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Tratto da

M. Bertolani, PROFESSIONE MATEMATICO, Interviste scelte a 12 matematici italiani, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005

per gentile concessione dell'editore

Michele Emmer

Nato a Milano nel 1945 e laureatosi in Matematica a Roma nel 1970, Michele Emmer è professore ordinario di istituzioni di matematica presso l'Università  di Roma "La Sapienza". In precedenza ha insegnato alle università  di Ferrara, L'Aquila, Trento, Sassari, Viterbo e Venezia.

I suoi interessi di ricerca hanno riguardato le equazioni alle derivate parziali e le superfici minime. Da trent'anni si occupa di cinema, arte, musica e letteratura. Ha realizzato, in coproduzione con la RAI, oltre una ventina di film sulla matematica, tradotti in diverse lingue e distribuiti in molti paesi. Ha curato, a Napoli, la sezione matematica della "Città  della Scienza" e, alla Biennale di Venezia del 1986, la sezione sullo spazio. Ha organizzato svariate mostre e conferenze su matematica e arte, e da una decina d'anni organizza, all'Università  di Venezia, convegni sul tema "matematica e cultura". Autore di numerosi saggi, dal 1986 collabora con L'Unità , Le Scienze, Sapere, FMR, Diario e numerose altre riviste.

D.: Professor Emmer, cominci parlandoci un po' di lei...

R.: Ho appena compiuto 59 anni e vivo a Roma ormai da cinquant'anni, sebbene sia molto legato anche a Venezia, dove ho vari amici e vado spesso. Quest'anno insegno alla facoltà  di architettura dell'Università  di Roma "La Sapienza", presso la quale tengo alcuni corsi di matematica.

D.: Come si è avvicinato alla matematica?

R.: Ho sempre voluto fare il matematico, e sono stato fortunato, perché ho realizzato il mio sogno. A casa mia non c'erano libri di matematica, perché in famiglia nessuno si occupava di questa materia: in particolare, mio padre Luciano era - ed è tuttora - regista di cinema. Io ho sempre avuto in mente l'idea di studiare matematica, ma non saprei spiegarne il motivo. Certo è che, come dicevo, ho avuto davvero molta fortuna nella mia vita, in quanto sono riuscito a svolgere il mestiere che desideravo. L'unico episodio legato alla matematica che ricordo di quando ero piccolo si riferisce a quando vidi il film Paperino nel regno della matemagica, ma all'epoca avevo già  dodici anni.

D.: Oltre alla matematica, il suo grande interesse è il cinema...

R.: Sì, io sono nato e vissuto nel cinema, perché era il mondo di mio padre. Il cinema è sempre stato la mia passione, ha costituito una parte molto importante della mia vita. Da piccolo, ho fatto perfino l'attore in un film di mio padre. Il mio padrino è stato lo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano. Inoltre, ho conosciuto ben presto Marcello Mastroianni e molti altri grandi attori. Nonostante ciò, non avrei mai pensato che, dopo un certo numero di anni, mi sarei messo anch'io a girare dei film e che, per questa mia attività , avrei pure ricevuto omaggi in festival del cinema indipendente. Il cinema non è però il mio unico interesse. Mi piace molto anche leggere. Ho iniziato con la letteratura russa, perché mia madre è russa, e poi ho letto di tutto: in particolare, letteratura americana, francese e inglese. Da giovane, inoltre, praticavo parecchio sport: ho giocato a tennis per una decina d'anni, e ho partecipato a varie gare di nuoto assieme a mia sorella e a due miei cugini. Io, però, non ero bravo quanto loro, che eccellevano: mia sorella è arrivata, a suo tempo, seconda ai campionati italiani di nuoto nella specialità  dorso; e mio cugino li ha vinti, nella specialità  rana.

D.: Come è iniziata la sua carriera di matematico?

R.: Nel 1970, io svolsi la tesi su un teorema di Caccioppoli avendo per relatori due matematici, di cui poi uno in particolare - Umberto Mosco - è diventato famoso e ha vinto anche il premio Feltrinelli; l'altro, Andrea Schiaffino, adesso è professore a Roma "Tor Vergata", ma all'epoca era assistente a Ferrara. Casualmente quest'ultimo, pochi giorni dopo la mia laurea, ebbe un posto a Roma, per cui mi chiese se volessi andare a insegnare a Ferrara. All'inizio io fui abbastanza titubante, perché stavo per sposarmi: il trasferimento lo vedevo un po' complicato, soprattutto per mia moglie. Alla fine, però, andai a Ferrara, capitando nel posto giusto al momento giusto. Infatti, negli anni Settanta, la matematica italiana delle superfici minime era all'avanguardia nel mondo. Il matematico più famoso in questo campo era Ennio De Giorgi, morto nel 1996, tre mesi dopo avermi concesso una lunga intervista televisiva a cui tengo moltissimo. A Ferrara, in particolare, c'era Mario Miranda, l'allievo prediletto di De Giorgi, e in quella città  ebbi occasione di incontrare anche Enrico Giusti ed Enrico Bombieri, il quale nel '76 vinse la medaglia Fields e in seguito si trasferì a Princeton, dove vive tuttora. Quindi io mi ritrovai a lavorare con un gruppo di matematici di altissimo livello. Nel 1973, mi capitò di risolvere un problema, aperto da due secoli, su "superfici minime e capillarità ", ottenendo un risultato che successivamente si rivelò utile anche per le sue applicazioni nei voli spaziali della NASA. Il relativo lavoro, pubblicato in italiano su una rivista di Ferrara, fu presto citato a livello internazionale e mi permise di balzare a un certo livello di notorietà , e di diventare quasi immediatamente, dopo soli due o tre anni, assistente e professore incaricato all'Università  di Trento. Successivamente, nel campo della ricerca mi trovai nella stessa situazione in cui si trova un regista quando, realizzato un primo film bellissimo, poi non sa cosa proporre nel secondo: di fatto, non mi capitò più di risolvere un altro problema di quella portata.

D.: Lei si è occupato molto, in matematica e in ambito divulgativo, di superfici minime. Cosa sono e a che servono?

R.: "A che servono" è una domanda che in matematica non si deve porre. In realtà , le superfici minime servono, e moltissimo: per esempio, in architettura le famose tende sospese di Frei Otto, che nello stadio di Monaco coprono gli spettatori, sono state realizzate sulla base di modelli di superfici minime. Queste ultime sono le superfici che possiedono due proprietà : hanno un minimo di energia e sono stabili. Tutte le tende sospese che possiamo vedere in giro - anche quelle del nostro Stadio Olimpico, qui a Roma - si basano su modelli di superfici minime o, se vuole, su modelli di lamine saponate realizzate al computer: infatti, le bolle di sapone rappresentano un classico esempio di superfici minime; e le lamine saponate, ottenute immergendo un telaio in acqua e sapone, sono anch'esse superfici minime. Si chiamano "superfici minime" perché sono superfici di area minima: ad esempio, se soffiamo per creare una bolla di sapone, notiamo come si formi proprio una bolla e non un altro tipo di solido perché questa è la struttura con la superficie esterna minore, a parità  di volume interno. Sulle bolle di sapone, tra l'altro, ho girato un film, Le bolle di sapone, e scritto un libro. Un altro esempio di superfici minime riguarda l'alveare, ed era noto anche ai matematici greci. Le api creano strutture esternamente esagonali, ma che all'interno consistono in un solido ufficialmente scoperto solo duemila anni dopo: quando, cioè, i matematici riuscirono a compiere i conti con i quali dimostrarono come quegli insetti creino una struttura molto utile dal punto di vista energetico, in quanto realizzata con il minimo di energia e comprendente il massimo dello spazio. Quindi, le superfici minime sono quelle superfici che minimizzano l'area della superficie rispetto a una qualche proprietà : nel caso delle bolle di sapone, quest'ultima è il volume d'aria contenuto. Se immergiamo nell'acqua saponata un telaio di metallo, vengono a crearsi, come per incanto, forme che, per il principio di minima energia che la natura sceglie, sono le migliori possibili. E si tratta di forme affascinanti: bolle a forma cubica, a forma piramidale, e via dicendo.

D.: Come le è nato l'interesse matematico per le bolle di sapone?

R.: Quando mi laureai, nel 1970, non sapevo nulla di superfici minime. Poi, però, come accennavo, mi recai a Ferrara, che all'epoca era, assieme a Pisa, il più importante centro italiano ad occuparsi di tale argomento. Quindi non scelsi io di occuparmene: capitai lì, a Ferrara, e come primo problema da studiare mi proposero quello su superfici minime e capillarità , aperto ormai da duecento anni, e su cui lavoravano molti americani e tedeschi. E devo dire di essere stato fortunato, perché il mio articolo con la soluzione del problema in questione, raggiunta con Mario Miranda e grazie a qualche idea suggeritaci dall'amico Bombieri, uscì nel maggio del '73, mentre tre mesi dopo fu pubblicato quello redatto da un matematico tedesco che aveva un po' copiato le mie idee: se fosse accaduto il contrario, sarebbe stato un guaio! Dopo questo lavoro sulle superfici minime, mi interessai all'argomento in relazione alle bolle di sapone, diventando amico di parecchi matematici che pure se ne occupavano. Così, nel '76 o nel '77, mi venne l'idea di realizzare un film sulle bolle di sapone... ed ecco che allora torna in ballo il cinema! All'inizio, i film li giravo con la RAI, e il loro produttore era mio padre, sebbene io in effetti facessi tutto da solo: con mio padre è sempre stato un po' difficile dialogare. Il film Le bolle di sapone, in particolare, uscì nel '79, e nell'86 andò in mostra alla Biennale d'Arte di Venezia.

D.: Qual era lo scopo del film? Didattico? Divulgativo?

R.: No, il film contiene solo alcune piccole spiegazioni, in quanto lo scopo non è didattico o divulgativo: io odio questo genere di film! Secondo me, infatti, la matematica non si insegna al cinema: i film non servono a niente, da questo punto di vista. Inoltre, i film didattici che avevo visto in vita mia erano di una supponenza e di una noia inenarrabili. Girai il film Bolle di sapone perché ciò mi divertiva moltissimo. Una persona, quando realizza qualcosa che ha successo, poi può utilizzarla a qualsiasi livello: Le bolle di sapone, ad esempio, è stato mostrato ai bambini delle scuole americane, agli studenti dell'Università  di Princeton per introdurre il corso di calcolo delle variazioni, ma anche in occasione di un corso sulla forma, in conferenze sulla creatività  artistica, eccetera. In seguito, girai pure altri film, tradotti in varie lingue e che ancora oggi circolano in vari paesi: in tutto, nella mia carriera ne avrò realizzati 25 o 26; e alcuni di essi, compresi certi risalenti a più di vent'anni fa, vengono trasmessi ancor oggi dalla RAI sui canali satellitari. Questi film li girai un po' in tutto il mondo - in Giappone, in India, in Sud America... - perché volevo che ogni opera d'arte che vi compariva fosse ripresa nel posto in cui era stata realizzata. La RAI finanziava la versione italiana dei miei lavori; invece La Cité des Science della "Villette", a Parigi, finanziava la versione francese. Nello stipulare gli accordi con la RAI, ogni volta mi inventavo che si trattava di un film molto didattico, e che dunque poteva inserirsi benissimo nel palinsesto del dipartimento educativo, all'epoca diretto da Luciano Rispoli. Incontrai però qualche problema con il film, del 1984, Il mondo fantastico di Escher - fra l'altro oggi disponibile anche in formato DVD - perché era pieno di animazioni, di immagini fantastiche; e quindi, sostenere che vi comparisse pure qualche spiegazione, risultava decisamente arduo. Ebbi problemi, inoltre, con il film Flatlandia, del 1987, basato sul famosissimo libro omonimo scritto da Edwin Abbott nel 1884, che è un po' una storia su come sia nata l'idea di spazio e quella di quarta dimensione. Siccome presentava una storia e vari personaggi, mi dissero che si trattava piuttosto di fiction, e dunque non poteva essere trasmesso come programma del palinsesto educativo; allora divisi l'opera in due parti e vi aggiunsi un'introduzione: "passò" tutto! Per girare Flatlandia, realizzato interamente in 35 mm e in animazione - per cui si è trattato di un lavoro costosissimo, lunghissimo e difficilissimo - ho impiegato ben dieci anni. I tre film poc'anzi citati sono, tra i vari che ho realizzato, quelli che mi piacciono di più.

D.: Quando ha girato il suo ultimo film?

R.: Nel 1996, e fu l'intervista ad Ennio De Giorgi. In seguito ho realizzato, più che altro, opere di montaggio o pezzi richiestimi da altri. Io sono tutt'oggi molto legato all'intervista a De Giorgi, perché egli morì prima ancora di vederla. Per questo motivo, inoltre, io poi non ne tagliai neppure una sola parola, e la regalai all'Unione Matematica Italiana e a chiunque la volesse. L'intervista a De Giorgi, in effetti, decisi di lasciarla così com'era perché costituiva una specie di testamento. All'epoca, stavo girando alcuni film per la "Città  della Scienza" di Napoli, museo nato da poco. Si trattava di interviste con domande fisse, che rivolgevo a tre categorie di persone: matematici molto famosi, come Edoardo Vesentini e Alessandro Figà  Talamanca; matematici emergenti, che magari oggi sono famosi; e, infine, matematici né famosi né emergenti. Ponevo loro quesiti del tipo: come si diventa matematico? L'ambiente conta, per diventarlo? Cos'è la ricerca in matematica? A cosa serve la matematica? E ognuno doveva rispondere nell'arco di 3-4 minuti, non di più. Alla fine, tutto il materiale raccolto venne montato in modo ottenere due film di mezz'ora. L'intervista a De Giorgi faceva parte, ovviamente, di quelle ai grandi matematici, e, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto durare quattro minuti. Ma una volta che ci trovammo nel suo studio, De Giorgi, poiché sapeva di star male, mi disse: «Voglio parlare, voglio parlare senza fine...». E così parlò per un'ora e un quarto. Nell'intervista non raccontò nulla di sé; però essa fu un po' il testamento di un grande matematico, tanto che venne in seguito tradotta in inglese e perfino citata nel famoso libro di Sylvia Nasar su John Nash, intitolato A beautiful mind.

D.: E adesso a cosa si dedica?

R.: Adesso come adesso, scrivo, anche perché sono abituato alla pellicola: il digitale, con il quale nel cinema realizzano ormai tutto, non mi piace tanto. Io giravo quasi sempre in 16 mm, un formato che non esiste più: oggi i film si fanno in 35 mm, e per questo motivo costano l'"ira di Dio"! Comunque, tra un po' mi comprerò un computer per poter eseguire il montaggio elettronico da solo; dunque può darsi che, prima o poi, mi metta a girare qualcosa di nuovo. Infatti il cinema è unico: in un'ora e mezza riesce a fornire una quantità  di informazioni che con qualsiasi altro mezzo sarebbe impossibile trasmettere. In più, nel cinema c'è commozione, perché vi sono un linguaggio, un montaggio e gli effetti speciali. Tutto ciò è possibile, appunto, solo con il cinema; già  in televisione si perde moltissimo: per questo io ho girato sempre tutto in pellicola. Inoltre, quando viene trasmesso in televisione un film girato per il cinema, si verifica un taglio della scena, in quanto la pellicola risulta più larga della banda che si vede sullo schermo televisivo. Quindi, una scena che nel cinema è inquadrata per intero, in televisione viene rifilata al bordo. E ancora, la televisione "lavora" a 25 fotogrammi al secondo; il cinema, invece, a 24. Il digitale, che adesso si usa comunemente nel cinema, è, da questo punto di vista, perfetto; tuttavia ritengo che il contatto fisico con la pellicola sia tutta un'altra cosa!

D.: Ha mai pensato di fare un film su un matematico?

R.: No, nel senso che il documentario standard non mi interessa; e per quanto riguarda, invece, il raccontare la storia di qualcuno, semplicemente non avevo molte idee su come farlo. Inoltre, adesso si assiste un po' a una corsa alla realizzazione di film e di libri sui matematici; perciò, non saprei nemmeno quale personaggio sia ancora rimasto da "raccontare"! Per esempio, un soggetto molto interessante è Srinivasa Ramanujan, un matematico indiano autodidatta degli anni Venti e Trenta. Egli, cresciuto in un villaggio indiano dove esistono solo un liceo e testi scientifici di livello scolastico, fu capace di diventare un matematico di 3. Michele Emmer prim'ordine. Ramanujan venne scoperto dal famoso matematico inglese Godfrey Hardy: da questi fu portato a Cambridge, dove restò 6-7 anni; dopodiché, per motivi religiosi, tornò in India, dove morì a 33 anni. Egli ci ha lasciato volumi e volumi di opere di alta matematica, che nessuno sa come abbia fatto a concepire, vivendo in un posto completamente isolato; sulla sua vita, però, hanno già  scritto un libro e realizzato uno spettacolo teatrale negli Stati Uniti, sebbene non di grande successo. Un altro esempio di matematico dalla storia interessante riguarda il francese André Weil - da non confondere con Hermann Weyl - che ebbe una vita incredibile: cresciuto in Sud America, scappò durante la guerra e ne visse "di tutti i colori". Tra gli italiani, Ennio De Giorgi è uno dei matematici su cui non è stato realizzato un film o altra opera, ma la sua storia è inesistente: egli a vent'anni vinse la cattedra, si recò alla Normale di Pisa e ne uscì alla sua morte; perciò, la sua storia si riduce alla sua ricerca matematica. Quindi, il problema del fare un film su un personaggio del genere è: di cosa si parla? A questo proposito, ricordo un bellissimo film-documentario di Peter Greenway, realizzato 7-8 anni fa nell'ambito di un'iniziativa di divulgazione scientifica per la quale ogni grande regista girava un documentario su un grande personaggio. Greenway scelse dunque Darwin, e realizzò un'opera che mostrava l'esatto contrario di quello che chiunque si aspetterebbe di vedere in un documentario su Darwin: lo scienziato compariva seduto a un tavolo, sul quale passava tutto l'inimmaginabile usando la tecnica digitale: l'evoluzione, gli animali; e poi vi si vedevano il mare, la sua nave che andava in giro per il mondo... Tutto il film, quindi, si svolgeva sul tavolo, come se si trattasse di un'enorme libro che veniva sfogliato sullo schermo: perciò il film era fantastico, in quanto basato su un'idea che funzionava perfettamente. Ma per fare una cosa del genere bisogna avere, appunto, delle idee!

D.: Come l'ha avuta Simon Singh nel suo film su Fermat...

R.: Sì, non a caso quel film, negli Stati Uniti e in Inghilterra, dove uscì nel '98, ha riscosso un enorme successo. Vinse, tra l'altro, anche il Premio Italia della televisione italiana, che però lo trasmise alle 4 del mattino! Negli Stati Uniti, invece, esso fu trasmesso in prima serata da tutte le televisioni locali, per cui lo videro milioni di persone. Simon Singh - che ho poi conosciuto di persona a Venezia, tanto da stringere con lui un rapporto di amicizia - mi ha raccontato che, quando iniziò a girare questo film, non aveva affatto i soldi necessari per realizzarlo. Inoltre, doveva trovare il modo di parlare, nel film, della dimostrazione dell'Ultimo teorema di Fermat, lunga 450 pagine: credo che al mondo vi siano al più una ventina di matematici in grado di capirla, e forse solo tre capaci di comprenderne i dettagli. Quando Singh andò alla BBC per proporre il film, gli chiesero se vi fossero immagini da mostrare e se la matematica vi risultasse comprensibile: egli rispose che le prime erano assenti, e che la seconda non si capiva per niente. Però riuscì a convincerli ugualmente, "spingendo" su due elementi: si trattava della dimostrazione di un teorema formulata dopo ben tre secoli di attesa; inoltre, si poteva almeno esporre assai facilmente quale fosse il problema. Infatti, qualsiasi persona ricorda il teorema di Pitagora, e il problema di Fermat, se partiamo da quello, è facilissimo da enunciare. La parte matematica, però, finiva lì. Allora Singh si inventò l'idea di realizzare un film basato sulle facce dei matematici: in pratica, non vi si spiega nulla; e, quando il protagonista, Andrew Wiles, scrive sulla lavagna alcuni simboli matematici, questi non vengono minimamente spiegati, perché il compito del film non è quello. Il film vuole comunicare l'emozione dei matematici che a un certo punto si rendono conto di aver dimostrato il teorema: perciò Wiles piange quando i revisori della dimostrazione gli dicono che essa è corretta; anche se, nella realtà , egli aveva pianto due anni prima, allorché aveva terminato di formularla. Dunque il film è, sotto certi aspetti, pura finzione; però fa nascere nello spettatore la voglia di fare il matematico.

D.: E cosa pensa del film A beautiful mind?

R.: Beh, lo stesso si può dire per tale film, che in America ha vinto ben quattro Oscar. La matematica in esso non c'è, pur essendo un'opera sul matematico John Nash; ma non deve esserci, perché non consiste in questo lo scopo di un film che dura due ore. A beautiful mind mi è piaciuto molto, tanto che, a suo tempo, lo presentammo in anteprima a Venezia, grazie anche al permesso del regista. In quell'occasione venne pure il matematico che aveva fatto da consulente per il film: ci raccontò di essersi arrabbiato moltissimo - come pure John Nash - perché nell'opera vi sono parecchie incongruenze e alcuni particolari inventati. Il film mostra addirittura alcune scene in cui il figlio di Nash rimane sempre piccolo, nonostante siano trascorsi dieci anni. Ma un film è un film, per cui deve funzionare in quanto tale: deve, cioè, funzionare come linguaggio; il resto non interessa. Il vantaggio offerto da un'opera che parli di matematica è che poi ci può essere una ricaduta positiva per i matematici, ma il film non è stato realizzato per questo: è stato girato per ricavarvi più soldi possibili! Tra l'altro, era la prima volta che tre major americane si mettevano insieme per fare un film; e il pensare di realizzarlo su un matematico che fu schizofrenico per quarant'anni non era, in fondo, così ovvio. Nel film, quindi, le parti che riguardano la matematica sono pochissime e non necessariamente fedeli: il matematico consulente del film raccontava di essersi arrabbiato moltissimo durante le riprese della famosa lezione di Nash sull'ipotesi di Riemann, perché il regista aveva detto alla troupe: «Adesso andate alla lavagna e scrivete tutta la matematica che vi ricordate!». Perciò, tutto quello che compare scritto sulla lavagna è privo di senso. Ma la macchina da presa inquadra il protagonista, e quindi nessuno del pubblico guarda le formule. E anche se qualcuno guardasse la lavagna, come potrebbe capire queste ultime? Vi riuscirebbero solo i matematici, cioè una percentuale infinitesima degli spettatori.

D.: E il film Morte di un matematico napoletano, che ha per protagonista il nostro Renato Caccioppoli, le piace?

R.: Mi piace molto tranne l'ultima mezz'ora, corrispondente, in pratica, alla scena del funerale. Tra l'altro, proprio lo scorso 21 settembre si è celebrato, a Napoli, il centenario della nascita di Caccioppoli, in occasione del quale hanno proiettato il film per l'ennesima volta, e hanno messo in scena uno spettacolo teatrale che gira già  da un po' di tempo, sia pure non nei teatri. Lo spettacolo - che però non mi ha convinto molto - verte sulle lettere scritte da Caccioppoli a Mauro Picone, ad altri matematici, alla ex moglie e agli amici. Il film su Caccioppoli, invece, secondo me è ben fatto. Ricordo che il regista, Mario Martone, all'epoca mi telefonò per chiedermi se avessi qualche idea su come rendere la faccia di un matematico nel momento in cui ha l'illuminazione: io gli dissi che non ne avevo proprio idea! Nel film vediamo riportate molto accuratamente alcune annotazioni matematiche e alcune precise definizioni, in quanto il relativo consulente matematico era il napoletano Carlo Sbordone, oggi presidente dell'Unione Matematica Italiana. Una storia come quella di Caccioppoli è diventata un film perché essa si prestava cinematograficamente. Martone era napoletano, e Caccioppoli rappresentava una grande personalità  della cultura napoletana: non era, cioè, "il matematico", bensì un uomo che durante il fascismo, essendo vietato portare il cane al guinzaglio, andava in giro con un gallo. Perciò Martone ha realizzato il film su Caccioppoli non in quanto matematico, bensì in quanto grande intellettuale napoletano; e quindi ha parlato anche del Caccioppoli matematico. Dubito che Martone avrebbe girato il film se Caccioppoli fosse stato solo un grande matematico. D'altra parte, se non si fosse realizzato questo film, Caccioppoli sarebbe rimasto un matematico notissimo nell'ambiente professionale, ed a Napoli, essendo napoletano; ma non sarebbe diventato un grande personaggio quale invece adesso risulta.

D.: Esistono molti altri film legati alla matematica?

R.: Sì. Oltre a questi film su Caccioppoli, Nash e Fermat, in realtà  ne esistono tantissimi altri che hanno a che fare, sia pure in senso lato, con la matematica. Nel mio libro Matematica, arte, tecnologia, cinema, pubblicato nel 2002 in Italia e l'anno dopo negli Stati Uniti, parlo di una cinquantina di film legati alla matematica. Presto ne uscirà  anche uno nuovo: Proof, con Anthony Hopkins e Gwyneth Paltrow, che vestono i panni, rispettivamente, di un brillante matematico minato da una malattia incurabile e della figlia. Proof - parola che in inglese significa "dimostrazione", ma anche "prova" - è un film basato sull'omonima pièce teatrale di David Auburn, che ha vinto il Grammy Awards nel 2001, ed è in scena da quattro anni ininterrottamente. Tale spettacolo è stato visto dappertutto, e a Londra - dove vi recitava la stessa Paltrow - ha riscosso un enorme successo, tanto che si vendevano posti in piedi a 80 sterline. In Italia, invece, questo spettacolo non si è mai visto, se non una sola sera a Viareggio, con protagonista Rosita Celentano: l'anno scorso avrebbero dovuto portarlo in scena a Venezia, ma poi la cosa è saltata. Tra poco dovrebbe uscire anche un film tratto dal libro di Mark Haddon Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, un giallo molto "furbo" su un bambino autistico che ha la passione per la matematica. Sicuramente, di film sulla matematica ve ne saranno ancora molti. L'importante, nei film, negli spettacoli teatrali, nei documentari, è avere un'idea nuova, intelligente, simpatica, che funzioni. Walt Disney, quando, nel '64, realizzò il film Paperino nel regno della matemagica, intendeva creare una trasmissione divulgativa per la televisione. Il film che ne venne fuori, però, era talmente bello che lo fecero passare al cinema, mentre la serie prevista "abortì" e di film non ne fecero nessuno, a parte questo. Poi il film di Walt Disney fu proiettato perfino nelle scuole - tanto è vero che io lo vidi lì - e tuttora viene proiettato un po' ovunque.

D.: Insomma, la matematica oggi va di moda...

R.: Sì. Quando io ero giovane, negli anni Sessanta, andavano di moda i film sui fisici, sull'energia atomica, e circolava il mito che tutto sarebbe stato risolto studiando la fisica della particelle; per cui era molto "in" fare il fisico, e non il matematico. A questo proposito, vi è un film del '64 in cui il protagonista, James Stewart, al proprio figlio, caratterizzato da un'enorme abilità  nell'eseguire calcoli, dice a un certo punto: «Mi raccomando. Non dobbiamo dire a nessuno di questa tua straordinaria abilità . Mica vorrai che per strada dicano che sei un matematico!». Adesso la situazione è cambiata, e fortunatamente sono pure spariti i cosiddetti "film di matematica": cortometraggi mostruosi, di dieci minuti o di un quarto d'ora, sulla dimostrazione di un certo teorema. Tali film, infatti, realizzati avvalendosi di qualche disegnino fatto a mano e di qualche animazione, erano nel complesso orripilanti; e molte delle dimostrazioni che vi venivano illustrate si rivelavano assai elementari. Negli anni Cinquanta e Sessanta, fra l'altro, tutti i grandi registi italiani - compresi Fellini, Visconti e lo stesso mio padre - giravano documentari. Quindi in quel periodo ci fu una grande scuola di documentarismo scientifico. Al cinema, infatti, prima del film proiettavano 10-12 minuti di documentario, che, certamente, tutti fischiavano; ma almeno tutti lo vedevano. Poi tale consuetudine finì, anche perché arrivò la televisione, che usava moltissimo i documentari. A un certo punto, però, i documentari sparirono anche da lì. Ora, già  da qualche tempo, stanno ritornando; e il documentario tipo è diventato, sulla scia dei grandi successi della BBC, quello naturalistico.

D.: Oltre che nel cinema, lei ha vissuto in mezzo all'arte...

R.: Sì, perché mio padre, nel 1936, inventò il documentario d'arte. Oggi nel mondo esistono vari festival del cinema che assegnano il premio Emmer, il quale è un premio d'arte, appunto. Inoltre, mio zio, Claudio Emmer, faceva il fotografo per Skira, il famoso editore svizzero di libri d'arte. E io, da ragazzino, ho avuto modo di conoscere tantissimi pittori e artisti, perché negli anni Cinquanta e Sessanta essi si incontravano tutti in Piazza del Popolo. Quindi, anche nei film che ho realizzato, c'è sempre una parte dedicata a un artista contemporaneo. La matematica, del resto, è legata all'arte a diversi livelli: per esempio, al livello della forma. Da questo punto di vista, Escher rappresenta chiaramente un caso speciale, perché, attinte moltissime idee dai matematici, poi le ha in qualche modo trasformate. La connessione tra i matematici e gli artisti, in particolare, fu molto stretta soprattutto nel periodo compreso tra il Futurismo e il Cubismo. La matematica, infatti, è una disciplina caratterizzata da molti aspetti, di cui i due principali sono: l'impiego di un procedimento logico-deduttivo col quale dimostra ciò che afferma; il parto di grandi idee che riguardano l'umanità  intera. E una delle grande idee concepite dalla matematica tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento fu quella di spazio. Cioè, l'idea di spazio che avevamo prima dell'Ottocento in quel periodo cambiò radicalmente, non solo perché c'erano i matematici, ma anche perché c'erano i fisici, perché arrivarono la fotografia e l'Impressionismo. Si presentarono, in altre parole, tutta una serie di circostanze le quali fecero sì che nel 1908 Wassily Kandinsky realizzasse il primo quadro astratto. I cubisti si rifecero al teorema di Riemann, nonostante non sapessero nemmeno cosa esso affermasse... Ma non è questo l'aspetto fondamentale della faccenda: ciò che conta, è che allora la matematica diventò una parte importante della cultura. Questo è il tipo di legame esistente tra molti momenti della cultura artistica e la matematica, e che quindi non è limitato al Rinascimento.

D.: Perché dunque gli storici dell'arte si fermano, parlando dei rapporti tra matematica e arte, al Rinascimento?

R.: Perché non sanno nulla della matematica contemporanea; e, mentre da parte della maggioranza degli scienziati si nota una grande apertura nei riguardi della cultura umanistica, purtroppo non si verifica il contrario: la matematica è vista, ancora adesso, con diffidenza, soprattutto a causa della difficoltà  di capirne i concetti. Così, come accennavo, non sappiamo che al cambiamento dell'idea di spazio, verificatosi tra l'Ottocento e il Novecento, contribuirono in gran parte i matematici cambiando la nostra percezione di esso. Gli storici dell'arte, non sapendo ciò, non danno minimamente importanza alla cosa. Però dobbiamo essere consapevoli del fatto che alcune grandi idee della matematica - quella di spazio, di algoritmo, del computer, della logica - sono parte della nostra cultura. Inoltre, l'architettura odierna risulta possibile grazie al cambiamento verificatosi nella geometria. Fino a un secolo fa, l'architettura occidentale era essenzialmente basata sulla geometria euclidea, in cui l'oggetto veniva visto come un qualcosa di invariante. L'idea di oggi, invece, è che l'architettura operi delle trasformazioni: ad esempio, Frank Gehry non sarebbe stato in grado di progettare il Museo Guggenheim di Bilbao, se non avesse avuto un computer con cui compiere tutte le trasformazioni continue di una superficie in un'altra; e il motivo per il quale la mostra di architettura della Biennale di Venezia del 2004 si chiami Metamorph, cioè "trasformazione", va anch'esso ricercato nel fatto che nell'arte contemporanea esiste un grosso filone in cui entra questa parte della matematica costituita, appunto, dalla geometria moderna. Quindi, il non conoscere alcune grandi idee della matematica e come esse siano entrate nella cultura rappresenta una grossa lacuna. Sotto questo aspetto, il teatro e il cinema aiutano moltissimo, perché fanno diventare il matematico un personaggio simpatico: oggi egli fa parte dell'immaginario collettivo, mentre dieci o quindici anni fa al suo posto trovavamo il fisico.

D.: Però, diversamente da oggi, nel Rinascimento era l'arte ad anticipare la matematica, e non viceversa...

R.: Sì, il Rinascimento, da questo punto di vista, è emblematico, nel senso che costituisce un periodo in cui gli artisti, non avendo a disposizione una matematica che funzionasse bene, se la "facevano" da soli. Perciò, artisti come Piero della Francesca, che ebbe come allievo il miglior matematico dell'epoca, Luca Pacioli, si costruirono gli strumenti matematici che servivano loro per realizzare la prospettiva: la geometria proiettiva, infatti, nacque cent'anni dopo. Dunque i matematici qualche volta giunsero in ritardo rispetto agli artisti, mentre oggi e nei secoli a noi più vicini si riscontra quasi sempre il contrario: per esempio, le idee di quarta dimensione, di topologia, di trasformazione, furono formulate dai matematici nel 1870 circa, e nel Novecento furono assimilate dagli architetti e dagli artisti in genere. L'architettura di oggi è l'architettura della trasformazione, che ha recepito l'idea - in matematica concepita già  da cent'anni - della geometria come trasformazione, appunto, cioè della topologia. Inoltre, si cominciano a realizzare città  secondo strutture frattali, che in matematica hanno ormai trent'anni. In pratica, ci sono dei periodi in cui i nessi tra matematica e arte risultano più visibili, e altri in cui lo sono meno: l'attuale è un periodo del primo tipo. Il fatto che nel cinema, nel teatro e nell'arte vi sia questo grande interesse per i matematici ne è una dimostrazione. Oggi non si spiega nulla di matematica, però la si mette in scena; e così il linguaggio matematico diventa, per esempio, il linguaggio del teatro o del cinema.

D.: Quindi c'è una tendenza evidente in questa direzione...

R.:Sì, ed un segnale secondo me chiarissimo in tal senso è il fatto che una persona come Luca Ronconi abbia allestito uno spettacolo, Infinities, sull'idea dell'infinito in matematica, nel quale mette in scena non una storia bensì il linguaggio scenico, il linguaggio della matematica. L'idea di Ronconi, che egli stesso raccontò a Venezia un anno prima di mettere in scena lo spettacolo, era semplice: la matematica è la metafora del contemporaneo; quindi, perché non usare il linguaggio della matematica per fare il teatro di oggi? Questo "taglia la testa" a tutte le questioni legate alla divulgazione, alla didattica, alla spiegazione e via dicendo. A vedere lo spettacolo Infinities sono andati centinaia e centinaia di ragazzi, e al riguardo si sono tenute conferenze e altre iniziative collaterali. Un successo simile si riscontrò a Bologna in occasione della rassegna di film legati alla matematica, a cui affluirono tantissime persone, al punto che fummo costretti a chiamare la polizia per poter consentire a ciascuno di entrare. L'anno successivo, all'università  di Bologna si osservò un aumento degli studenti iscritti a matematica pari al 20 percento: ovviamente non era stato questo lo scopo della mostra, però questa fu, di fatto, una delle sue ricadute. Naturalmente, neppure quello di Ronconi era uno spettacolo di matematica, cioè in esso non veniva spiegato o dimostrato nulla: erano solo emozioni e suggestioni del linguaggio teatrale e matematico, che però funzionavano! E dunque, da questo punto di vista, rappresentava il massimo della divulgazione, perché offriva la massima diffusione del sapere, accompagnandola con l'ansia della conoscenza. Normalmente, invece, tutte le cose che vanno sotto i nomi di "divulgazione" o di "didattica" hanno come corollario la noia, e se c'è noia il messaggio non arriva.

D.: In certi musei o mostre di matematica, però, non ci si annoia...

R.: Sì, esistono musei divertenti, come quello creato a Firenze da Enrico Giusti e Franco Conti, morto due anni fa. In quel museo, eredità  di una mostra itinerante di successo, vi sono alcuni bei macchinari di grande effetto costruiti da Conti: le persone possono divertirsi a manipolare gli oggetti e si appassionano. Un'altra mostra molto bella e interattiva - seppure meno di quella italiana - era quella allestita alla "Villette" di Parigi, la quale è andata in giro in tutto il mondo, perfino in villaggi sperduti dell'Africa. Dunque c'è davvero la possibilità  di realizzare iniziative interessanti con la matematica, anche a livello museale. Io stesso ci ho provato: nel 1989, in particolare, allestii la prima grande mostra di matematica in Italia, L'occhio di Horus, che riscosse un enorme successo e andò a Bologna, a Milano, a Parma, dopodiché venne qui a Roma. Si trattava di una mostra molto grande, realizzata insieme alla Villette e all'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, e dedicata al rapporto fra arte e matematica: vi erano grandi opere d'arte, come quelle di Fabrizio Clerici sul tema del labirinto, ma anche i solidi platonici, le bolle di sapone, i nodi. In ogni sala, in pratica, si trovavano dei video, delle sculture, delle opere d'arte, dei tavoli interattivi, e nessuno poteva vedere tutto: ogni visitatore era costretto a compiere delle scelte, giacché, solo per guardare tutti i film e per leggere tutto il materiale scritto, gli ci sarebbero voluti due o tre giorni di fila. A quella mostra affluirono centinaia di migliaia di persone: un successo veramente incredibile! E per la prima volta alcuni giornali parlarono estesamente di matematica: La Repubblica vi dedicò ben quattro pagine. E forse tale mostra contribuì in parte a far capire a molta gente come con la matematica sia possibile realizzare qualcosa di bello e in grado di "funzionare". Ma, per la verità , non fu solo quella volta che qualcuno trasse ispirazione dalle mie realizzazioni. Per esempio, l'anno scorso, presso il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, hanno allestito la mostra Matemilano, e all'entrata hanno collocato una sfera di Pomodoro: l'idea è stata tratta dal mio film Le bolle di sapone, di vent'anni fa.

D.: Un segno dei tempi che cambiano?

R.: Sì, nessuno avrebbe messo una sfera di Arnaldo Pomodoro in una mostra di matematica, se nel frattempo non fosse cambiato il clima culturale: gli stessi matematici l'avrebbero considerato un atto totalmente insensato. Invece, adesso si organizza il convegno su Caccioppoli, alla fine del quale si proietta il film su Caccioppoli e si fa teatro su Caccioppoli. Oggi tutto ciò è normale; ma quando, venticinque anni fa, andai a far vedere Le bolle di sapone a Massenzio, venni poi convocato dal direttore del mio dipartimento, il quale mi disse: «Queste cose i professori universitari non le fanno...». Adesso il clima è cambiato. Ciò, naturalmente, non significa affatto che le conoscenze matematiche diffuse siano aumentate; anzi, studi recentissimi, risalenti allo scorso anno, rivelano che l'Italia presenta un "buco nero" nell'insegnamento della matematica: quella della scuola media, soprattutto, è una realtà  allucinante. Quindi, tutto questo parlare di matematica speriamo possa servire anche a migliorare tale situazione, perché uno dei parametri in base al quale si misurano le condizioni di sviluppo di un paese fa riferimento proprio alle sue conoscenze scientifiche, e matematiche in particolare. Ma finora non abbiamo registrato un aumento né di queste conoscenze né del numero di studenti iscritti a matematica, cosa che peraltro non è una tragedia. Oggi il problema di fondo è questo: esiste un modello dominante che spinge a guadagnare più soldi possibili e velocemente, per cui tutti i ragazzi vogliono fare gli architetti, i medici, gli avvocati; così adesso va di moda, per esempio, iscriversi a scienze della comunicazione. A matematica, invece, devi studiare moltissimo, devi sostenere esami faticosi, e alla fine, se ti va bene, vai a fare il ricercatore. Si capisce, quindi, come oggi non possa esservi un'ansia di diventare ricercatore in matematica, sebbene tale disciplina serva e possa regalare soddisfazioni. Per esempio, non molti sanno che alla vittoria della Coppa America da parte della barca svizzera Alinghi ha contribuito un'equipe italiana di matematici. Quest'ultima, guidata da Alfio Quarteroni, dei politecnici di Milano e di Losanna, ha eseguito la modellizzazione della chiglia e delle vele, e ora essa è contesa a suon di miliardi dai vari team in gara per averla nella preparazione della prossima Coppa America.

D.: Cosa pensa della riforma del "3+2"?

R.: La questione del "3+2" presenta aspetti positivi e aspetti negativi. Il fatto traumatico che all'università , su 100 studenti iscritti, se ne laureassero 20, e che in tutta l'Università  di Roma vi fossero qualcosa come 35.000 fuori corso, risultava un fatto assolutamente insensato. Uno dei motivi che hanno portato all'introduzione del "3+2" era quindi il tentativo di ridurre tale spreco di risorse intellettuali e finanziarie, semplificando in qualche modo l'insegnamento nei primi anni e fornendo una laurea possibilmente professionalizzante, in grado di garantire migliori possibilità  di impiego. Quindi l'idea era che, dopo tre anni di università , uno studente di matematica potesse andare a lavorare 3. Michele Emmer nell'industria, la quale accoglie sempre volentieri giovani matematici brillanti, perché elastici, capaci di affrontare problemi in cui nessuno si è mai cimentato prima. L'aspetto negativo, però, è che la riforma del "3+2" non ha eliminato, se non parzialmente, il fenomeno dei fuori corso, ed è stata utilizzata per aumentare a dismisura il numero dei corsi di laurea: ad architettura, per esempio, ne sono stati creati otto, ognuno separato completamente dagli altri; inoltre, il triennio ha vari indirizzi e il biennio ne possiede un'infinità  non numerabile. In pratica, ognuno si è creato il corso suo: così facendo, un docente non deve stare a confrontarsi con nessuno; si tiene il suo corso - con tre studenti, possibilmente - e basta! Di recente, ad architettura hanno istituito corsi di laurea con appena 30 iscritti al primo anno; quindi si presuppone che forse, "coccolandoli" bene, ne arriveranno 10 al quinto: evidentemente, è un investimento assurdo creare un corso di laurea di cinque anni, con 40-50 docenti per una decina di studenti, ovvero per quanti saranno quelli che arriveranno in fondo. L'enorme aumento dei corsi di laurea rappresenta uno degli effetti più macroscopici provocati dal "3+2". E naturalmente, mancando le risorse necessarie per aumentare in proporzione il numero di docenti, si è verificato un aumento spropositato delle supplenze, affidate a chiunque, nonostante il fatto che queste ultime dovrebbero venire, in teoria, affidate solo a persone con un'esperienza notevole. Le supplenze, invece, oggi sono svolte dai neolaureati, anche per il banale motivo che l'anno passato un corso di 100 ore veniva pagato 200 euro lordi l'anno. Dunque, chi è l'idiota che tiene un corso di 100 ore, più gli esami, per 200 euro l'anno? Solo un neolaureato che non vede l'ora di tenere la borsa alla persona che sta in cattedra!

D.: C'è bisogno, oggi, di più studenti di matematica?

R.: No, io non credo, tutto sommato, che il numero di studenti di matematica sia inferiore alle necessità . È insensato avere troppi studenti rispetto alla capacità  di assorbimento del mondo del lavoro: è quel che accade, per esempio, al corso di scienze della comunicazione qui a Roma, dove al primo anno vi sono 5.000 studenti che frequentano le lezioni al cinema. Ciò significa prendere in giro le persone: tra due anni non ci sarà  più bisogno di nessuno di loro; e all'estero sapranno perfettamente se una persona si sarà  laureata in un corso che comprendeva 5.000 studenti e assistendo alle lezioni nei cinema anziché nelle aule universitarie! A matematica e a fisica, una quindicina d'anni fa si verificò un boom eccessivo di iscritti. Adesso, invece, gli studenti di matematica sono forse leggermente al di sotto del numero auspicabile, ma sicuramente c'è più bisogno di informatici. Ed è un bene che i corsi di laurea in matematica e in informatica siano stati divisi, perché in precedenza esistevano molte ambiguità . Del resto, mentre quando ero studente io, tutti coloro che studiavano matematica applicata erano giudicati imbecilli, oggi, al contrario, tale materia viene considerata non solo allo stesso livello, ma addirittura anche di più della matematica pura: sono nati così alcuni nuovi corsi di laurea, tra cui quello specialistico in ingegneria matematica creato da Quarteroni a Milano. Il dramma attuale, per chi fa matematica, consiste nel fatto che, dopo il dottorato e le borse di studio, non si presentano sbocchi. Di soldi, infatti, non ce ne sono più, e le assunzioni sono bloccate: i concorsi per ricercatore sono bloccati, quelli per associato sono bloccati... è tutto bloccato! Inoltre, i dottori di ricerca, per tenere 3-4 corsi universitari, sono pagati 1.700 o, al massimo, 2.000 euro l'anno, che è una cifra ridicola. Per di più, i corsi li dovrebbero tenere i "vecchi", che sono, appunto, pagati per questo, mentre i giovani dovrebbero fare ricerca e occuparsi assai meno di tali incombenze: questo è il vero problema dell'università  italiana, che secondo me è veramente insensata.

D.: Inoltre, l'età  media dei docenti universitari è molto alta...

R.: Sì, l'età  media dei docenti, qui all'Università  di Roma, è di 56 anni, perché la metà  di noi sono entrati fra gli anni Settanta e Ottanta. E nel resto dell'Italia non è che la situazione sia molto diversa. Per questo motivo, il bloccare per due anni le assunzioni di nuovi ricercatori è un suicidio: i giovani vanno via e non ha luogo il normale ricambio degli associati e degli ordinari. Di conseguenza, l'università  sarà  costituita tutta da vecchi "generali" e non vi saranno giovani in gamba! Non ci si pensa, ma tra cinque o sei anni, di colpo, nel giro di soli tre anni, la metà  dei docenti andrà  in pensione: dove sono, dunque, coloro che prenderanno degnamente il loro posto? Occorre che qualcuno formi adesso i ricercatori e i professori che verranno dopo di noi, ma "formare" significa anche "dare delle prospettive". Oggi le prospettive dei ragazzi che si laureano, anche se sono molto bravi, consistono, se va loro bene, nel frequentare il dottorato per quattro anni e, successivamente, nel tirare avanti con assegni di ricerca e con borse di studio. Quindi le giovani leve hanno la prospettiva di ritrovarsi disoccupate verso i 33-34 anni: chi è così stupido da intraprendere tale carriera in Italia? Perciò, chi può se ne va all'estero; perfino mio figlio e sua moglie, entrambi architetti, vivono e lavorano a Parigi. La situazione attuale del nostro paese è intollerabile, a causa di tutto un meccanismo perverso; ed è un peccato, perché l'Italia vantava ottime università  e centri di ricerca di eccellenza. Noi, con il Sessantotto, volevamo cambiare le cose, ma in realtà  ci siamo riusciti solo in parte. Però non si può continuare così, perdendo competitività  come paese e non dando ai ragazzi la possibilità  di crearsi una famiglia, di avere dei figli; ciò è colpa anche nostra, dei professori universitari, che sono degli "elefanti" con poca voglia di cambiare lo stato delle cose.

D.: Come si fa a compiere una buona divulgazione o, come lei preferisce dire, "diffusione della cultura"?

R.: Secondo me, una delle chiavi importanti è l'etica, di cui non si parla mai. Per etica intendo l'etica del linguaggio, di quello che si dice. Occorre, cioè, usare un linguaggio etico, dal momento che nel nostro mondo la chiacchiera sembra aver sostituito la conoscenza: in altre parole, sembra che il "parlare" di un argomento o il sentirne parlare coincida con il "conoscere"; in realtà  non è così, non funziona così. Rispetto ad altre discipline, la matematica ha il grande "handicap" di dimostrare quello che dice: perciò, in qualche modo, è "eversiva". Il grande problema iniziale che si presenta con gli studenti non di matematica, e anche con alcuni di matematica, consiste nel riuscire a insegnare loro qualche nozione di logica - ad esempio: "detto ciò, questa è la conseguenza..." - perché non sono abituati a ragionare. Io credo, quindi, che occorra applicare un'etica del linguaggio, ovvero usare un linguaggio chiaro, sobrio, non enfatico né narcisistico. Rientra nel campo dell'etica, per intenderci, il non andare a intervistare a casa una persona alla quale hanno appena rapito il figlio. La mia prima moglie, biologa e figlia di un famoso anatomo-patologo, morì nel 1998 di cancro al pancreas, e io con lei ho vissuto da vicino la storia Di Bella, che è emblematica della cattiva divulgazione scientifica. Venne infatti costruita una storia sul nulla, perché i risultati della sperimentazione furono negativi nel 98 percento dei casi, e, nel 2 percento, né negativi né positivi. Ma gli effetti di quella campagna televisiva cominciata da Santoro, che per primo portò Di Bella in televisione, si rivelarono drammatici. Quando parlo di etica, quindi, intendo dire che occorre essere consapevoli di ciò che facciamo, sebbene in matematica, forse, si rischino pochi danni con un comportamento non etico. Dire in televisione che tutti, seguendo certe cure, possono guarire - al punto che il Governo, per finanziare la cura, introduce un ticket, facendolo pagare ai malati di cancro - è un esempio di cattiva divulgazione. L'etica deve spingere chi si occupa di diffusione della cultura ad andare cauto in ciò che fa: perché quello che viene detto in televisione, o scritto sui giornali, arriva a centinaia di migliaia di persone, e può darsi che provochi danni ad almeno una di esse.

D.: Un altro problema è quello dell'abuso della matematica...

R.: Infatti. I miei studenti mi accusano di essere sempre autoreferenziale. Ma una volta mi capitò di essere invitato in una trasmissione di RaiDue dedicata al Lotto, tra i cui ospiti vi erano anche Little Tony - in quanto aveva vinto giocando tre numeri sulla ruota di Venezia - e Roberto Vacca. Il tema della trasmissione era cercare di capire se i sistemi servano per vincere. Quando toccò a me di parlare, dissi: «Sono tutte fesserie, per carità ! Sperate che vostra moglie o vostro padre sognino i numeri giusti, e su quei numeri giocatevi al Lotto cinquemila lire, o una cifra del genere. Magari, se volete, cambiate ruota; ma questa storia dei sistemi che fanno vincere è veramente una sciocchezza, perché, se andate a calcolare la probabilità  che avete di vincere anche giocando dieci milioni di lire, scoprirete che essa è talmente irrisoria da risultare praticamente uguale a zero. Cioè, giocare mille lire o giocare cinquanta milioni è lo stesso: perciò, giocate mille lire!». Il conduttore allora ribatteva: «Ma si vince...». E io ribadivo il concetto: «Certo, può darsi che uno vinca; ma, anche se giocate milioni, la probabilità  di vincere non aumenta praticamente di nulla». Dopo, nel momento in cui andava in onda la pubblicità , il conduttore mi disse: «Ma allora, la pianta di dire queste cose? Io faccio una trasmissione che viene seguita da sei milioni di persone...». «Beh, e che me ne importa se è seguita da sei milioni di persone?», gli dissi io, «mi è stato chiesto se valga la pena di buttare i soldi per vincere, e io ho risposto no, che non ne vale la pena, perciò divertitevi, giocate mille lire, e fine!». Quello che le ho appena raccontato è un tipico esempio di abuso della matematica, benché io debba ammettere che la smorfia mi diverte moltissimo. Chiaramente, come nel caso Di Bella, posso citare anche cento o duecento persone che al Lotto hanno vinto miliardi - o che sono guarite - ma questo non vuol dire che la probabilità  del verificarsi di un certo evento non sia praticamente zero. Quindi, più che un problema di matematica, si tratta di un problema di logica: oggi mancano i nessi logici, la capacità  di ragionare, non tanto quella di fare i conti.

D.: L'intervista si conclude qui. Grazie di tutto.

R.: Non c'è di che.

(Roma, 13 settembre 2004)

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