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Sintesi

Attraverso l'analisi delle opere di grandi intellettuali, artisti e scienziati, di ogni tempo, questa tesina per la maturità  si propone di sfatare il mito comune dell'esistenza di due culture in aperto conflitto, quella scientifica e quella umanistica. A partire dagli affascinanti rapporti tra Dante e la scienza, e allargando poi l'orizzonte ad altre esperienze, sono messi in luce gli elementi di possibile e proficuo dialogo tra le due branche del sapere.

Materie trattate: Italiano, Matematica, Fisica, Latino, Greco, Inglese, Arte

Premessa di ordine personale

La scelta dell'argomento di questo mio lavoro deriva da due necessità  di carattere strettamente personale.

La prima è una sorta di ringraziamento che al termine di questi cinque anni voglio rivolgere alla mia scuola, il Liceo Classico, per quello che ha saputo trasmettermi. Entrata con un'impostazione scientifica e una certa diffidenza nei confronti degli studi umanistici, ho avuto l'opportunità  di conoscere, comprendere e infine amare quella seconda metà  della cultura (e di me) che fino a quel momento non avevo saputo cogliere. E, senza mai rinnegare l'altra, ho imparato a vederle come complementari, necessarie e a volte persino sovrapponibili. Non è naturalmente l'unica cosa che questa esperienza mi ha dato, ma quella che io ritengo alla base di tutto il resto e fondamentale non solo per la mia formazione culturale, ma per la conoscenza di me stessa.

La seconda ragione è invece una sfida intellettuale. Più volte mi sono trovata al centro di scontri scienza-letteratura e più volte ho combattuto per questo e per l'altro schieramento. Tra gli amici del classico ho spesso dovuto difendere strenuamente una matematica apertamente avversata e incompresa, tra gli amici dello scientifico ho dovuto spendermi a favore di una letteratura disprezzata e banalizzata. I risultati per la verità  non sono mai stati vincenti né da un lato né dall'altro. Mi propongo quindi in quest'occasione di definire la mia posizione, non schierandomi su uno o sull'altro fronte, ma ponendomi sul fronte comune, non difendendo l'una o l'altra, ma difendendo il loro uguale valore e mostrando le possibilità  di convivenza non solo pacifica, ma anche incredibilmente produttiva sul piano intellettuale. E chissà  mai se riuscirò a convincere qualcuno.

Reggio Emilia, 17/06/07

Indice

Introduzione

Dante tra riga e compasso

Premessa di ordine metodologico

Dante parla in numeri
Aritmetica e geometria
Logica

La Commedia letta dagli scienziati
Galileo Galilei
Horia Roman Patapievici

Il mondo spiegato dalla scienza
Geometrie non euclidee
La relatività  generale

Altre esperienze

I poemi didascalici
Manilio e la poesia astronomica

Flatland
L'arte di Escher
Italo Calvino

Bibliografia

Estratto del documento

Uno dei canti più emotivamente intensi della Commedia, il XVII del Paradiso è interamente

concentrato sull’incontro tra Dante e il suo trisavolo, Cacciaguida, incontro di importanza

centrale nell’economia del viaggio dantesco per l’annuncio dell’esilio e la legittimazione

dell’opera d’arte. Le parole, che i due si scambiano, sono tra le più complesse e ricche di

immagini della Commedia. E anche in questa occasione Dante non disdegna di inserire

rimandi matematici.

E’ una delle più unanimemente accettate qualità della matematica (pur se talvolta

convertita in difetto) quella che il poeta sfrutta in questi versi: l’insindacabile certezza dei

suoi teoremi. Per Dante diventa simbolo del massimo livello di verità cui la mente umana

può assurgere. Con la stessa sicurezza con cui l’uomo è in grado di “vedere” che in un

triangolo non possono essere due angoli ottusi, su un piano decisamente più elevato il

beato è in grado di “vedere” passato, presente e futuro. In realtà l’immagine è più

raffinata e complessa di quello che voglia sembrare, nella fantasia del lettore si affiancano

infatti due figure di segno opposto: da un lato il triangolo che nella chiusura del suo

perimetro, nella sua “finitudine”, non può contenere gli spaziosi ed aperti angoli ottusi;

dall’altro un elemento di ancora maggiore finitudine, anzi di finitudine per eccellenza, il

punto, che pure riesce ad accogliere in sé l’infinito dell’eternità. E’ lo scacco della ragione

umana, l’abisso incolmabile tra finito e infinito, la sconfitta persino della matematica

stessa. Che Dante però adombra, in termini allusivi e metaforici, sfruttando la stessa

geometria.

Con un lieve scarto, ma sulla stessa linea di significati, si colloca il riferimento geometrico

di poco successivo. La certezza che infonde la scienza non è solo desunta dall’infallibilità

dei suoi ragionamenti, ma a un livello più superficiale e immediato sono le sue forme

stesse a suggerirlo. E chi non vorrebbe affrontare gli sferzanti colpi del destino con la

sicura stabilità di un cubo?

Cerchi e circonferenze: il problema della quadratura del cerchio

• “Qual è il geometra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova;

veder volea come si convenne

l’imago al cerchio e come vi si indova;”

(Par. XXXIII 133-138)

Non è la prima occasione in cui Dante rievoca l’antichissimo problema della quadratura del

cerchio, che diventa un altro dei simboli dell’impossibilità della conoscenza. Possiamo

e ‘l cerchio per lo suo

pensare alla geometria di cui parla Dante nel Convivio II xiii 27 (“

arco è impossibile a quadrare perfettamente” infatti lo

) e nel De Monarchia III iii (“

studioso di geometria ignora la quadratura del cerchio” ).

La situazione in cui il poeta si trova ora è però sicuramente più solenne. Siamo nell’ultimo

canto del Paradiso, la “vista nova” cui Dante si trova di fronte è Dio stesso. Al potenziarsi

della vista del pellegrino, Padre Figlio e Spirito Santo si sono infine mostrati sottoforma di

tre cerchi (non a caso il cerchio!), di diverso colore e uguale raggio. All’osservazione più

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acuta il cerchio-Figlio generato dal Padre appare a Dante dipinto dentro di sé, del suo

stesso colore, con l’immagine dell’uomo.

E’ il mistero dell’Incarnazione, che Dante con le sue forze soltanto non riesce a penetrare,

così come il geometra non riesce a quadrare il cerchio.

Ma in questo contesto appare evidente come la primaria funzione del rimando geometrico

sia umanamente più profonda. Quello che deriva al lettore, con tutta la pienezza di

sentimenti del caso, è il vero e proprio dramma dell’uomo intellettuale, che “tutto s’affige”,

tenta e ritenta, ma deve ad un certo punto ammettere i limiti delle proprie capacità

razionali. Non si può non avvertire la partecipazione sincera di Dante, che per primo ha

dovuto affrontare questa consapevolezza, per primo ha cercato di combatterla e

confutarla, e che per primo ha dovuto infine abbassare il capo e accettarla, aprendosi solo

così la strada verso una realtà più alta. Dante ha capito che la sola razionalità dell’uomo

non può consentirgli di raggiungere le verità ultime, nonostante questo non ha

dimenticato il profondo scoramento che deriva dalla scoperta di questo limite umano e lo

ricorda in più passi della commedia: dall’innegabile vicinanza che rivela nei confronti di

Ulisse a quest’ultimo grazioso abbozzo del geometra che si affanna dietro l’impossibile.

Come si è accennato all’inizio, si può azzardare l’ipotesi che Dante adduca la matematica a

massima rappresentante del fallimento della ragione umana. E’ una critica, certo, che

Dante muove alla scienza, ma io credo che la ragione di fondo di questa ricorrenza sia da

ricercare nel fatto che il nostro poeta vede nella matematica il più alto esempio di

perfezione raggiungibile dalla sola ragione umana. Che essa giunga al fallimento e debba

essere superata è insito nel limite dell’uomo e nulla toglie al valore della speculazione

scientifica.

Questo duplice valore della Matematica può essere ben esemplificato da un bel passo del

Convivio.

Matematica, “Sole” delle scienze

“E lo cielo del Sole si può comparare a l'Arismetrica per due proprietadi: l'una si è che

del suo lume tutte l'altre stelle s'informano; l'altra si è che l'occhio nol può mirare.. E

queste due proprietadi sono ne l'Arismetrica: ché del suo lume tutte s'illuminano le scienze

(…) L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica: che

l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare; però che 'l numero, quant'è in sé considerato, è

infinito, e questo non potemo noi intendere.” (Conv. II, xiii)

Dante ha appena ricordato come tre anni dopo la morte di Beatrice si sia innamorato di

una “donna gentile”. Dopo l’interpretazione letterale, Dante svela quella allegorica, che

mira a celare sotto le spoglie della donna lo studio della Filosofia, cui si era effettivamente

dedicato dopo la morte della donna amata. La traduzione allegorica di “cielo” in “scienza”

induce Dante ad elaborare una complessa costruzione di parallelismi tra i primi sette cieli e

le arti di Trivio e Quadrivio. Al cielo delle stelle fisse fa poi corrispondere Fisica e

Metafisica, al Primo Mobile la scienza Morale e all’Empireo la Teologia.

Ci interessano in modo particolare le motivazioni che Dante adduce per la corrispondenza

tra il cielo del Sole e l’Aritmetica. Il paragone è bellissimo: come il Sole tutto illumina, tutto

permette di vedere, ma non può essere visto da occhio umano esso stesso, così la

Matematica, “regina delle scienze” (cit. da Gauss, nda), di tutte le scienze è alla base,

tutte le illumina della sua luce, che invera. Ma ancora una volta nella sua luminosità

diventa inaccessibile alla mente umana: nel numero, inteso a livello concettuale, è insita

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l’idea di infinito, e tale idea per il piccolo finito uomo è semplicemente…accecante.

Logica

Quando si parla di presenza della Logica nell’opera dantesca naturalmente non ci si

riferisce alla Logica Matematica propriamente detta, che nasce intorno alla metà del XIX

secolo con l’opera di Georges Boole. Pur tuttavia, la chiarezza dei ragionamenti,

l’impostazione deduttiva di stampo aristotelico, la limpida struttura del pensiero, tutto ciò

logica

che insomma non potremmo definire con altro termine che , è innegabilmente

presente in ogni espressione della visione dantesca del mondo. Che poi in questo caso il

confine tra filosofia e scienza sia piuttosto confuso, e anzi la logica dantesca si debba

sicuramente più strettamente legare alla sua formazione filosofica, nulla toglie al carattere

scientifico che la sua forza imprime su ogni pensiero.

Dove e come Dante ha studiato la logica?

Innanzitutto nell’ambito del Trivio: Grammatica, Retorica, Dialettica. In particolare l’ultima

disciplina comprende gran parte degli studi di logica. (In ambito “umanistico”!)

In secondo luogo naturalmente attraverso lo studio di Aristotele, nella versione latina (il

cosiddetto “Aristotele latino”). E’ da Aristotele che derivano le loro basi praticamente tutti

gli studi logici del Medioevo, lo stesso pensiero di Tommaso d’Aquino, che pure Dante

studia.

Boccaccio immagina un viaggio di Dante a Parigi, in cui avrebbe costruito le proprie basi di

2

aristotelismo e logica . Per la verità pare che Boccaccio abbia inventato questo evento,

quel che è certo è che nessuno avrebbe contestato neppure a quei tempi la formazione

prettamente logica del filosofare dantesco. D’altra parte l’aristotelismo contava esponenti

anche nella Facoltà di Arti a Bologna che Dante frequentò. Pare anche che certi studi di

logica modale a Bologna non siano andati incontro alle condanne che subirono invece a

Parigi, dal momento che Bologna mancava della facoltà di teologia, e quella di

giurisprudenza era protetta dall’imperatore. Così anche quando l’opera di Boezio fu

condannata nel 1277 non scomparve dalla città.

In quali passi della Divina Commedia Dante cita esplicitamente la logica?

O l’una, o l’altra… o tutte e due?

• “Io li credetti; e ciò che’n sua fede era,

vegg’io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contraddizion e falsa e vera.”

(Par. VI 19-21)

E’ il racconto dell’imperatore Giustiniano, che dall’inizio del canto e in seguito alla richiesta

di Dante ha preso la parola e sta rapidamente ripercorrendo da un lato la sorte

dell’Impero, dall’altro la propria vicenda terrena. Secondo le conoscenze dantesche, pare

tra l’altro non del tutto corrette sul piano storico, Giustiniano avrebbe inizialmente aderito

2 Trattatello in laude di Dante

Giovanni Boccaccio, 12

all’eresia monofisita, accolta con un atto di fede, e si sarebbe poi convertito al

cattolicesimo. Dante sottolinea l’ingenuità arazionale della prima fede eretica (“credea, e di

tal fede era contento”). In seguito all’incontro con il Papa Agapito avviene la conversione,

che mantiene però ancora i connotati di fede della prima esperienza. La medesima, nella

più piena visione del beato, assume poi i connotati di verità dimostrata logicamente.

Il verso 21 in realtà è stato interpretato dai critici in modi diversi, che pure non sono

radicalmente opposti nel significato che ne risulta.

Dante probabilmente fa qui riferimento al celebre “principio del terzo escluso”: dati due

enunciati di cui uno la negazione dell’altro (A e non A) uno è vero e l’altro è falso.

Bruno d’Amore propone un’interpretazione alternativa e un po’ più azzardata: il critico

3

vorrebbe leggere in questa frase un riferimento al metateorema dello Pseudo-Scoto ,

secondo il quale a partire da una contraddizione si può dimostrare qualunque cosa, sia il

falso che il vero. D’Amore dichiara di preferire questa seconda interpretazione perché più

coerente col senso dell’intero passo: mentre il principio del terzo escluso, in quanto

appunto principio, ha ancora teoricamente qualcosa dell’atto di fede, quello dello Pseudo-

Scoto è un vero e proprio teorema, più vicino qui alla nuova dimensione dimostrativa e

razionale in cui Giustiniano vede la realtà.

Personalmente mi pare più facile accettare la prima ipotesi e magari vedere nella frase un

diretto riferimento all’esperienza di Giustiniano: dopo aver conosciuto due teorie opposte

sulla natura di Cristo, e averne seguita una per fede, ora è in grado di vedere in modo

logicamente chiaro che l’una, la prima, era falsa e l’altra vera.

Al di là di queste disquisizioni che di fatto poco cambiano nell’ottica complessiva, è

scientificità della scienza

interessante sottolineare come nella dimensione ultraterrena la

sia estesa a ogni tipo di realtà.

Logica… diabolica!

• “Francesco venne poi, com’io fu’ morto,

per me; ma un de’ neri cherubini

li disse: “Non portar: non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra’ miei meschini

Perché diede il consiglio fraudolente,

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