Ciao a tutti,
vorrei condividere con chi fosse interessato un pensiero. Personalmente studio matematica in solitaria da tantissimo tempo, soprattutto allo scopo di capire, a livello fondazionale, tutte le tecniche che mi hanno fatto vedere all'universita o che mi servono oggi sul lavoro. Tuttavia, mi accorgo che per giustificare dei passaggi che ingegneristicamente si ritengono sufficientemente 'ovvi', bisogna fare un lavoro di costruzione concettuale molto grande, che (per come la vedo io) spesso allontana anche da quella che era l'idea semplice e genuina iniziale.
Ho inoltre riflettuto sul fatto che queste ultime (le idee semplici e genuine) vengono da immagini mentali che lavorano sostanzialmente sempre (almeno per me) con un numero finito di oggetti che immagino di poter 'aggrappare'. Eppure, volendole poi trasporre nei casi generali, spesso nel continuo, ci si scontra con una complessità disarmante.
La domanda che ho posto a me stesso, e che riporto ora anche a voi, è diventata dunque: c'è un reale motivo per cui non sia possibile produrre una strumentazione teorica, che fornisca una descrizione dei problemi soddisfacente/sufficientemente accurata, semplice da manipolare (attuale e provinciale scopo, egoistico, della matematica per quanto riguarda il suo utlizzo come strumento descrittivo dei fenomeni di natura) e aderente strettamente alle idee genuine che abbiamo nella testa?
Questa riflessione mi è venuta come analogia di un fatto che ho osservato e coltivato poi personalmente. Pensiamo alla teoria delle distribuzioni, in particolare a quanto sia semplice ('genuina') l'idea della delta di Dirac. Come immagine mentale, è facilissima da immaginare, basta pensare alla densità di una carica che si stringe. Eppure, la formalizzazione matematica di Schwartz della stessa idea è tutt'altro che semplice. Usando un diverso approccio però (a parità di idea di fondo), ovvero quello delle famiglie di funzioni buone approssimanti, la teoria matematica si semplifica di diversi ordini di grandezza e la vastità di applicazione non cambia.
Per analogia, mi domandavo: è troppo assurdo pensare l'analisi stessa attraverso oggetti e concetti di natura discreta, e vedere il continuo e tutto ciò che opera su di esso solo attraverso 'famiglie approssimanti' di impostazioni discrete al problema? Tradotto: non manipolo direttamente oggetti infiniti, ma faccio tutto con insiemi discreti semplici e solo alla fine vado al limite.
Ad esempio, quanto sarebbe grave pensare a quella che per noi oggi è una \( \displaystyle f:\mathbb{R}\to \mathbb{R} \) come:
\( \displaystyle f := \{f_n:D_n\subset\mathbb{Q} \to \mathbb{Q}\}_{n\in\mathbb{N}} \)
dove il dominio \( \displaystyle D_n \) dell'n-esima funzione della famiglia consta di un numero finito di punti e magari \( \displaystyle D_{n+1} \supset D_n \) , con \( \displaystyle \{D_n\}_{n\in\mathbb{N}} \) che invade \( \displaystyle \mathbb{Q} \) .
In questo modo ogni problema viene trattato nel discreto, un discreto sempre più denso, e la famiglia dei risultati (eventualmente) viene mandata al limite. Il fatto che i reali non sono numerabili, è il motivo per cui i punti di definizione sono sempre di natura razionale. Ciò però non mi ha spaventato concettualmente, perché per me gli stessi reali sono famiglie di razionali approssimanti, per cui non mi suona male pensare che:
\( \displaystyle f(\underbrace{x}_{\in\mathbb{R}}):= \lim_{m\to\infty} f(r_m) := \lim_{m\to\infty} \lim_{n\to\infty} f_n(r_m) \)
Certo, verrebbe meno la possibilità a priori di poter definire casi quali ad esempio la funzione di Dirichlet, ma (forse per mio limite) non ne ho mai sentito veramente l'utilità applicativa.
La derivata diverrebbe per definizione la famiglia dei rapporti incrementali discreti tra i punti di ogni \( \displaystyle D_n \) , l'integrale diverrebbe la famiglia delle somme pesata con le distanze che separano i punti dentro \( \displaystyle D_n \) , e così via... Ogni volta che poi c'è bisogno di passare al limite, ci si passa, ma non si manipolano mai oggetti direttamente nel continuo o direttamente infiniti. Credo che sia da qui che, magari, potrebbe scaturire la semplificazione delle eventuali dimostrazioni inquadrate in quest'ottica, nonché la stretta aderenza delle nostre intuizioni con la loro formalizzazione.
Quanto è semplice la dimostrazione della legge dello statisco incosciente nel discreto finito, e quanto è difficile nel continuo utilizzando l'integrale di Riemann (*)? C'è una differenza di farraginosità veramente grossa (sempre, almeno nella mia ottica probabilmente limitata).
Che voi sappiate, esiste già qualcosa del genere che potrei andare a leggere? Magari (sicuramente) è un buco nell'acqua e qualcuno lo ha già notato.
(*) la dimostrazione che usa l'integrazione secondo Lebesgue torna ad essere immediata, ma non è però altrettanto semplice tutto il substrato teorico della teoria della misura e dell'integrale di Lebesgue, che non vede più l'integrazione come la immaginiamo genuinamente nell'immagine mentale di 'sommare pezzettini'. Bisogna infatti ricorrere al concetto di 'misurare' sottinsiemi di \( \displaystyle \mathbb{R} \) che, nell'intuizione genuina, hanno veramente poco a che fare col 'prendere una misura' (penso ad esempio agli insiemi grassi di Cantor).