif)
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Il nuovo megapresidente della "company" per cui lavoro, fino a ieri, era il megapresidente di una grande impresa produttrice di birra.3) Conosci colui che prende le decisioni e valutane la cultura
SnakePlinsky ha scritto:se l'azienda è quotata in borsa, il suo valore coincide colla capitalizzazione. Se non lo è, allora ti imbarchi in un tema specialistico, non semplice.
Il Che (hasta la victoria siempre) dice "non sempre": io aggiungo MAI.
2 fattori oggettivi sono:
1) il prezzo di borsa è un prezzo marginale: non si può valutare tutta un'azienda in base al valore con cui si è scambiato l'1% oggi in borsa. Come valutare il prezzo di tutte le case in base a quelle vendute in 1 anno. Giacchè l'inizio delle vendite o degli acquisti a quel prezzo per quantità anch'esse marginali fa immediatamente salire o scendere il prezzo, figuriamoci tutto il capitale azionario.
2) Nei prezzi delle azioni ci sono anche grandezze non direttamente reddituali: il diritto di voto in assemblea. Si guardi a questo proposito la differenza tra prezzo delle ordinarie e le risparmio.
Oltre a questi motivi "oggettivi" ce ne sono altri di natura filosofica: efficenza dei mercati, nel mercato si scommette, il valore non è mai assoluto ma sempre relativo al mondo circostante, e chi vuole aggiungere aggiunga.
Sergio ha scritto:SnakePlinsky ha scritto:Il problema è che valutare un'azienda è un arte più che una procedura matematica.
Sono assolutamente d'accordo, anche perché... ho praticato quest'arte per una decina d'anni.
Purtroppo sono anche passati molti anni, ma direi che:
a) una volta capiti alcuni calcoli, alcuni indicatori, ecc. solo l'esperienza derivante dall'analisi di centinaia di bilanci consente di valutare con un minimo di attendibilità una singola azienda (quanto a me, mi ero accorto che qualcosa non andava nella Parmalat fin dalla seconda metà degli anni '80);
b) esiste un metodo a mio parere decisamente più affidabile: la cosiddetta "previsione delle insolvenze".
Non so quanto e cosa si studi ora nelle università, chiedo quindi scusa se magari ripeto cose arcinote.
Si tratta in un metodo nato negli USA dopo la crisi del '29; ci si pose la domanda: "molte aziende sono fallite, ma molte altre no; si poteva prevedere prima quali sarebbero fallite e quali no? cosa distingueva i bilanci delle aziende poi fallite da quelli delle altre?".
Il metodo venne introdotto in Italia da Adalberto Alberici nel libro Analisi di bilancio e previsione delle insolvenze (ISEDI, 1975), poi ripreso dal Servizio Studi della Banca d'Italia e applicato dalla Centrali dei bilanci, ma venne usato molto poco dalle banche.
Ora è tornato d'attualità grazie al nuovo accordo di Basilea sui requisiti patrimoniali delle banche, che, tra l'altro, ha indotto le banche maggiori a dotarsi di un sistema di rating interno per misurare il rischio di credito (e ad assumere matematici e statistici in quantità impensabili fino pochi anni fa).
In sostanza, si tratta di raccogliere dati storici circa le aziende (dati di bilancio, ma anche dati tratti dall'andamento dei rapporti bancari) e vedere cosa ne è stato delle singole aziende. Utilizzando varie tecniche statistiche (lo strumento originario, e credo ancora più diffuso, è l'analisi discriminante) si cerca di individuare i "fattori" che consentono di dividere le aziende in due gruppi: quelle che poi sono andate bene e quelle che poi sono andate male (fallimeto, "sofferenza", ecc.).
Applicando quei "fattori" a dati presenti, si determina una probabilità di insolvenza.
Una continua attività di back testing consente di tenere aggiornati i "fattori".kinder ha scritto:Riflessione conclusiva: ma che c'entra tutto ciò con la matematica?
La matematica in senso stretto forse poco, ma la statistica, che di matematica è piena, c'entra un bel po'
Sergio ha scritto:SnakePlinsky ha scritto:Il problema è che valutare un'azienda è un arte più che una procedura matematica.
Sono assolutamente d'accordo, anche perché... ho praticato quest'arte per una decina d'anni.