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Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell'editore

Piergiorgio Odifreddi

Nato a Cuneo nel 1950 e laureatosi in matematica a Torino nel 1973, Piergiorgio Odifreddi è professore ordinario di logica matematica all'Università  di Torino e, dal 1985, visiting professor presso l'Università  di Cornell, negli Stati Uniti. Specializzatosi all'Università  dell'Illinois negli anni 1978-79, ed a quella della California, in seguito ha insegnato presso le università  di Novosibirsk, Melbourne, Pechino e Nanchino.

Il suo lavoro scientifico riguarda la logica matematica e, in particolare, la teoria della calcolabilità , che studia potenzialità  e limitazioni dei calcolatori. Attivissimo divulgatore, è autore di una dozzina di libri e collabora con La Repubblica, L'Espresso e Le Scienze. Ha inoltre partecipato a numerose trasmissioni radiofoniche e televisive. Il suo lavoro divulgativo esplora le connessioni fra la matematica e le scienze umane, dalla letteratura alla pittura, alla musica e agli scacchi. Nel 1998 ha vinto il premio Galileo e nel 2002 il premio Peano, entrambi per la divulgazione scientifica.

D.: Professor Odifreddi, ci racconti un po' di lei...

R.: Io sono del '50, quindi un matematico dovrebbe riuscire a ricavare facilmente la mia età : 54 anni. Vivo vicino Torino, ai piedi della Basilica di Superga, dove si trovano le tombe dei reali di Casa Savoia e dove anch'io spero di venire un giorno sepolto. Sono un matematico, in particolare un logico matematico: perciò mi occupo di logica.

D.: Come si è avvicinato alla matematica? Da piccolo immaginava di diventare un matematico?

R.:Sicuramente non lo immaginavo, e nemmeno credo fosse una mia aspirazione. Ho però una teoria sull'argomento, che in realtà non è mia. È quella delle "intelligenze multiple" di Howard Gardner, secondo cui esistono vari tipi di intelligenza: linguistica, musicale, logico-matematica, interpersonale, eccetera. L'aspetto interessante di questa teoria è che le intelligenze più precoci nel- l'emergere risultano essere le musicali; mentre quella matematica, secondo Gardner, è la più tarda, ed emerge all'età  di 13-14 anni. Ciò significa che pure coloro i quali in futuro diventeranno matematici di professione non necessariamente ne sviluppano la predisposizione prima di quest'età : per cui le elementari e le medie possono essere frequentate "in apnea", pur diventando poi dei matematici. Se è così, allora occorre ripensare tutto l'insegnamento, perlomeno nell'ambito della matematica, cioè cercare di adattarlo a bambini e ad adolescenti che in realtà  non hanno ancora sviluppato - se mai la svilupperanno - l'attitudine per la materia. In effetti, per quel che mi riguarda, non rammento episodi particolari avvenuti prima dei 13-14 anni. Ricordo che alle medie mi piaceva fare i conti; ma quella non è matematica: è la visione ingenua che la gente ha della matematica, secondo cui essa coincide, appunto, con il "fare i conti". In seguito frequentai l'istituto per geometri, perché odiavo il latino. Lì veniva insegnata molta matematica, sebbene, all'epoca, non ancora l'analisi: quest'ultima iniziai a studiarla per conto mio intorno al quarto anno, nel '68. Quindi, evidentemente, la materia mi interessava già , sebbene forse l'approfondissi per motivi pratici, in quanto allora volevo diventare ingegnere. D'altronde, non avrei potuto fare altro, poiché, fino alla riforma del '69, a chi si diplomava geometra risultavano precluse tutte le altre facoltà .

D.: Quindi ha potuto studiare matematica grazie alla riforma...

R.: Sì, nel '69 vi fu questa riforma che liberalizzò l'accesso all'università  e che cambiò, fra l'altro, il sistema di votazione degli esami di scuola superiore da decimi a sessantesimi. Appena diplomato scelsi, nonostante questo, il corso di laurea in ingegneria. Ma durante l'estate, mentre aspettavo di iscrivermi all'università , su una bancarella trovai per caso un libro di Bertrand Russell, credo la sua famosa Introduzione alla filosofia matematica: lo lessi e ne rimasi affascinato; perciò, se sono diventato matematico, la colpa - o il merito, non so - è di Bertrand Russell! Si trattava di un libro filosofico, nel senso che parlava di logica, di fondamenti della matematica; e non è un caso, forse, che io poi sia giunto ad occuparmi proprio di questo campo. Provenendo da un istituto per geometri, risultava un po' strano il fatto che avessi scelto questa branca della matematica, più filosofica che applicativa: forse era una reazione, non lo so. All'università  non seguii corsi di logica, ma diedi due esami sull'argomento preparandomi autonomamente: per il primo, con il manuale di logica di William Quine, un filosofo dell'Università  di Harvard autore di tantissime opere; per il secondo, con un libro - molto più "tosto" - di Joseph Schoenfeld. Svolsi la mia tesi di laurea, che proposi io al mio professore, sugli aspetti metamatematici della matematica: in pratica, sui teoremi di Gödel e su come questi si applicassero a parti della matematica che non fossero l'aritmetica. Quelli di Gödel, infatti, sono teoremi di incompletezza della matematica, e affermano che ci sono delle verità  non dimostrabili. Nella versione originale, essi si applicano all'aritmetica, cioè ai numeri interi; ma a me interessava sapere cosa succedesse considerando altri tipi di numeri: negativi, razionali, reali. La cosa interessante, a questo proposito, è che, quando si arriva ai numeri reali, non si ha più incompletezza.

D.: Cos'è la logica matematica, la materia di cui lei si occupa?

R.: La matematica è divisa in tante parti. Molti non considerano la logica come parte della matematica, per i suoi trascorsi filosofici. La logica nacque ai tempi dei Greci, però poi nell'Ottocento diventò "logica matematica", qualunque cosa ciò voglia dire. Sappiamo cos'è la logica: lo studio del ragionamento. Ma bisogna vedere poi a cosa uno riferisce l'aggettivo: se al primo termine, "studio", si tratta dello "studio matematico del ragionamento", cioè dei modi di ragionare usando i mezzi della matematica; se al secondo termine, "ragionamento", si tratta dello "studio del ragionamento matematico", che restringe il campo di studio del ragionamento in generale a quello solo matematico; se ad entrambi i termini, abbiamo lo "studio matematico del ragionamento matematico", ovvero ciò che oggi la logica matematica è diventata. Essa, cioè, studia i ragionamenti che si compiono in matematica e lo fa usando i mezzi della matematica stessa. Perciò, a tutto diritto - oltre che a dovere! - costituisce una parte della matematica; anzi, è un'area che sta a metà  tra matematica, informatica e filosofia, tanto è vero che la si insegna in tutti e tre i corsi di laurea. La logica si muove dunque in tre direzioni diverse: quella umanistica, attraverso la filosofia; quella scientifica, attraverso la matematica; e quella tecnologica, attraverso l'informatica. E, come impariamo a scuola, muovendosi in tre direzioni ortogonali si riesce a coprire tutto lo spazio!

D.: Ci diceva che si è occupato di logica fin dalla tesi di laurea...

R.: Sì, fra l'altro il mio professore di logica matematica, Flavio Previale, quando gli consegnai la tesi mi disse: «Questa non è una tesi: è un libro!». Ed era vero, perché, mentre preparavo la tesi - un lavoro di ricerca di vario genere, dal bibliografico allo speculativo - già  avevo in mente di scrivere il libro che poi divenne la mia opera principale. Ci vollero però quattordici anni perché vedesse la luce il primo volume del libro, e ben ventiquattro per il secondo. Il titolo era Classical Recursion Theory, "Teoria della ricorsività  classica". Una volta laureato, mi interessai soprattutto di un aspetto particolare della logica matematica, e cioè di una delle sue tante sottobranche: la teoria delle ricorsività , che si basa sulla "ricorsione", la quale ha a che fare con quelli che in informatica si chiamano loop, cicli. Il nome odierno di tale sot 7. Piergiorgio Odifreddi tobranca, in grado di rifletterne meglio la natura, è teoria della calcolabilità , perché essa studia le potenzialità  e le limitazioni dei computer: ciò che questi possono fare ma anche, e soprattutto, ciò che non possono fare, dal momento che non riescono a calcolare la maggior parte delle funzioni. Questa disciplina, fra l'altro, classifica le funzioni matematiche in base al loro grado di difficoltà  di calcolo: al più basso, per esempio, vi sono le funzioni calcolabili, per le quali esiste un programma che consente di trovarne il valore, e che un matematico considera banali. Quindi, la correlazione tra logica e informatica è forte: non a caso, per una quindicina d'anni, dall'83 al 2000, presso l'Università  di Torino ho insegnato agli informatici la teoria della calcolabilità , che rappresenta un po' il fondamento teorico dell'informatica. L'informatica, del resto, nacque così: con un articolo del 1936 in cui Alan Turing, per risolvere un particolare problema legato ai teoremi di Gödel, introdusse un modello astratto di macchina calcolatrice, chiamata ancor oggi "macchina di Turing", riuscendo in questo modo a fornire una definizione precisa di cosa volesse dire "essere calcolabile". Si trattava di un modello teorico, perché i computer arrivarono dopo, realizzati soprattutto da von Neumann; ma segnò, di fatto, la nascita dell'informatica.

D.: Lei poi ha lavorato molto all'estero...

R.: Io non solo ho lavorato parecchio all'estero, ma ho anche viaggiato molto, tenendo sempre distinti il "sacro" e il "profano", dove - tanto per essere chiari - il primo è il viaggiare e il secondo è il lavorare. Iniziai a recarmi all'estero nel '78. Infatti mi laureai nel '73; poi, superato un concorso, diventai assistente; e nel '78, grazie a una borsa di studio per l'estero offerta dal CNR, partii per gli Stati Uniti, dove rimasi due anni. All'epoca in Italia non esisteva ancora il dottorato: così negli Stati Uniti frequentai per due anni il Ph.D., ma senza iscrivermi, perché in realtà  io volevo già  allora scrivere il mio libro di logica, che, come ho detto, era cominciato con la tesi di laurea. Dal '74 mi dedicai a questo libro; per cui quando sono andato, il primo anno, all'Università  dell'Illinois a Urbana-Champagne, vicino Chicago, e, il secondo anno, all'UCLA di Los Angeles, avevo già  un manoscritto di centinaia di pagine, completo di tutti e tre i volumi dell'opera. Di questi tre, poi ne uscirono due, mentre il terzo l'ho in seguito abbandonato, perché mi sono stufato di occuparmi di tali argomenti. Dunque, quando mi recai negli Stati Uniti, volevo vedere che tipi di attività  vi si svolgessero nel campo della logica, anche al fine di "turare i buchi" del mio libro. Infatti una persona, quando costruisce qualcosa da sé, si pone poi molte domande a cui non sono ancora state date risposte: in parte cerca di rispondere personalmente, ma la cosa più ovvia è... chiedere in giro! Andai sia a Chicago sia a Los Angeles, perché sulla costa est e sulla costa ovest si studiavano argomenti diversi, in quanto si trattava di due scuole differenti. Poi tornai in Italia e, a distanza di un anno, nell'82, mi recai per lo stesso motivo in Unione Sovietica, dove rimasi per altri due anni come visiting professor: cioè insegnavo, mentre in America ero, praticamente, un post-doc, come si direbbe oggi. All'epoca, per quanto riguarda la logica e, in particolare, la teoria della ricorsività  di cui io mi occupavo, l'Unione Sovietica non aveva alcun contatto con l'Occidente, per cui non era chiaro che lavoro svolgesse in quel campo. Andai dunque a vedere di persona: difatti nel mio libro sono riportati molti risultati ottenuti dai russi, anche negli anni precedenti. Poi, nel corso della mia vita, sono stato per un anno, sia pure a varie riprese, in Sud America; per un anno, in un'università  della Cina, e per un altro in India; infine, per un semestre, in Australia. Quindi ho girato parecchio!

D.: A un certo punto ha iniziato a insegnare negli Stati Uniti...

R.: Sì. Dopo essere tornato in Italia dalla Russia, nell'85 andai di nuovo negli Stati Uniti, questa volta come professore: insegnai per un anno alla Cornell University, nello stato di New York. Da allora cominciai a "fare avanti e indietro": alla Cornell insegnai vari anni, durante i quali, quando tornavo in Italia, insegnavo all'Università  di Torino. Ho condotto questa vita negli ultimi 18-20 anni, e ancora adesso insegno negli Stati Uniti - dove peraltro tengo sempre un corso estivo - ma ci vado sempre meno, anche perché ormai mi interesso di molte altre cose. L'ultima volta in cui mi sono recato in America risale allo scorso anno, e vi sono rimasto per un semestre. Negli Stati Uniti ho tenuto vari corsi universitari, non solo legati alla logica o alla ricorsività ; anzi, ho insegnato di tutto, perché lì ti mettono a insegnare ciò di cui hanno bisogno: quindi, se occorre una persona che tenga un corso di analisi, il fatto di essere logico non impedisce loro di assegnarti insegnamenti diversi. Per esempio, a me è capitato di insegnare analisi, calcolo delle probabilità , statistica, matematica finita e programmazione logica. In Italia, invece, c'è la famosa "cattedra": io dal '99 sono ordinario di logica matematica. Però, anche qui da noi, si può variare abbastanza: infatti, ora insegno fondamenti di matematica e pure logica intuizionista; ma ho tenuto molti altri corsi a informatica ed a matematica.

D.: Quali sono, secondo lei, le migliori università  americane?

R.:Dipende dalle specializzazioni. Negli Stati Uniti c'è addirittura una classifica delle università , fatta in base a quello che gli altri dicono di esse, perché nessuno può votare per il proprio ateneo. Esistono università  in cui è molto forte, per esempio, la logica matematica, e altre dove lo è l'analisi, e altre ancora che risultano particolarmente valide nel campo della statistica. Quindi, non è che vi sia un'università  migliore di tutte le altre. Certo, ci sono quelle grandi e famose - tipo Harvard, Berkeley, Princeton - dove "non ti va mai male", neppure nel caso in cui non risultino le prime nel tuo settore. E poi ci sono quelle più specializzate, magari con un dipartimento che cresce intorno a uno o a due professori; dimodoché, una realtà  non grandissima diventa, in quel particolare campo, il top del mondo. In Unione sovietica la situazione era un po' diversa, per il carattere statale delle università , che invece in America sono, in molti casi, private. Però a Novosibirsk, dove mi trovavo io, c'era la "Città  dell'Accademia", un po' la "Mecca" degli scienziati, equivalente, negli Stati Uniti, all'Institute for Advanced Studies di Princeton.

D.:C'è una differenza che la colpisce particolarmente, tra il sistema universitario americano e quello italiano ?

R.: Rispetto agli Stati Uniti, da noi il sistema universitario è molto sclerotizzato: l'università  italiana sta diventando un "liceo superiore". Quando io racconto agli americani come in Italia si svolgono, per esempio, le sessioni d'esame, la loro reazione è a metà  strada tra l'incredulità  e il "piegato in due" dal ridere: l'idea che uno studente frequenti un corso e possa sostenerne l'esame dopo 8-10 anni, pretendendo inoltre di presentarsi con quello stesso programma, o il fatto che vi siano 7-8 appelli l'anno per un esame, negli Stati Uniti sono considerate cose fuori dal mondo. In America, sai già  all'inizio dell'anno accademico quale sarà  il giorno in cui sosterrai l'esame. Se, per ben giustificati motivi, non potrai darlo in quella data, dovrai presentarti non l'anno successivo, bensì tre giorni prima o tre giorni dopo, pena la perdita dell'anno stesso. Non solo. Infatti, settimanalmente occorre superare prove, svolgere compiti, e, durante il corso, della durata di tre mesi, ci sono due esami preliminari: dopo un mese, il primo, e dopo un altro il secondo; dopodiché, c'è l'esame finale. Se in America vi fosse il sistema presente qui da noi, ogni mese dovrei assistere ad esami su argomenti che insegnavo dieci anni fa: sarebbe una cosa completamente assurda, del tutto priva di senso! I nostri studenti, fra l'altro, credono che disporre di un appello in più sia un diritto, senza rendersi conto che questo comportamento, invece, indica proprio la mentalità  con cui non si dovrebbe studiare: non ha senso prepararsi sugli appunti presi da qualcun'altro, né sostenere un esame dopo otto mesi, un anno o due anni.

D.: In matematica esiste la cosiddetta "fuga dei cervelli"?

R.: Sì, certo che esiste! La gente va all'estero, se può, e poi vi 7. Piergiorgio Odifreddi rimane. Il problema, appunto, è riuscire ad andarci, perché non sempre è facile a "scappare". In matematica la "fuga" risulta minore che in altre materie scientifiche, le quali necessitano, di solito, di finanziamenti enormi per la ricerca. In matematica questo, fortunatamente, si verifica in misura assai minore, perlomeno in certi settori. I finanziamenti ci servono, tutto sommato, per pagare i viaggi in occasione di convegni e per acquistare un computer. I fisici, invece, per poter compiere i propri esperimenti, hanno bisogno di decine - se non centinaia - di migliaia di euro, e dunque su di loro l'aspetto economico incide molto di più. Però è un caso che Bombieri, il maggiore matematico italiano - l'unico che abbia ricevuto la medaglia Fields - stia in America? Tra l'altro, non è che lavorasse in una sconosciuta università  italiana, bensì alla Scuola Normale di Pisa, la migliore! Se egli è finito negli Stati Uniti, ci sarà  un motivo; probabilmente, avrà  influito anche il modo in cui è organizzata la nostra università , che costringe il docente a barcamenarsi tra ricerca e insegnamento. Per esperienza diretta, posso dire che andare in America è come cambiare completamente pianeta! La nostra - ripeto - è una specie di "liceo superiore", non un'università .

D.: Per vincere la medaglia Fields, che è un po' il Nobel dei matematici, aiuta andare a lavorare negli Stati Uniti?

R.: Non credo. Per esempio, tra i vincitori di medaglie Fields ci sono diversi matematici francesi: nel '50, la medaglia fu assegnata al francese Laurent Schwartz; nel '54, a Jean Pierre Serre; nel '58, a René Thom, e così via. Per poter aspirare alla medaglia Fields, naturalmente, occorre far parte di certi gruppi: nel senso che vi sono materie privilegiate - tipo la geometria algebrica - e altre per le quali essa non è mai stata vinta. La logica, ad esempio, l'ha ricevuta una sola volta, con Paul Cohen, per la soluzione del primo problema di Hilbert, riguardante l'ipotesi del continuo. Cohen, però, era un analista. Tra i logici, non c'è mai stato nessuno che abbia vinto il premio: in parte perché, evidentemente, alcuni ma tematici non ritengono che la logica sia a quel livello, in parte perché esistono gruppi di pressione. Le medaglie Fields, in fondo, non vengono date da Dio, ma da un comitato di matematici stabilito dall'International Mathematical Union, l'Unione Matematica Mondiale, con sede negli Stati Uniti. Precisamente, le si assegnano - in numero di due, di tre o di quattro - ad altrettanti vincitori, in occasione dei congressi mondiali, che hanno luogo ogni quattro anni. Perciò il riconoscimento è assolutamente internazionale, ma rimane il fatto che esistono gruppi più potenti di altri. Quindi, può succedere che lo riceva un matematico e, dopo qualche anno, un suo allievo: chi vince, infatti, gode di una specie di prelazione nel presentare i candidati nuovi e va a far parte dei comitati.

D.: C'è un episodio particolarmente divertente o curioso che le è capitato durante la sua carriera?

R.:Sì, l'episodio divertente risale a quando, negli anni '82-'83, recatomi in Unione Sovietica, mi arrestarono. All'epoca, quel paese viveva un periodo grigio, a causa del problema della dissidenza; inoltre, era appena morto Breznev, cui seguirono Chernenko e, poi, Andropov. Tra i miei amici matematici c'erano alcuni dissidenti, cioè persone che avevano perso il lavoro perché volevano emigrare negli Stati Uniti. Successe che, avendo io chiesto a uno di loro di cambiarmi dei soldi, questi venne arrestato e io fui accusato di attività  antisovietica. Precedentemente, in Italia erano state arrestate e condannate a 14 anni di carcere due spie sovietiche, agenti del KGB che effettuavano spionaggio industriale e che, evidentemente, non avevano una copertura diplomatica. I sovietici, allora, se la presero con me e con altri due italiani: un industriale e un giornalista che si trovava a Mosca. Dapprima ci inviarono una specie di avviso di garanzia; poi, però, visto che la cosa non sortiva alcun effetto - il loro scopo era raggiungere uno scambio con i tre detenuti in Italia - mi accusarono, appunto, di attività  antisovietica. Andammo avanti così per sei mesi. Imbastirono un processo, e noi, alla fine, rischiavamo la pena di morte oppure, più realisticamente, qualche anno di galera, o meglio, nei campi di lavoro. Tra l'altro io mi trovavo già  in Siberia, a Novosibirsk, ma potevano mandarmi a nord, dove faceva molto più freddo! Ero quindi assai preoccupato, anche perché stavo lavorando al mio libro, e il tipo di lavoro che invece mi si prospettava era quello di spaccare pietre per otto ore al giorno: perciò "temevo per la mia calligrafia", in quanto all'epoca non esistevano ancora i computer portatili! Fra l'altro, io ero all'oscuro degli arresti avvenuti in Italia, perché il console italiano non voleva rendere note le trattative: sapevo solamente che mi avevano accusato di attività  antisovietica. Venni a conoscenza dei fatti solo l'ultimo giorno, quando il consolato mi disse che dovevo andare a Mosca...

D.: E lì, a quel punto, cosa successe?

R.: Mi fecero salire su una Volvo e mi portarono al monastero di Novodievic, dove è sepolto Kruscev. Là  vi è un lago e, come in un film, il console ed io vi passeggiammo intorno. In quell'occasione, finalmente, mi venne svelato che ero stato oggetto di uno scambio, il quale avrebbe avuto luogo a breve. Così chiesi a mio padre di venirmi a prendere all'aeroporto, senza riferirgli nulla della vicenda, perché mi era stato detto di tenerla nascosta. Ma due giorni dopo il mio arrivo in Italia la notizia dello scambio fu pubblicata su tutti i giornali. Quest'ultimo venne effettuato nel modo solito in cui succedono tali cose, cioè con tutti i protagonisti che partono insieme. Solo che, mentre i due sovietici, partiti da Genova, erano ormai arrivati a Mosca, e gli italiani, partiti da Mosca, erano ormai arrivati a Genova, io, invece, nel frattempo ero partito da Novosibirsk ma ero arrivato soltanto a Mosca! Perciò, quando le due spie si trovavano al sicuro, io ero ancora nel territorio sovietico, al contrario degli altri due italiani, già  rimpatriati. Il giorno successivo mi scortarono all'aeroporto. Ricordo che, recatomi in un negozio a comprare un souvenir, la commessa, dopo avermi chiesto di quale paese fossi originario, mi domandò: «Tutti gli italiani parlano così bene russo?». Io risposi: «No, soltanto le spie!». Subito il console mi lanciò un'occhiataccia... Naturalmente la mia era stata una battuta, ma egli sapeva che cosa ci fosse dietro; inoltre, si era raccomandato che non combinassi pasticci e che non portassi con me oggetti compromettenti. Io gli dissi che non avevo con me assolutamente nulla, mentre invece le tasche dei miei indumenti erano piene di lettere che i dissidenti volevano far recapitare in Occidente: si trattava di un rischio, naturalmente, perché, se mi avessero arrestato, non ci sarebbe più stata merce di scambio.

D.: Qual è, secondo lei, la bellezza della matematica? E cos'è che la rende unica?

R.: La bellezza della matematica è la bellezza dell'arte astratta. È un po' come guardare un quadro di Kandinsky, il quale, tra l'altro, raffigura oggetti matematici: triangoli, cerchi, quadrati, cioè esattamente gli elementi di cui parlava Galileo nel Saggiatore quando scriveva che "la natura è un libro scritto in un linguaggio matematico". È la stessa bellezza che troviamo, per esempio, inuna fuga di Bach. È la bellezza della ragione, che si estrinseca in tanti modi, dalla musica alla letteratura, e a qualsiasi altra cosa in cui si osservi una simmetria o delle strutture. Non è una bellezza sensoriale, bensì, piuttosto, un tipo di bellezza intellettuale. La matematica, inoltre, a differenza di altre discipline, non è "scientifica": nel senso che non si occupa della scienza intesa come fisica, chimica e, più in generale, studio della natura, né ne adopera i metodi. Infatti, semplificando, si può dire che mentre la scienza, nei propri metodi, è induttiva - cioè parte dalle osservazioni e poi va "all'indietro", alla ricerca di teorie che le spieghino - la matematica è l'esatto contrario: è deduttiva, cioè parte da assiomi e deduce teoremi. Quindi, l'unicità  della matematica consiste nel fatto che essa, pur costituendo il linguaggio della scienza, in realtà  è anche vicina all'umanesimo: è una forma d'arte. Anzi, secondo me, questo è il bello della matematica: che non è né umanesimo né scienza, ma qualcosa che partecipa di tutti e due i campi, e dunque può costituire proprio il ponte di congiunzione tra i due. È per questo motivo che noi matematici riusciamo a mettere "i piedi in due scarpe", mentre ciò risulta più difficile ai fisici o ai chimici, che sono scienziati. Fuori esiste un mondo che gli scienziati studiano, lo stesso mondo che gli umanisti cercano di descrivere attraverso le loro opere artistiche; ma si tratta di due descrizioni contrapposte. La matematica, invece, è fuori da entrambi questi campi: non descrive né il mondo umano né il mondo naturale; è pensiero astratto, smaterializzato, che però poi si incarna sia nella scienza sia nell'arte razionale, per l'appunto.

D.: Se Dio esistesse, sarebbe un matematico?

R.: Io non credo nell'ipotesi. Ma sono già  i Greci, con Pitagora, Anassagora ed Eraclito, a sostenere l'idea che nell'universo ci sia una razionalità  e che quindi, tutto sommato, essa emerga nelle leggi fisiche. Allora qualcuno potrebbe pensare che le leggi fisiche non siano altro che i pensieri della mente di Dio: è per questo che Stephen Hawking termina il proprio libro Dal big bang ai buchi neri dicendo che, quando avremo una "teoria del tutto", saremo in grado di comprendere la mente di Dio. Se uno vuole chiamare "Dio" la natura, mi va benissimo; tra l'altro, è ciò che diceva Spinoza: Deus, sive natura, "Dio, cioè la natura". Si può pensare addirittura a una metafora più generalizzata, in base alla quale, così come noi, anche Dio abbia un corpo e una mente, rappresentati, rispettivamente, dal mondo fisico e dalle leggi di quest'ultimo. Ma si tratta, appunto, di una metafora: nessuno si metterebbe ad adorare questo Dio, ovvero la razionalità  in astratto! Volendo, potrei pure dichiararmi credente in questo genere di Dio... Mi va molto meno bene, invece, la religiosità  popolare, eccetto quando faccio il turista e visito i templi o le chiese. Capisco che esistano determinati bisogni del cosiddetto "popolino", e che sia inutile pretendere che una persona, la sera, invece di pregare la Madonna, reciti le equazioni della relatività  generale! Ma mi dà  molto fastidio la presenza di tutta una struttura che si accompagna a questo - e cioè la Chiesa - la cui influenza si estende perfino sulle nostre leggi. Basti pensare alla recente legge di stampo oscurantista sulla procreazione assistita, frutto diretto proprio di questo genere di mentalità  completamente antiscientifica: infatti, credere che l'embrione abbia una vita significa non riconoscere che in realtà  quest'ultima è una reazione fisico-chimica. Nonostante ciò, alcuni matematici credono in Dio - Ennio De Giorgi, per esempio, era cattolico - ma io credo che, in molti casi, essi abbiano una concezione assai astratta di Dio, derivante dalla matematica. Pure Newton, Cartesio e Leibniz credevano in Dio, ma per Newton Dio era l'ordinatore dell'universo, un'intelligenza superiore, e non - come invece sostiene la Chiesa - qualcuno che si è incarnato a causa del peccato originale.

D.: Per dedicarsi alla matematica occorre averne il "bernoccolo"?

R.: La matematica è come lo sport, o come il genio. In inglese si dice: Genius is 10 percent inspiration and 90 percent perspiration, cioè "il genio è, per il 10 percento, ispirazione e, per il 90 percento, sudore". Lo stesso vale per la matematica. Difficilmente un genio "vede" le formule: può succedere qualche volta, come nel caso dell'indiano Ramanujan; ma in realtà  anch'egli lavorava da morire, e così pure tantissimi altri matematici famosi. Prendiamo il caso di Riemann, che veniva portato come esempio di matematico intuitivo: quando se ne scoprirono i suoi quaderni, pieni di numeri, di calcoli e di prove, si capì come non fosse affatto il matematico intuitivo che si era creduto. Se anche per le eccezioni conta il lavoro duro più che il genio puro, immaginiamoci allora cosa succeda per le persone normali! Certo, occorre avere il "bernoccolo", come si dice, nel senso che uno, se vuol fare l'atleta, deve possedere due gambe: se è paraplegico, certo non potrà  farlo; e ciò vale anche per la matematica. Però quanti sono i paraplegici al mondo? E, idem, quanti sono gli "idioti", cioè coloro che proprio non riescono a capire la matematica? Gli altri, se sgobbano, vi riescono.

D.: Quali sono in Italia le sedi migliori per studiare matematica?

R.:Naturalmente Pisa, se uno riesce a entrare alla Scuola Normale. In Italia, poi, non esistono grandissime differenze tra le altre sedi. Certo, chi vuole studiare logica deve venire a Torino, ma c'è un motivo: qui siamo in tutto 6-7 logici, per cui esiste un bell'indirizzo in tale disciplina, sia nel corso di laurea in matematica che in quello in informatica. Per la logica, c'è pure l'Università  di Siena, che in passato ha avuto una buona concentrazione di logici, e rimane ancor oggi una sede importante. Siena, fra l'altro, ha un dottorato specifico in logica matematica, che, per quanto ne so io, è l'unico in Italia. Anche a Torino c'è il dottorato, ma in matematica; sebbene poi uno, in pratica, possa prendersi la specializzazione che crede. Non saprei dire, invece, quali siano le sedi importanti per altre branche specifiche, come l'algebra, l'analisi o la geometria. Pisa è considerata ottima un po' per tutte le specialità . Anche Torino, Milano e Roma "La Sapienza" sono buone sedi; però, l'unico centro di eccellenza è, appunto, quello di Pisa.

D.: Quando ha iniziato a scrivere libri divulgativi?

R.:Con la crisi della mezza età . Verso i 42-43 anni stavo cercando di terminare il secondo volume sulla teoria della ricorsività , e non ce la facevo più: la mattina accendevo il computer e lo schermo rimaneva vuoto fino alla sera! Per caso iniziai a redigere qualche articolo sui teoremi di Gödel per La rivista dei libri,e di lì, pian piano, arrivai a scrivere prima su Tuttolibri e sulle pagine culturali de La Stampa, poi su La Repubblica e su L'Espresso. Il difficile, in questo campo, è cominciare, "mettere il piede dentro la porta": una volta "messo", però, le cose poi procedono un po' da sole; e il rischio, semmai, è di "stritolarselo"! A quel punto, decisi di cominciare a fare divulgazione anche attraverso i libri, per il primo dei quali scelsi il titolo Il Vangelo secondo la scienza, in quanto pensai che una persona, se voleva occuparsi di divulgazione, forse era meglio che lasciasse il segno. Gli argomenti che interessano di più la gente sono la religione, la politica e il sesso, non certo la matematica. Su "matematica e sesso" non avrei saputo cosa scrivere - anche se da poco è uscito, sull'argomento, il libro Mathematics&Sex - e inoltre pensavo che fosse più una questione di fisica: termodinamica, idraulica, leve, eccetera. Allora "lanciai la moneta" tra politica e religione: anche se prima o poi scriverò Il Capitale secondo la scienza, decisi di cominciare facendo il parallelo tra la scienza e la religione; naturalmente, allargandomi poi alla letteratura, alla politica e all'arte. Quel primo libro ebbe un certo successo, perché ne furono vendute quasi 50.000 copie, che per un saggio rappresentano una cifra fuori dal comune. Da allora, avrò scritto una decina di altri libri divulgativi, tra cui uno sui paradossi, C'era una volta un paradosso, che ha ricevuto vari premi. In questo libro, ho "infilato" la matematica alla fine, nell'ultimo capitolo, che è una storia di questa disciplina attraverso i paradossi: ciò con la speranza che il lettore, essendosi divertito prima con la parte più interessante, dopo voglia leggere anche un po' di matematica. Più di recente, ho pubblicato due libri, editi da Cortina, che trattano argomenti vari: Il computer di Dio e La repubblica dei numeri, entrambi semplici raccolte di articoli brevi redatti, rispettivamente, per La Stampa e per La Repubblica. Uno degli ultimi libri che ho pubblicato, Il diavolo in cattedra, parla di filosofia, ed è un tentativo di far capire come la logica matematica abbia le proprie origini nel pensiero dei filosofi, a cominciare da quelli greci. Quindi, si tratta di un'opera di divulgazione, nel senso che unisce discipline diverse: la logica matematica e la filosofia. L'ultimo libro, intitolato Le menzogne di Ulisse, è invece la storia della logica dagli inizi fino ad oggi.

D.: A chi si rivolgono i suoi libri?

R.: Agli altri, perché è bene che uno non scriva per se stesso, cosa che invece i matematici tendono un po' a fare. Uno, se scrive per se stesso, finirà  con l'essere l'unico lettore dei propri libri! Per fare divulgazione, occorre invece osservare quali possano essere gli interessi del pubblico e, soprattutto, usare un linguaggio comprensibile, magari anche un po' letterario. Occorre che il testo sia scritto bene dal punto di vista linguistico e che possieda brio, verve: quindi io, nelle mie opere, cerco di mettere un po' di ironia, di sarcasmo, di provocazione, al punto che alcuni mi accusano di essere eccessivo o, addirittura, anticlericale. Io, a questi ultimi, rispondo che sono semplicemente "anticretinale": non ce l'ho con il clero, con la religione, ma con gli stupidi! Con la divulgazione ho cercato di spiegare al mio pubblico di lettori i legami tra la matematica ed il resto della cultura, e in particolare con il mondo umanistico: quindi mi sono occupato dei legami della matematica con la letteratura, la pittura e la musica. Recentemente, invitato da Umberto Eco, ho tenuto a Bologna un ciclo di lezioni che si intitolava "Le tre invidie del matematico", ossia quella della "penna" (la letteratura), del "pennello" (la pittura) e della "bacchetta" (la musica): tutte cose che, in qualche modo, ricordano quello che, secondo Freud, era l'oggetto dell'invidia delle donne nei confronti degli uomini. Il mio prossimo libro - Le tre invidie del matematico, che uscirà  presto - tratterà  proprio questo argomento. Ho scritto anche un libro, intitolato La matematica del Novecento e già  tradotto in tre o quattro lingue, il quale contiene parecchie formule e si rivolge, dunque, ai matematici. Si tratta di un lavoro di divulgazione, ma destinato a un pubblico di addetti ai lavori: per esempio, agli studenti universitari di matematica che, giunti alla fine del corso di laurea, normalmente non hanno un'idea chiara della matematica del Novecento. Quindi, esistono vari tipi di pubblico e di divulgazione.

D.: Cosa significa fare divulgazione scientifica?

R.: "Divulgare" significa "parlare di ciò di cui si può parlare, a chi abbia voglia di ascoltare": infatti, non tutto si presta ad essere divulgato, e non tutti hanno voglia di usufruire della divulgazione. Se vado in televisione a illustrare il teorema di Fermat, che divulgazione faccio? Anche su un giornale non si può riportare la dimostrazione di un teorema, bensì si devono raccontare delle storie. Dunque, bisogna parlare degli argomenti opportuni di cui si può a seconda del mezzo di comunicazione, poiché ciascuno di essi permette di divulgare alcuni aspetti della matematica e della scienza, ma non altri. Non puoi andare in televisione a "fare la radio", cioè a parlare per un'ora, perché in tal caso la gente non ti starebbe a guardare! D'altra parte, la radio è un mezzo che facilita il discorso, mentre la televisione privilegia le immagini rispetto alle parole e alle argomentazioni. In un libro, invece, si può compiere un discorso ad ampio raggio, e lo si può destinare a pubblici diversi: per cui si va dal libro semitecnico a quello divulgativo e di successo alla Luciano De Crescenzo. Occorre dunque saper sfruttare al massimo le diverse potenzialità  dei vari canali di divulgazione: non ce n'è uno migliore degli altri; tutto dipende dagli obiettivi che ci si prefissa e, soprattutto, dal tipo di pubblico che si vuole raggiungere. In televisione, comunque, è molto difficile fare divulgazione. Infatti, sia Piero Angela sia Alessandro Cecchi Paone finiscono per parlare soprattutto di astronomia e di animali: a prendere in considerazione la matematica, non ci provano neppure!

D.: Divulgare la matematica, in effetti, è ancora più difficile...

R.: Sì, e per chi ci prova non sempre i risultati sono quelli sperati. A me, per esempio, recentemente è capitato di partecipare come ospite alla trasmissione Le storie di Corrado Augias, nel corso della quale, parlando del concetto di simmetria, ho mostrato una tabella di moltiplicazioni: 1 × 1 = 1, 11 × 11 = 121, 111 × 111 = 12321, eccetera. Due sere dopo, qui a Torino, in un ristorante dove ceno spesso, a un certo punto mi si avvicina il cuoco, dicendomi: «Ah, è stato bravissimo: persino io ho capito che 1 più 1 fa 1!». Aveva capito tutto! Gli ho risposto: «Ecco, bravo. Per fortuna, lei fa il cuoco e non il cassiere...». La divulgazione scientifica, evidentemente, è più facile in discipline quali l'astronomia, la fisica o la biologia, che sono legate al mondo esterno e che si possono esemplificare con belle immagini. La matematica, invece, è più astratta e non permette visualizzazioni interessanti, se non attraverso la geometria. Inoltre, la matematica incute paura in chi non la conosce, anche a causa del suo linguaggio tecnico: per questo io, compiendo divulgazione, cerco di muovermi su un terreno diverso, mostrando come la matematica affiori in tanti aspetti della vita quotidiana; ne parlo indirettamente attraverso i quadri, i romanzi, i brani musicali, i testi filosofici, le scoperte scientifiche e le vite di alcuni personaggi. In altre parole, non parlo al pubblico di matematica come farebbe un professore davanti alla lavagna nel corso di una lezione, bensì in maniera "leggera" e cercando di divertire: come ne parlerei - magari - se mi trovassi a passeggiare con un amico non particolarmente interessato alla materia, il quale, dunque, non vorrebbe mai sentirne parlare direttamente.

D.:Ovviamente, parlare di argomenti adatti a un determinato medium, non basta per fare una buona divulgazione...

R.: È vero. Bisogna anche saper parlare la lingua della gente che sta ad ascoltare, cioè saper usare il linguaggio comune. Lo stesso Einstein diceva: «Nessuno scienziato pensa per formule». In altre parole, la formula non è il punto di partenza, ma quello di arrivo; cosicché si può raccontare il percorso intellettuale che porta a una formula senza, per questo, dover adoperare tecnicismi. Naturalmente, più vogliamo raggiungere una base di pubblico ampia, più dobbiamo scendere di livello. Rivolgendosi a un pubblico televisivo che letteralmente non sa nemmeno quanto faccia "1 più 1", è inutile parlare dei massimi sistemi: occorre scendere al suo livello. Molti scienziati, invece, pensano, a volte un po' spocchiosamente, che oltre un certo livello non sia possibile scendere: ecco allora che essi saranno dei cattivi divulgatori oppure si chiuderanno in una torre d'avorio, magari penalizzando i colleghi che invece fanno divulgazione. Va benissimo dedicare una parte della propria vita a fare ricerca avanzata; ma, essendo pagati dallo Stato, è anche sbagliato continuare per sempre a coltivare il proprio orticello, cioè a scrivere lavori che leggeranno solo tre persone al mondo! Molti scienziati pensano ancora che sia più importante fare consigli di dipartimento in facoltà  piuttosto che occuparsi di divulgazione. La mia attività  di divulgatore, per esempio, è vista pessimamente da molti colleghi di università , in parte per invidia, in parte per la loro mentalità : ma allora non dobbiamo lamentarci del fatto che la gente non conosca la matematica, non se ne interessi, e che le iscrizioni al corso di laurea in questa disciplina crollino! Inoltre, non bisogna pensare che la divulgazione sia un tentativo di dare "bocconcini" di scienza al popolo, fornendo alla gente una o due nozioni, perché ciò non cambia nulla. Occorre cercare, invece, di trasmettere l'immagine di ciò che la scienza fa: come ho detto prima, la scienza è un'attività  contrapposta alla religione, perché non è una questione di fede, bensì di dimostrazioni, di verifiche sperimentali. È questo che si deve cercare di propagandare con la divulgazione: il metodo scientifico, utilizzando gli esempi migliori per illustrarlo.

D.: Come, secondo lei, non bisogna fare divulgazione?

R.: Non la si deve fare, per esempio, come la fa Antonino Zichichi, su cui ho scritto anche un libro: Zichicche. All'inizio di questo libro ho posto una citazione di Aristotele: «Non si dovrà  porre a uno scienziato qualunque tipo di domanda, e lo scienziato non dovrà  rispondere a ogni domanda». Quindi non dobbiamo rispondere in televisione a qualsiasi genere di domanda come se si fosse la scienza infusa. Einstein stesso diceva che non bisogna presentare la scienza come una "repubblica delle banane", in cui ci sono colpi di stato ogni dieci giorni: la scienza è un duro lavoro in cui le cose emergono piano piano. La divulgazione, inoltre, non è "volgarizzazione": ad esempio, non si può dire che "gli spaghetti sono un concentrato di spazio e di tempo", perché ciò non permette di capire alcunché e non ha senso. Ma, soprattutto, ognuno dovrebbe stare attento a non parlare di cose che non sa! Il problema della divulgazione consiste nel fatto che essa ti porta a parlare di temi che esulano dal tuo campo abituale; io spesso rispondo ai giornalisti dicendo: «Questo non è il mio campo, lo chieda a un altro». Mi invitano spesso in televisione o alla radio per parlare del Lotto, di probabilità , di ritardi, eccetera. Una volta, ad una di queste trasmissioni - cui prima avevano provato a chiedere a me di partecipare - c'è andato il mio amico Michele Emmer; ma sarebbe stato meglio se non ci fosse andato! Bisogna infatti stare attenti: uno, a meno che non faccia sempre e solo divulgazione sulle cose che sa - cioè relative al proprio campo - alla fine rischia di dare l'impressione del matematico che non ha idea di ciò di cui sta parlando.

D.: Come vede il futuro della matematica e, più in generale, della cultura, nella nostra società  tecnologica?

R.: Non vorrei essere tragico, ma credo che la cultura, per come noi l'abbiamo conosciuta, stia morendo. D'altra parte, è evidente che i giovani sono cambiati: rispetto a quelli di una volta, i ragazzi di oggi, cresciuti guardando la televisione e giocando con i videogiochi, hanno una soglia di attenzione molto più bassa. Dalle nuove tecnologie e dalla pubblicità  televisiva sono stati abituati a tempi di concentrazione mentale assai ridotti: dopo un po' cominciano ad annoiarsi, a lezione come a un concerto di Mozart. Per uno studente di oggi, è faticoso assistere ad un'ora di lezione, mentre ai miei tempi era faticoso, semmai, il seguirne "quattro"! I nostri bambini non stanno mai fermi, non riescono a concentrarsi; diversamente, i bambini che vivono in Oriente sono capaci di stare per ore fermi, in piedi e in silenzio, su un pullman. La nostra società  ci porta ad essere in un certo modo: non so se migliore o peggiore, ma sicuramente non adatto per fare matematica. Non si può pretendere di pensare dieci minuti e di andare poi a farsi un giro, perché quando uno deve risolvere un problema complicato occorre una concentrazione totale e continua! Questo cambiamento che sta avvenendo nella nostra società  potrebbe portare alla morte non soltanto del matematico, ma anche del pensiero teoretico in generale. E ciò mi dà  fastidio, perché comporta la perdita di qualcosa; ma soprattutto è molto preoccupante, perché significa che stiamo andando verso una società  molto più superficiale, priva della capacità  di penetrazione intellettuale. La gente, già  oggi, non è più abituata a leggere libri, ma solo articoli di giornale, dove gli argomenti vengono "sbocconcellati" e manca il piatto forte: è come se uno andasse al ristorante e mangiasse soltanto gli "antipastini". Certamente si sopravvive, però non credo che sopravviverà  la cultura come noi la conosciamo: quella del libro, dello scrittore, del filosofo, del pensatore, dello scienziato. Per sapere che cosa succederà , occorrerà  vederlo. Forse la nostra civiltà  occidentale, proprio a causa della forbice tra la società  tecnologica e il popolo di idioti tecnologici che essa produce - e che non sa cosa tale società  sia, né, tanto meno, vuol saperlo - un giorno non avrà  più il background culturale che oggi la sorregge, e crollerà ; d'altra parte, anche gli imperi muoiono, come ci ha insegnato lo stesso Impero Romano!

D.: Quali sono i suoi interessi al di fuori della matematica? Ha degli hobby? Pratica o ha praticato sport?

R.: Un mio hobby è la musica: "suono" il pianoforte. Dico "suono" usando un'iperbole, in quanto lo suono più "piano che... forte"! Poi ho gli hobby culturali che credo abbiano un po' tutte le persone. Mi piace molto leggere: per esempio, gli ultimi libri che ho letto sono quelli dell'opera omnia di Coetzee, il premio Nobel per la letteratura di un paio di anni fa, fra l'altro laureato in matematica. Di romanzi ne leggo pochi: mi piacciono molto le letterature di testa, cioè sono più interessato all'aspetto linguistico che alle storie. Quindi, mi intrigano scrittori come Italo Calvino, i quali costruiscono i libri in base a strutture che, se non sono 7. Piergiorgio Odifreddi proprio matematiche, comunque vi si avvicinano. Inoltre, ho interessi sportivi. Quando frequentavo le superiori, per alcuni anni ho corso a livello agonistico: nel '67, ai Campionati Italiani Studenteschi, ho partecipato persino alla finale dei 1.000 metri piani, svoltasi allo stadio Olimpico. Anche oggi faccio sport, ma solo un po' di corsa e un po' di nuoto: una persona, arrivata a 54 anni, deve pur accettare il fatto che, più che correre, può camminare, fino a quando non arriverà  il momento in cui potrà  solo "strisciare"! Un altro mio hobby è l'immersione subacquea, cui però non mi dedico più da qualche anno. In genere, lo praticavo con la mia seconda ex moglie, perché si tratta di un'attività  che non si fa mai da soli: occorre sempre avere un compagno o una compagna, meglio se affiatati. Poi sono stato per un periodo appassionato di scacchi, sebbene non sia mai stato un gran giocatore e non abbia mai nemmeno partecipato a tornei.

D.: La ringrazio molto per la disponibilità  e per la simpatia con le quali mi ha accolto.

R.: Grazie a te, è stato un piacere... (Torino, 26 novembre 2004)

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