Luigi Pirandello, Ciàula scopre la luna

Questa novella fu pubblicata sul “Corriere della Sera” nel dicembre del 1912, e inserita, nel 1914, nel volume Le due maschere. Il racconto parla di Ciàula (nomignolo che in siciliano significa “cornacchia”), un uomo di circa trent’anni, mezzo stupido, che, dall’interno di una zolfara, trasporta all’esterno, sulle spalle, lo zolfo grezzo scavato dai picconieri. Egli abita con Zi’ Scarda, del quale è il garzone di fatica nella miniera; ha paura del buio della notte da quando il figlio di Zi’ Scarda, Calicchio, era morto a causa dello scoppio di una mina, e inoltre in questo incidente lo stesso Zi’ Scarda aveva perso un occhio. Ciàula conosceva poco il buio della notte, perché quando arrivava in paese dopo il lavoro, dopo aver mangiato un piatto di minestra, cadeva in un sonno profondo e si risvegliava alle prime luci dell’alba. Una sera Cacciagallina, il soprastante del giacimento, obbligò Zi’ Scarda a rimanere in miniera, per estrarre ancora più zolfo in modo da caricare completamente la calcara. Con lui rimase anche Ciàula, il quale, fatto il primo carico, uscì dalla miniera tremando per il buio che avrebbe trovato. Ma mentre si avvicinava all’uscita intravide uno strano chiarore, simile all’alba. Quando finalmente fu fuori, riuscì a contemplare la luna che illuminava la terra col suo ampio velo di luce, e pianse per il conforto che provava. Molti giudicano questa novella una delle più belle della letteratura italiana. A prima vista sembra riproporre le modalità della novella verista, riguardo soprattutto la narrazione distaccata della vita degli emarginati ed elementi come la solfara, il lavoro disumano, il bestiale sfruttamento degli operai. Si intravedono spiragli di denuncia sociale, soprattutto nel ricordo dell’incidente di Zi’ Scarda e nel perseverare sulla brutale fatica a cui è sottoposto il povero Ciàula. Il lavoro nella miniera e la figura del protagonista, collocato all’ultimo gradino della società, ricorda Rosso Malpelo di Verga e il tema dell’ “insurrezione lirica dei primitivi”, capaci, nella loro grossolanità, di profonde emozioni. Però tra i due personaggi ci sono delle differenze. Rosso Malpelo è un “vinto”, rimane chiuso in sé stesso, si arrende davanti al destino, e sparisce nel buio della miniera; Ciàula si schiude di fronte alla natura, e si sente rinnovato, confortato di fronte a tanta dolcezza, riscattandosi dalla condizione bestiale in cui si trovava. Quindi, mentre Malpelo rappresenta la rassegnazione alla propria condizione, Ciàula invece simboleggia la speranza in una vita migliore. Inoltre, mentre Verga è un narratore interno al mondo che descrive, Pirandello si colloca in alto rispetto ai personaggi e li giudica dall’esterno, come dimostrano i frequenti commenti nel corso della narrazione. Pirandello non vuole regredire nella realtà che descrive, ma vuole mantenere le proprie caratteristiche, dare giudizi in base alla sua scala di valori, diversa da quella della comunità popolare descritta nella novella. Il narratore esterno e onnisciente dunque ha propositi diversi da quelli del narratore interno Verga, il quale, manifestando tutto il suo pessimismo materialistico e fatalistico, non esprime giudizi. Nonostante Ciàula e Malpelo siano due personaggi scherniti dalla società, tuttavia Malpelo è cosciente della sua condizione ed elabora una teoria sulla lotta alla sopravvivenza, nonostante sia comunque un “vinto”, Ciàula invece è un minorato mentale, ed è incosciente di tutto, è un essere animalesco e inconsapevole. Pirandello non vuole riportare l’esperienza nella società vista attraverso gli occhi di un reietto, ma cerca di descrivere un’esperienza irrazionale, scegliendo quindi un soggetto elementare, privo di consapevolezza, primordiale. E questa esperienza possiede dei significati simbolici: l’uscita dalla miniera rappresenta la rinascita del personaggio, il modo per ricominciare una nuova vita. Egli infatti non trova il buio e il vuoto che temeva, immagini che rinviano alla morte, ma scopre la luce della luna. Questo è il punto cruciale del racconto, da cui scaturisce il titolo, e la vista della luna simboleggia una sorta di apparizione divina agli occhi stupefatti e stregati di Ciàula. E la luna porta conforto al protagonista, lo libera dalle angosce, gli dona speranza di una vita migliore. La novella appare inserita in una dimensione simbolica e mitica, caratteristica evidente in molte novelle di Pirandello. La base dunque non è verista, ma decadente: l’autore sceglie l’ambiente popolare non per effettuare una riflessione una società, ma perché questo contesto porta in sé elementi primitivi, irrazionali, mitici e simbolici, caratteristiche che attraggono gli autori decadenti. Pirandello non può più essere un narratore impersonale verista, che regredisce nella società che descrive e si estingue in essa; egli deve mantenere la sua identità, perché deve intromettersi nel racconto e dare delle interpretazioni riguardo la simbologia degli avvenimenti, spiegare le situazioni in cui il protagonista è confuso perché non è cosciente. Pirandello esalta gli elementi irrazionali del creato, ma nel celebrarli utilizza uno spiccato raziocinio, tipico di tutta la sua opera

Giovanni Verga, La Roba

La novella La roba fu pubblicata nel 1880 su “La rassegna settimanale”, e nel 1883 fu inserita nella raccolta Novelle rusticane. Racconta la storia di Mazzarò, un uomo di umili origini, il quale lavorando e avendo grande risolutezza riesce a far roba, cioè accumula enormi ricchezze e diventa il proprietario delle terre nelle quali un tempo lavorava come bracciante, alle dipendente di un barone caduto in disgrazia. Dopo tanti anni di lavoro e sacrifici, col passare del tempo Mazzarò si tormentava per la vecchiaia imminente, e per il fatto che avrebbe dovuto lasciare i propri beni. Diceva che era un’ingiustizia di Dio, poiché egli si era logorato per tanto tempo pur di avere sempre più roba, e ora che poteva acquistarne di più, doveva abbandonarla. Quando incontrava un fanciullo curvo e seminudo borbottava e lo invidiava lanciandogli il bastone fra le gambe, perché costui che non possedeva niente aveva ancora tanto tempo da vivere. Nel momento in cui gli fecero notare che ormai era tempo di lasciare la roba e pensare alla sua anima, pazzo di dolore colpiva mortalmente anatre e tacchini dicendo: “Roba mia, vientene con me!”. In questa novella, come nelle altre rusticane, scompare la rappresentazione positiva e romantica del mondo rurale. Non esistono i puri valori, ma predominano l’interesse e la forza. Non vi è più al centro il culto della famiglia, infatti Mazzarò dona a malincuore dodici tarì per il funerale della madre. Figura centrale nella novella è l’uomo che si costruisce da solo nel mondo della campagna, e riesce, accumulando ingenti ricchezze, a scalare socialmente. Il narratore Verga appare interno al mondo che descrive, si trova in sintonia col protagonista e col suo modo di pensare, e addirittura traspare una celebrazione di questo uomo che dal nulla è diventato ricchissimo. Diversi temi sono trattati nel testo. Vi è una sorta di ammirazione verso l’accumulo capitalistico, verso chi riesce ad accumulare infinite ricchezze, dalle proporzioni sconfinate. Per rendere questa immensità Verga utilizza la figura dell’iperbole; per esempio, i mietitori assomigliano a enormi milizie, Mazzarò possiede tanti aratri quanto le innumerevoli file di corvi, per la vendemmia giungono a lavorare interi villaggi. L’autore esalta le capacità del protagonista, la sua astuzia e la sua intelligenza, e soprattutto i sacrifici in onore della “roba”, che lo rendono quasi un santo martire dell’accumulazione di beni. Poi, dalla novella traspare la volontà di Mazzarò di oltrepassare il limite, per esempio voleva possedere terreni quanto il re, o addirittura di più. La vicinanza dell’autore alla logica della “roba”, esaltata attraverso una visuale epica, mitica, produce un rovesciamento dei valori. Ciò che umanamente appare bislacco, abnorme, disgustoso, l’avidità crudele di Mazzarò, evidente dalla narrazione oggettiva degli avvenimenti, appare normale, e addirittura degna di merito. Tutto ciò è in contrasto con la scala di valori sottintesa in tutta la narrazione, con la conseguente critica della “religione della roba”, non espressa in modo esplicito con commenti di Verga, ma attraverso i fatti oggettivi. La figura di Mazzarò ha qualcosa di epico ed eroico nell’estrema dedizione al suo scopo, nel suo tendere sempre più in alto, ma nello stesso tempo viene fuori tutta la disumana negatività delle sue azioni. Questo personaggio preannuncia il protagonista del romanzo Mastro don Gesualdo, che come Mazzarò è un eroe dell’accumulo capitalistico. La conclusione della novella presenta un rovesciamento delle prospettive. Nella sua continua brama di ammassare roba in modo infinito, l’uomo non solo deve fare i conti con la società, le leggi economiche, ma anche con la natura medesima, con il percorso naturale della vita. Dunque Mazzarò va incontro al totale fallimento delle sue prospettive. Disperato e folle perché sa che non c’è niente da fare, tenta di ammazzare le galline, tacchini, anatre, in modo da portare con sé la roba anche nella morte. Questo finale ha venature comiche, ma nello stesso tempo tragiche e terribili, e rovescia i termini precedenti della narrazione. Mentre precedentemente il narratore, in sintonia con il protagonista, esaltava l’uomo che si era costruito da solo, ora mette in ridicolo le sue azioni finali, assurde, che non hanno alcun senso logico. Ma nello stesso tempo, nella prospettiva del narratore, Mazzarò diviene un personaggio tragico, il quale ha dedicato tutta la sua vita alla “roba”, ma alla fine è abbattuto dai confini invalicabili della natura. Questa duplice visione del protagonista evidenzia, ancora di più, la complessità di questo grandioso personaggio.

Umberto Saba, A mia moglie

La poesia fa parte della sezione del Canzoniere Casa e campagna, che comprende sei poesie scritte tra il 1909 e il 1910. Saba celebra la propria moglie, paragonandola alle femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio, perché ha, tutte insieme, le stesse bellissime virtù che non si trovano in nessun’altra donna. Le prime cinque strofe contengono il paragone della moglie con la femmina di un animale. Nella prima il poeta paragona la moglie a una bianca pollastra, che nell’incedere ha il lento passo di una regina, e avanza sull’erba superba. Essa, come tutte le femmine degli animali vicine a Dio, è superiore al maschio. Quando la sera fa dormire le gallinelle, esse, prima di assopirsi, esalano suoni dolcissimi, che ricordano quella, tenera e triste, della moglie quando si duole dei suoi mali. Nella seconda strofa la donna viene comparata a una gravida giovenca, quando non è ancora appesantita dalla gravidanza avanzata. Il suo muggito è così lamentoso che uno spontaneamente strappa un pugno d’erba e glielo dona. Così Saba offre alla moglie il suo dono, quando ella è triste. Nella terza strofa il paragone è fatto con una cagna, che ha tanta amabilità negli occhi quando guarda una persona conosciuta, e tanta crudeltà nel cuore verso gli estranei. Quando essa è distesa ai piedi della moglie, la contempla come se fosse il suo Dio; ma quando qualcuno osa avvicinarsi alla sua padrona, scopre i bianchi denti per gelosia. Nella quarta strofa il poeta paragona la moglie alla pavida coniglia, la quale, quando vede entrare la padrona nella gabbia per portare il cibo, si alza dritta; quando è priva di cibo invece si rannicchia in un angolo. E’ sempre così mansueta e umile che nessuno oserebbe lasciarla senza cibo; così sua moglie è così mansueta e umile che nessuno oserebbe farla soffrire. Nella quinta strofa vi è il paragone con la rondine che torna in primavera e riparte in autunno. La moglie ha le movenze leggere della rondine e fa rivivere un’altra primavera al poeta che invecchia. L’ultima strofa conclude paragonando la moglie alla provvida formica e all’ape industriosa; infine il poeta ribadisce che egli riconosce la donna in tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio, e non nelle altre donne. La figura che il testo ci tramanda è del tutto insolita nella poesia italiana, in cui vediamo celebrata la donna aristocratica dai poeti che si ispiravano ai provenzali, la donna-angelo dei poeti stilnovisti, la donna ideale, configurata platonicamente dai petrarchisti, la donna-dea dai poeti neoclassici, la donna-passione dai poeti romantici. Nulla di tutto ciò in queste strofe, che si snodano, secondo un’ordinata sequenza, proponendo una serie di successivi confronti tra la moglie del poeta e le femmine di numerosi animali. La poesia ricorda il ritorno all’infanzia, che non estromette allo stesso tempo la presenza dell’uomo. Come il bambino, anche Saba adora gli animali, i quali, conducendo un semplice stile di vita, sono prossimi a Dio più degli uomini. Lo sguardo del fanciullo non simula però uno stupore innocente come nella pascoliana poetica del fanciullino, ma ipotizza la partecipazione di un adulto, che osserva le cose nella loro realistica e corposa immediatezza, senza titubanze e inibizioni. Le comparazioni, presenti all’inizio di ogni strofa, indicano una raffigurazione diretta, costituita da espressioni e aspetti precisi, che dipingono le qualità fisiche e morali della donna. Protagonisti di un genere letterario ben circoscritto, quello della favola, qui gli animali perdono ogni responsabilità di tipo metaforico e moraleggiante, mutandosi in simboli naturali della vita. L’uomo scopre nella natura l’immagine di sé stesso, avvicinandosi a Dio attraverso il “libro aperto della creazione”. L’importanza di questa definizione è evidenziata dal reiterarsi dell’espressione “tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio”. Per quanto riguarda il metro, il verso prevalente è il settenario, cui si aggiungono alcuni endecasillabi e due quinari (vv. 19 e 52); fanno eccezione i vv. 26 e 56. Sono molteplici le rime, collocate liberamente e senza seguire regole. Infine, il linguaggio utilizzato è semplice e prossimo a quello quotidiano, appena innalzato da un velo di arcaismo letterario.

Il paese natale nei componimenti dei poeti

Poeti e paesaggio natio. Destinazione: rivista letteraria

La tv molto spesso propone immagini di chi è costretto ad abbandonare la propria terra per cercare di creare, per sé e la sua famiglia, un futuro migliore. Sono per lo più immagini drammatiche, considerando che questi emigrati compiono il “viaggio della speranza” ammassati su piccole barche e in scarse condizioni igienico-sanitarie. Spesso portano con sé un piccolo bagaglio, il cui oggetto più importante è una fotografia scattata insieme ai propri cari nella casa in cui si è nati e cresciuti. Ma cosa prova nel suo animo un uomo che lascia all’improvviso i suoi affetti più cari per cercare rifugio altrove? Sicuramente nostalgia e paura per la nuova vita che si sta per cominciare. Un esempio è costituito da ciò che prova Lucia, protagonista dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Alla fine dell’ottavo capitolo, nel celebre Addio ai monti, Manzoni riporta i tristi pensieri della ragazza che sta lasciando la sua casa per sfuggire alle minacce di don Rodrigo. Lucia piange nel segreto del suo animo, ripensa con malinconia al paese da cui non si è mai allontanata e teme di giungere in un nuovo luogo che non conosce e dove non sa cosa le spetta. Ma la sua fede è forte: ripone tutte le sue speranze in Dio, certa che un giorno la farà ritornare nel suo amato paese. Altri poeti celebrano la meravigliosa bellezza della loro terra. Infatti, il ricordo dei luoghi in cui si è cresciuti molto spesso allevia i tristi pensieri dell’animo umano. È il caso di Carducci che, in una poesia tratta dalle Rime Nuove intitolata Traversando la Maremma toscana, riflette sul fatto che non è riuscito a compiere quello che si era prefissato di fare da giovane e non c’è più tempo per farlo perché sta per giungere la morte. La vista delle colline e delle pianure della sua amata Maremma, terra in cui è cresciuto, dà, però, sollievo a questi suoi tristi pensieri. Tutti i poeti pongono la loro attenzione soprattutto sull’atmosfera naturale del proprio luogo d’infanzia. Ogni paesaggio, infatti, ha delle caratteristiche specifiche che ciascun uomo porta nel suo cuore. Un esempio può essere offerto dalla poesia Liguria, tratta dalla raccolta Rimanenze, di Sbarbaro. In essa il poeta celebra le bellezze naturali della sua Liguria: il cielo d’inverno che è simile a quello di primavera, il sole che filtra tra le gocce di pioggia, il verso dei gabbiani che volano sul mare e il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli. Anche Saba, nella poesia Trieste e una donna, descrive la sua città natia celebrandola non solo perché lì respira l’aria dell’infanzia, ma anche perché è un bel centro abitato. Lasciare la propria terra, anche se per brevi periodi, è molto difficile. Alcuni, però, sono abituati a questi periodici “trasferimenti”. È il caso dei pastori abruzzesi descritti da D’Annunzio nella lirica contenuta nella raccolta Alcyone intitolata I pastori. Essi ogni settembre devono lasciare il loro luogo d’origine per portare le greggi al mare. Prima di partire, però, bevono l’acqua delle fonti delle Alpi per portare nel loro cuore il sapore della terra che si sta lasciando. Ci sono, quindi, persone abituate a lasciare momentaneamente il luogo in cui sono cresciute, altre che non riescono a partire, altre ancora che decidono di lasciarla definitivamente in cerca di qualcosa di meglio rispetto a quello che il proprio paese riesce ad offrire. Io personalmente non lascerei mai la mia terra: il dolore per la lontananza sarebbe troppo forte. Preferisco vivere nel luogo che mi ha visto crescere e cercare di godermi qui, insieme ai miei cari, i momenti più belli che la vita ancora mi riserverà.

La libertà: un bene collettivo e individuale

L’aspirazione alla libertà nella tradizione e nell’immaginario artistico-letterario. Destinazione: rivista letteraria

Gli uomini dalle origini fino ad oggi si sono sempre sentiti attratti dalla parola libertà e si sono impegnati a combattere per raggiungere, godere e diffondere i beni di cui essa è portatrice. È il valore fondamentale dell’uomo che lo distingue dagli altri esseri viventi, ponendolo al di sopra di tutti. Il concetto di libertà appare già in Omero. Nel sesto libro dell’Iliade a parlare è Ettore. Egli si rivolge alla moglie Andromaca dicendole che si sentirebbe un guerriero codardo se non combattesse a fianco dei suoi compagni contro gli Achei. Egli è consapevole che la sua città, Troia, cadrà in mano ai nemici. Perciò si augura di morire: non tanto per non vedere il dolore dei Troiani o quello dei genitori Priamo ed Ecuba, quanto piuttosto per non sentire i lamenti di schiava della sua amata donna. La libertà, di conseguenza, assume un duplice valore: amor di patria (Ettore combatte per fare in modo che Troia non cada schiava nelle mani degli Achei) e libertà interiore (Ettore sceglie in piena autonomia il proprio destino pur sapendo che va incontro alla morte). Anche Dante, nel primo canto del Purgatorio, esalta il concetto di libertà. Emblematica, in questo senso, è la figura di Catone Uticense posto da Dante a custodia del secondo regno dei morti. Catone viene considerato dal poeta fiorentino simbolo della libertà morale: egli, infatti, durante il primo triumvirato, si schierò dalla parte di Pompeo poiché sperava che quest’ultimo salvasse la repubblica; ma dopo il trionfo di Cesare si suicidò per non assistere alla fine della repubblica e, dunque, alla caduta della libertà. Ecco l’esempio di un altro insigne uomo che decide di perdere la vita in nome della libertà della propria patria. Il tema della libertà della patria viene affrontato anche nel Cinquecento. Machiavelli, nel ventiseiesimo capitolo de Il principe, esorta i Medici a liberare l’Italia dalla presenza straniera. Egli afferma, infatti, che la penisola sta aspettando qualcuno che «sani le sue ferite […] e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite» (cioè piaghe che la stanno infastidendo da lungo tempo). Perciò Machiavelli prega Dio affinché ciò avvenga. L’Italia, infatti, è «disposta a seguire una bandiera» a patto che sia retta da un unico governo. Tre secoli più tardi, Alessandro Manzoni compone l’ode Marzo 1821. questo è l’anno in cui i moti patriottici piemontesi cercano di liberare il Lombardo-Veneto dagli Austriaci. Il poeta si rivolge agli stranieri, invitandoli ad abbandonare una terra che non è la loro madre e che, perciò, gli si ribella. Inoltre devono lasciare l’Italia perché altrimenti non sarebbero coerenti. Gli Austriaci, infatti, non hanno seguito un giuramento proferito proprio da loro: quello secondo cui Dio respinge la forza straniera. Di conseguenza, ogni gente deve essere libera. Dunque, come Dio ascoltò le loro preghiere di libertà e le esaudì, così farà anche per l’Italia che tanto lo prega. La libertà, però, non deve essere intesa solo dal punto di vista civile, ma anche da quello umano. L’esempio più significativo in questo senso è rappresentato dalle parole pronunciate da Martin Luther King nel 1965 in occasione del centenario dell’abolizione della schiavitù in America. Egli ricorda la morte di numerosi schiavi negri a causa dell’avida ingiustizia. La libertà dopo un secolo non è da intendersi solo come libertà fisica, ma anche come sforzo a non odiare e a non provare alcun risentimento. I bianchi, infatti, hanno capito che «il loro destino è legato col nostro destino (cioè il destino dei neri) e […] che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà». La libertà, dunque, è diritto di ogni popolo e individuo. Nessuno può proibire ad un altro di essere libero, altrimenti ognuno combatterà per raggiungere la piena libertà.

Il valore dell’amicizia

L’amicizia tema di riflessione e motivo di ispirazione poetica nella letteratura e nell’arte. Destinazione: rivista letteraria

In un’era scandita da ritmi frenetici e da un uso abnorme dei mezzi mediatici, sembrano che si siano persi quei valori dettati da una giusta morale. Fra i tanti si pone la riflessione sul tema dell’amicizia. Esso ha acquisito, nel tempo, valenze diverse. All’inizio era inteso sulla base di autentici principi morali. Oggi, camminando per le strade e ascoltando casualmente i discorsi tra conoscenti, si nota che si attribuisce all’amicizia una connotazione diversa dal suo significato pregnante. Infatti si tratta di un’amicizia interessata, volta unicamente al tornaconto di un singolo individuo. Allora mi chiedo: quali significati attribuire all’amicizia? Secondo la mia personale opinione, sia essa etica che morale, il termine “amicizia” deve indicare un affetto vivo e reciproco che non sia volto esclusivamente all’interesse di un singolo individuo, ma al bene collettivo. Questo tema, dunque, fin dall’antichità è stato un’occasione di riflessione, tanto che molti letterati e artisti trassero ispirazione proprio da essa. Nel mondo romano-repubblicano, Cicerone, nell’opera intitolata De amicitia, affermava che la vita non era tale senza amicizia e che l’uomo, in quanto essere vivente, senza di essa non aveva la condizione di libertà. A mio avviso, tale affermazione è retta da principi solidi ed esprime verità. Infatti l’uomo che non gode della vera amicizia diventa introverso e schiavo delle sue angosce e paure, vivendo in una perenne disperazione. È, dunque, vero che l’amico è un sostegno dolce e caro, perché è capace di far superare, attraverso consigli, i momenti più brutti della vita. Questa affermazione si evince anche da una famosa pagina de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. L’autore racconta l’incontro tra Renzo e un amico, avvenuto dopo un’assenza di forse due anni. I due amici, contenti di essersi ritrovati, si confidano le loro avventure avvenute durante il periodo di separazione. E così, anche parlando di sventure e di «cose che non si sarebbe mai creduto di vedere», trovano sollievo. L’amicizia, inoltre, va coltivata nella gioia, ma anche e soprattutto nel dolore, come nel caso espresso da Verga nel passo Vita dei campi della novella Rosso Malpelo, in cui il protagonista, anche se squattrinato, cerca di dare sollievo con dei beni materiali agli affanni dell’amico Ranocchio, che soffre a causa della febbre e della tosse. In questo passo, quindi, è evidente che l’amicizia è un sentimento privo di valore economico. Emblematico fra tutti è il passo tratto da L’amico ritrovato di Uhlman, in cui l’amicizia viene messa in risalto come sentimento imprevedibile, in quanto il protagonista non ricorda quando Konradin dovesse diventare suo amico. Ma, oltre all’imprevedibilità, l’amicizia è esaltata dall’atto estremo della morte per la salvezza dell’amico. Ma come raffigurare un tale sentimento? Raffaello, con grande maestria, immortala l’amicizia con un’enorme forza espressiva del volto del personaggio e con grande sicurezza nei gesti. Dunque, per me l’amicizia, oltre ad avere le caratteristiche sopra elencate, deve essere soprattutto un sentimento eterno, capace di sconfiggere il tempo e l’ambiguità, come esprime bellamente il poeta fiorentino Dante ne Le rime e il cantante Renato Zero nella canzone Amico, che si conclude con una sincera ed espressiva affermazione: «Amico è bello, amico è tutto, è l’eternità, è quello che non passa mentre tutto va».

L’indispensabile sentimento dell’amicizia

L’amicizia, tema di riflessione e motivo di ispirazione poetica nella letteratura e nell’arte.

L’amicizia è un sentimento che sta alla base dei rapporti umani. Infatti, come afferma Cicerone nel De amicitia, «la vita non è vita senza amicizia» e senza di essa l’uomo non è libero. Per natura si sfugge l’isolamento e la vita è più bella se si ha un amico con cui condividere le proprie emozioni. Non avrebbe senso salire in cielo e ammirare le bellezze del creato se poi non si avesse nessuno a cui comunicare questa bella esperienza. Secondo me, il valore che Cicerone attribuisce all’amicizia è quello più vero. Infatti un uomo senza amici è un uomo solo e vive in una perenne disperazione perché non ha nessuno con cui condividere le proprie angosce e paure. L’amico, quindi, diventa un sostegno dolce e caro perché, con la sua presenza e i suoi consigli, dà sollievo nei momenti più difficili della vita. Proprio come succede a Renzo, uno dei protagonisti de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Renzo, dopo due anni, ritrova un amico che aveva perso di vista. I due si scoprono essere più amici di prima e iniziano a raccontarsi le loro vicende sia belle che brutte. Alla fine, l’amico dice a Renzo che alcuni avvenimenti sono brutti a sentirsi e avrebbero tolto l’allegria per tutta la vita. Diventano, però, più sopportabili se se ne parla con un amico fidato. Il vero amico, dunque, non è quello che prende parte solo alle gioie dell’altro, ma colui che garantisce la sua presenza anche nei momenti di dolore. Nel passo Vita dei campi della novella Rosso Malpelo, Verga presenta il protagonista mentre cerca di alleviare le pene del malato amico Ranocchio con dei beni materiali. L’amicizia viene qui esaltata come un sentimento privo di qualunque accezione economica. Malpelo, infatti, non è ricco, ma spende comunque una parte della sua misera paga settimanale di minatore per comprargli del vino e della minestra. Inoltre, per coprirlo meglio e farlo riscaldare, gli dà anche i suoi pantaloni quasi nuovi, quelli che erano appartenuti una volta al suo defunto padre, e lo assiste durante la notte. L’amicizia è un sentimento che nasce naturalmente senza aver bisogno di tempi stabiliti. Uhlman, ne L’amico ritrovato, racconta che il protagonista non ricorda quando e come Konradin sia diventato suo amico. Tra loro era nato un sentimento di amicizia così forte che il protagonista si dichiara addirittura anche disposto a morire per Konradin. L’amicizia, dunque, è un sentimento vero, leale e duraturo. Oggi, purtroppo, sembra non essere così in quanto ognuno cerca di sfruttare l’altro, anche gli amici più veri, per il proprio tornaconto. Secondo me, ognuno dovrebbe ricordarsi che non è bello vivere da soli e che la propria vita diventa più facile se si ha qualcuno con cui condividerla. Infatti come ci si sente meglio dopo aver sfogato e raccontato i propri problemi a un amico! Oppure quanto diventa più grande una gioia se condivisa con qualcuno che ci sta accanto! È, dunque, vero il famoso detto che “chi trova un amico trova un tesoro”.

Fedeli alla realtà ma con sentimento!

Naturalismo e Verismo come nuova scienza. Destinazione: rivista letteraria

Negli ultimi decenni del XIX secolo, parte dell’Europa è investita dalla nascita e dalla diffusione di un nuovo movimento culturale: capitale del sapere è Parigi, in Francia, dove per la prima volta si parla di “Naturalismo”. Dal punto di vista teorico, il termine “Naturalismo” indica la concezione secondo la quale bisogna studiare il mondo degli uomini e la storia applicando le stesse leggi meccanicistiche che regolano la natura. In ambito letterario, invece, la parola “Naturalismo” viene inaugurata nel 1858 dal filosofo e storico positivista Hyppolite-Adolphe Taine, in un saggio critico su Honoré de Balzac, pubblicato su il “Journal des Débats”. In questo articolo, Taine elogia sia la capacità del romanziere di rappresentare oggettivamente la realtà sia la scelta di conferire grande importanza ai rapporti che intercorrono tra i vari personaggi delle sue opere. Echi della neonata corrente giungono, quasi sul finir del secolo, in Germania, dove il Naturalismo trova la sua massima espressione nel teatro, e in Scandinavia; in Russia, dove gli scrittori Tolstoj e Čechov rifiutano i principi filosofici del movimento, in Italia, dove ha i suoi natali il Verismo e in Inghilterra, dove si parla di Realismo inglese e di Charles Dickens, suo maggiore rappresentante. Il retroterra culturale e filosofico del Naturalismo è costituito dal Positivismo, atteggiamento che nasce in Francia, in un periodo di forte sviluppo industriale; con Auguste Comte, questa corrente filosofica intende sottolineare la validità dei dati positivi, ossia dei dati concreti ed indagabili dalla scienza. In questo periodo si rifiuta ogni concezione di tipo metafisico e si pratica un vero e proprio culto della scienza, della tecnica e del progresso. La “venerazione” della scienza, in campo letterario, è visibile, soprattutto ne “Le roman expérimental”, raccolta di saggi teorici, scritti e pubblicati da ́Emile Zola nel 1880. Nell’opera il francese definisce il romanziere naturalista uno scienziato, poiché, seguendo il metodo sperimentale induttivo, ideato nel Seicento da Galileo Galilei e Francesco Bacone, analizza e rappresenta non solo la realtà, ma anche i personaggi. Il narratore formula, infatti, delle ipotesi su come possono agire i personaggi in situazioni concrete e verifica tali ipotesi nello sviluppo dell’intreccio. Per Zola, in definitiva, l’opera d’arte è paragonabile ad un documento. I naturalisti possono essere considerati dei “letterati-filosofi-scienziati”; al contrario, nel momento in cui nel 1875 circa, nasce in Italia il Verismo, i suoi rappresentanti, cioè Verga dal punto di vista letterario e Capuana dal punto di vista teorico, avvertono il metodo scientifico soprattutto come un’esigenza di rinnovamento della letteratura, di assoluta obiettività della rappresentazione, mentre l’oggetto di principale interesse resta la scienza del cuore e dell’immaginazione. In “La Prefazione a I Malavoglia”, Verga sostiene che “solo l’osservatore ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi d’arrivare e che saranno sorpassati domani”, manifestando una visione ciclica della storia. Inoltre, secondo lo scrittore siciliano, l’autore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive, le sue riflessioni, le sue spiegazione, come nella narrativa tradizionale. L’opera deve sembrare “essersi fatta da sé” e nessuno ha il dovere di spiegare al lettore gli antefatti o di tracciare un profilo dei personaggi, del loro carattere e della loro storia: sono gli “attori”, attraverso le loro azioni e le loro parole, a svelare se stessi. Solo così si può creare l’illusione completa della realtà. Il narratore, dunque, si mimetizza ne personaggi stessi, adottando il loro modo di pensare e di sentire. Secondo Verga, tutti, a qualsiasi livello, sono vinti nel tentativo di migliorare la propia condizione e quest’aspetto richiama lo scienziato Charles Darwin, che nel 1859 pubblica l’opera “The origino f species by means of natural selection” (“L’origine della specie attraverso la selezione naturale”), in cui argomenta i principi cardini dell’evoluzionismo: la selezione naturale e la lotta per l’esistenza. Darwin afferma che la scarsità di risorse disponibili scatena la lotta per l’esistenza e sopravvivono solo gli individui più adatti all’ambiente. Lo scienziato costituisce un punto di riferimento per Verga che nei romanzi del “Ciclo dei Vinti” dimostra come la continua evoluzione produce il miglioramento della specie nel suo insieme ma nello stesso tempo causa l’inevitabile sconfitta del singolo individuo. Verga, dunque, applica la teoria dell’evoluzione non ai caratteri fisionomici-somatici dei uoi personaggi, ma al loro comportamento. D’altronde, lo stesso Darwin dice di “non vedere alcun limite al potere di adattare lentamente e magnificamente ciascuna forma alle complesse relazioni della vita.” L’inglese è un modello anche per i naturalisti che applicano la sua concezione alle relazioni umane e sociali. È dunque corretto parlare di Naturalismo come nuova scienza, in quanto, lo stesso Taine definisce, in maniera rigorosa, l’opera d’arte come il prodotto naturale di tre fattori: “race” (“razza”), ossia il complesso dei caratteri sul piano del temperamento di uno scrittore ereditati dai suoi predecessori, “milieu” (“ambiente”), cioè il contesto sociale in cui l’autore è collocato e “moment” (“momento storico”), ossia il periodo storico in cui lo scrittore si trova a vivere. Facendo riferimento al mondo della biologia, Taine paragona l’opera ad un organismo, conferendo ad essa autonomia dal suo autore. Al contrario, discutere sulla produzione verista, definendola come una “nuova scienza” è inesatto: è empirica la rappresentazione obiettiva della realtà, è quasi fotografico il metodo con cui si racconta della difficile condizione dei contadini e dei minatori del sud, ma non si può dire “scientifica” la sottesa attenzione e l’impercettibile sensibilità rivolta ai sentimenti dei personaggi: ne è un esempio Rosso Malpelo, protagonista dell’omonima novella del Verga che manifesta tutta la sua aggressività, il suo odio nei confronti della vita, con il solo utilizzo della vita. Il Verismo, poi, si estende anche nel mondo della musica, grazie a Pietro Mascagni che nel 1889, in “Cavalleria rusticana”, musica un racconto di Giovanni Verga e in campo artistico, grazie al movimento dei Macchiaioli che si sviluppa fra il 1855 e il 1867. A questi appartiene Giovanni Fattori, che tramite l’utilizzo di macchie di colore, rappresenta la realtà, come nella tela “La marcatura dei torelli”, dipinta nel 1889, in cui dipinge una scena di vita contadina. Le opere naturaliste e veriste possono, infine, dirsi dei dagherrotipi, ossia degli antenati della fotografia.

L’amicizia, sinonimo di libertà per l’uomo

L’amicizia, tema di riflessione e motivo di ispirazione poetica nella letteratura e nell’arte. Destinazione: rivista letteraria

In un’era scandita da ritmi frenetici e da un uso abnorme dei mezzi mediatici, sembrano che si siano persi quei valori dettati da una giusta morale. Fra i tanti si pone la riflessione sul tema dell’amicizia. Esso ha acquisito, nel tempo, valenze diverse. All’inizio era inteso sulla base di autentici principi morali. Oggi, camminando per le strade e ascoltando casualmente i discorsi tra conoscenti, si nota che si attribuisce all’amicizia una connotazione diversa dal suo significato pregnante. Infatti si tratta di un’amicizia interessata, volta unicamente al tornaconto di un singolo individuo. Allora mi chiedo: quali significati attribuire all’amicizia? Secondo la mia personale opinione, sia essa etica che morale, il termine “amicizia” deve indicare un affetto vivo e reciproco che non sia volto esclusivamente all’interesse di un singolo individuo, ma al bene collettivo. Questo tema, dunque, fin dall’antichità è stato un’occasione di riflessione, tanto che molti letterati e artisti trassero ispirazione proprio da essa. Nel mondo romano-repubblicano, Cicerone, nell’opera intitolata De amicitia, affermava che la vita non era tale senza amicizia e che l’uomo, in quanto essere vivente, senza di essa non aveva la condizione di libertà. A mio avviso, tale affermazione è retta da principi solidi ed esprime verità. Infatti l’uomo che non gode della vera amicizia diventa introverso e schiavo delle sue angosce e paure, vivendo in una perenne disperazione. È, dunque, vero che l’amico è un sostegno dolce e caro, perché è capace di far superare, attraverso consigli, i momenti più brutti della vita. Questa affermazione si evince anche da una famosa pagina de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. L’autore racconta l’incontro tra Renzo e un amico, avvenuto dopo un’assenza di forse due anni. I due amici, contenti di essersi ritrovati, si confidano le loro avventure avvenute durante il periodo di separazione. E così, anche parlando di sventure e di «cose che non si sarebbe mai creduto di vedere», trovano sollievo. L’amicizia, inoltre, va coltivata nella gioia, ma anche e soprattutto nel dolore, come nel caso espresso da Verga nel passo Vita dei campi della novella Rosso Malpelo, in cui il protagonista, anche se squattrinato, cerca di dare sollievo con dei beni materiali agli affanni dell’amico Ranocchio, che soffre a causa della febbre e della tosse. In questo passo, quindi, è evidente che l’amicizia è un sentimento privo di valore economico. Emblematico fra tutti è il passo tratto da L’amico ritrovato di Uhlman, in cui l’amicizia viene messa in risalto come sentimento imprevedibile, in quanto il protagonista non ricorda quando Konradin dovesse diventare suo amico. Ma, oltre all’imprevedibilità, l’amicizia è esaltata dall’atto estremo della morte per la salvezza dell’amico. Ma come raffigurare un tale sentimento? Raffaello, con grande maestria, immortala l’amicizia con un’enorme forza espressiva del volto del personaggio e con grande sicurezza nei gesti. Dunque, per me l’amicizia, oltre ad avere le caratteristiche sopra elencate, deve essere soprattutto un sentimento eterno, capace di sconfiggere il tempo e l’ambiguità, come esprime bellamente il poeta fiorentino Dante ne Le rime e il cantante Renato Zero nella canzone Amico, che si conclude con una sincera ed espressiva affermazione: «Amico è bello, amico è tutto, è l’eternità, è quello che non passa mentre tutto va».

Il luogo natio nei componimenti dei poeti

Poeti e paesaggio natio. Destinazione: rivista letteraria

Ogni uomo porta sempre con sé, nell’arco della sua vita, le bellezze, i sapori, l’aria del luogo in cui è nato. Se si trova lontano dalla sua terra, ripensa con nostalgia ai luoghi in cui ha trascorso la sua infanzia e ripercorre nella sua memoria tutte quelle cose (natura, casa, persone…) che rendevano speciale il suo paese. Il tema del paesaggio natio è caro soprattutto ai poeti, in modo particolare a quelli che sono stati costretti ad allontanarsi dalla propria terra. Si pensi al grande Ugo Foscolo che, nel sonetto A Zacinto, si rivolge proprio alla sua terra che lo vide crescere, cantandone le bellezze naturali (il mare Ionio e le coste feconde) e mettendone in risalto l’importanza letteraria (l’isola, infatti, ha dato i natali a Venere ed è stata anche menzionata nella celebre Odissea di Omero). Purtroppo, però, Foscolo non può più farvi ritorno, nemmeno da morto, in quanto si trova in esilio. A Zacinto, dunque, resterà soltanto il canto nostalgico del suo figlio che si trova in esilio. Quanto dolore provoca nell’animo umano il dover abbandonare per forza la propria terra. Un esempio di ciò che si può provare nell’allontanamento forzato è costituito dallo splendido passo dell’“Addio ai monti” contenuto alla fine dell’ottavo capitolo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. È fallito il tentativo di Renzo e Lucia di unirsi in matrimonio con un inganno ai danni di don Abbondio. I due giovani, insieme ad Agnese, sono costretti a scappare in fretta e furia dal loro paese per raggiungere con una barca l’altra parte della riva del lago. Ecco che Manzoni scrive una delle pagine più belle della sua opera. Con tono di poesia, Lucia, nella sua mente, rievoca la bellezza della terra in cui è nata e nella quale si era sempre sentita al sicuro prima di ricevere le minacce di don Rodrigo. In questi pensieri, viene messa in risalto anche la paura che si prova nel dover abbandonare per la prima volta la propria terra: Lucia ha sempre vissuto nel suo piccolo paese, non si è mai allontana da esso e ora prova timore nell’andare in un luogo che le è estraneo, in cui non ha nessun appoggio e non sa cosa troverà. Si rifugia, perciò, in Dio, sicura che la accompagnerà in questa esperienza e che la farà, un giorno, ritornare a casa. Anche Carducci, nella poesia tratta dalle Rime Nuove intitolata Traversando la Maremma toscana, esalta la bellezza del luogo in cui è cresciuto. Il poeta, ormai divenuto un uomo maturo, sta compiendo un viaggio in treno attraverso la sua dolce Maremma e, nel rivedere quei luoghi, prova delle forti sensazioni. Ricorda i pensieri e i sogni che aveva fatto da giovane e arriva all’amara conclusione che non c’è nemmeno più il tempo di raggiungere quanto si era prefissato di fare in quanto è vicino il momento di morire. Queste tristi riflessioni, però, sono alleviate proprio grazie alla vista delle colline e delle verdeggianti pianure tipiche del paesaggio maremmano. Alcuni poeti, invece, hanno difficoltà a lasciare la propria terra. È il caso di d’Annunzio che, in una lirica contenuta nella raccolta Alcyone intitolata I pastori, vuole essere proprio come i pastori abruzzesi che, ogni settembre, lasciano la loro terra per condurre il gregge verso il mare. Prima di partire, però, essi bevono alle fonti alpestri affinché il sapore dell’acqua natia rimanga nel loro cuore durante il periodo di allontanamento. Saba, invece, nella poesia Trieste e una donna, canta Trieste non solo come sua città natia, ma anche come essa è realmente. Ogni ambiente di Trieste (la chiesa, la spiaggia, la collina) appartiene al poeta e vive in lui. Infine, anche il Sbarbaro, nella poesia Liguria tratta dalla raccolta Rimanenze, celebra la bellezza della sua terra, appunto la Liguria. Di essa viene celebrata soprattutto la natura: il cielo invernale che è simile a quello primaverile, il sole che brilla anche quando piove finemente, i versi del gabbiano e il rumore del mare sugli scogli. Insomma, ogni persona non può dimenticare la terra in cui è nato. Ha con essa un particolare rapporto: la porterà sempre nel suo cuore e ne canterà le bellezze per non dimenticarsi mai, nei momenti più difficili della vita, di quanto è stato contento e spensierato durante la fanciullezza.

Letteratura e guerra

Poeti e letterati di fronte alla grande guerra Destinazione: rivista storica

Il secolo appena trascorso è stato caratterizzato da due eventi significativi: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. La prima “inutile strage”, come la definì papa Benedetto XV, avvenne tra il 1914 e il 1918 e vide il fronteggiarsi della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra, Russia) contro la Triplice Alleanza (Austria, Germania e Italia). Quale fu l’atteggiamento dei letterati di fronte alla guerra? Ci fu chi l’esaltò e chi, invece, ne mise in risalto i limiti e le violenze. Tutti gli esponenti appartenenti alla corrente del Futurismo si mostravano favorevoli alla guerra. Essa, come appare dal Manifesto del Futurismo, era considerata l’unica capace di igienizzare il mondo. I futuristi, infatti, rifiutavano la tradizione e si opponevano alla cultura del passato. Per raggiungere una piena modernità, quindi, era necessario far ricorso alle armi. Accanito sostenitore della guerra fu anche il poeta italiano Gabriele d’Annunzio. Egli, infatti, apparteneva alla cosiddetta corrente degli interventisti: l’Italia non entrò subito in guerra, ma aspettò un anno. In quest’arco di tempo, si scontrarono i neutralisti, contrari all’entrata in guerra della nazione, e gli interventisti, favorevoli all’intervento bellico italiano. D’Annunzio, nel discorso tenuto a Quarto il 5 maggio 1915, affermò la sua contentezza nel sapere che finalmente l’Italia era entrata in guerra. Non tutti i letterati espressero questi comportamenti gioiosi nei confronti del conflitto. Il poeta russo Majakovsfkij, in un suo componimento, mette in risalto le caratteristiche negative dei combattimenti: il rosso purpureo del sangue, le labbra anch’esse bagnate di sangue, le baionette, gli obici. Anche la natura rispecchia la violenza che sta avvenendo in terra: nel Reno scorre sangue, nei cieli di Roma si sente il tuonare delle armi, sempre dal cielo c’è un pianto di lacrime di stelle. Anche Renato Serra, in Esami di coscienza di un letterato, sostiene l’inutilità della guerra. Essa, infatti, non porta ad alcun cambiamento nel mondo, ma rimane fine a sé stessa. Afferma l’autore: «non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati». Erroneamente l’uomo considera la guerra una “giusta causa”, al termine della quale vuole che chi ha combattuto abbia reso più forte il suo carattere e che chi è morto venga santificato. Ma sulla terra, alla fine del combattimento, non cambia assolutamente nulla poiché tutti morti riposeranno sottoterra mentre spunteranno sempre la stessa erba e il solito Sole di primavera. La guerra pone tutti sullo stesso piano. Che si appartenga alla nobiltà o che si sia un umile cittadino, il destino di chi è in guerra è, per la maggior parte dei combattenti, sempre uno: la morte. Si pensi alle numerose vittime del primo conflitto mondiale. Esse furono numerose, in quanto il combattimento si trasformò in una lunga ed estenuante guerra di trincea: per conquistare pochi metri di terra, i combattimenti erano estremamente violenti e si perdevano numerose vite umane. Inoltre i soldati vivevano in condizioni precarie all’interno delle stesse trincee: molto spesso morivano a causa del freddo e delle malattie. La morte, quindi, mette tutti sullo stesso piano. Giovanni Papini nell’opera Amiamo la guerra, afferma che le persone decedute sono diverse tra solo dal colore dei vestiti che indossano. Ma Papini è sostenitore dell’utilità della guerra perché essa «rimette in pari le partite» dal momento che «c’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono» e si deve ritornare necessariamente a un equilibrio. Anche Thomas Mann, in Pensieri di guerra, esalta la guerra. Egli sostiene che è la sola idea del combattimento ad esaltare i poeti, poiché esso diventa una necessità morale. Bisogna, dunque, combattere perché è la nazione che richiede di farlo e bisogna lottare ad ogni costo, anche andando contro la ragione. Infine, Mann vede nella pace l’elemento di maggiore corruzione civile ed è perciò necessario prendere in mano le armi. Io sono del parere che la guerra potrebbe essere evitata se solo i diversi popoli fossero aperti maggiormente ad un dialogo reciproco e cercassero di mettere da parte i loro interessi trovando una soluzione consona ad entrambe le parti. Altrimenti ci sarà sempre un conflitto armato che porterà solo ad un’inutile perdita di vite umane.

La storia maestra di vita

La memoria storica tra custodia del passato e progetto per il futuro. Destinazione: giornale scolastico

Se penso alle tante malattie, quella che mi sconvolge di più è l’Alzheimer. Non c’è cosa più orrenda che dimenticare i momenti, belli o brutti, trascorsi durante l’intera vita. Il passato, infatti, è la nostra storia e da esso si può imparare a non commettere nel futuro gli stessi errori. Noi siamo quel che siamo proprio perché abbiamo vissuto determinate esperienze dalle quali siamo usciti più forti e temperati. Ecco che la vita dei nostri nonni può fungere come esempio per le nuove generazioni. La storia, quindi, diventa maestra di vita. Anche il ricordo di eventi più grandi serve a far sì che determinate tragedie non si ripetano più. Assume importanza la memoria e, di conseguenza, il ruolo dello storico. Come afferma Hobsbawn in Il secolo breve, il compito principale dello storico è quello di «ricordare ciò che gli altri dimenticano». Deve, quindi, ripercorrere gli eventi più salienti della storia dell’umanità, studiando ogni tipo di documento per ricostruire, quanto più fedelmente possibile, le caratteristiche di quel determinato periodo in cui un fatto di particolare rilevanza è avvenuto. Io ritengo sia utile ricostruire anche la microstoria, quella, cioè, delle persone umili. È produttivo, infatti, conoscere le loro usanze perché in questo modo è possibile offrire a chi studia storia un quadro generale più completo ed esaustivo. Hobsbawn continua sostenendo che lo storico moderno deve svolgere il suo lavoro di ricostruzione degli avvenimenti in modo più conciso rispetto a quanto fatto nei secoli precedenti. Infatti, con il passare del tempo, pare che si stia rompendo il filo che lega presente e passato. Un esempio è dato dalle generazioni di fine Novecento che sembrano aver rotto con il «passato storico» del loro tempo vivendo, così, in una sorta di eterno presente. Il filosofo Nietzsche in Considerazioni inattuali – Sull’utilità e il danno della storia per la vita, sostiene che l’uomo, a differenza degli animali, è legato al passato perché non è in grado di dimenticare. I ricordi possono riaffiorargli nella mente in un baleno, sono come fantasmi che appaiono e scompaiono improvvisamente. Dunque l’uomo, «per quanto lontano vada e per quanto velocemente», rimane indissolubilmente legato a ciò che è stato. Il passato fa, infatti, da monito per non ripetere gli stessi errori. Bisogna, ad esempio, ricordare l’assurdità dei campi di concentramento per evitare che ci siano altri inutili stragi di innocenti, bisogna tenere a mente gli effetti della bomba nucleare sulla popolazione giapponese per capire che bisogna utilizzare quest’arma quanto meno possibile (o meglio ancora sarebbe non usarla proprio). La memoria, inoltre, come afferma Loewenthal in un articolo pubblicato da La Stampa il 25-1-2002, permette di staccarsi dal passato per spiegare meglio cosa sia avvenuto e perché. Infatti, il ricordare semplicemente ciò che è avvenuto precedentemente da solo non serve. Bisogna, come afferma anche Spinelli ne Il sonno della memoria, che i fatti in sé per sé non perdano significato nel tempo. L’uomo moderno sembra non riuscire a oltrepassare la memoria e a trarre un giusto insegnamento da quanto avvenuto. Ha senso ricordare, infatti, solo se si è in grado di rimediare agli eventuali errori che si è commesso e spiegare il perché essi siano stati attuati, andando proprio oltre la semplice memoria. La caduta del muro di Berlino nel 1989, ad esempio, rischiava di rimanere un mero «flatus vocis, il cui significato sembrava destinato a sperdersi». Questa tragedia, per essere evitata, ha bisogno non solo di essere semplicemente menzionata, ma anche di essere spiegata. È vero, dunque, quando si afferma che la storia è maestra di vita. Dagli avvenimenti, grandi o piccoli che siano, infatti, si traggono quelle importanti lezioni che ci dovrebbero far diventare migliori di quel che siamo stati. La storia è anche la nostra carta d’identità: si è giunti a determinati traguardi proprio perché si è passati attraverso specifiche situazioni. È utili, quindi il lavoro dello storico, perché permette di dare una giusta importanza alla memoria per fare in modo che la nostra storia non cada nell’oblio.

Ricordare per non dimenticare:la memoria dell’Olocausto

Da molti anni, in Italia, ogni 27 gennaio, si celebra il giorno della memoria. In tale ricorrenza, si commemorano le numerose vittime ebree (ma non solo) dei campi di concentramento. È questa, a mio avviso, una delle pagine più tristi della storia che l’uomo abbia mai potuto scrivere. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti, in nome di una non dimostrata superiorità di razza, costruirono campi di concentramento per eliminare la razza impura, quella ebrea. Numerose, purtroppo, furono le vittime. La superiorità di razza non trovava allora, e non trova neanche oggi, una spiegazione scientifica. Eppure essa era validamente teorizzata, coma appare dalle pagine scritte dal fautore di questa grande tragedia umana. Hitler, infatti, ne La mia battaglia, non crede nell’uguaglianza delle razze, ma afferma che esse «sono diverse e quindi hanno un valore maggiore o minore». Secondo tale pensiero, la Volontà che domina l’Universo vuole che il più forte abbia la meglio sul più debole. Ecco che lo Stato viene visto come «un mezzo per raggiungere un fine, il fine della conservazione dell’esistenza razzista degli uomini». Questa errata concezione portò a drammatiche conseguenze: numerose persone persero improvvisamente casa, lavoro e famiglia; furono deportate in massa verso i campi di concentramento, dove trovarono la morte oppure lavorarono come animali. La loro vita dipendeva da un cenno di testa del comandante nazista: bastava un niente, e queste persone venivano fucilate, mandate nelle camere a gas o arse vive nei forni crematoi. Ci si chiede se coloro che compirono questi orrori si rendessero conto di ciò che stavano facendo. Infatti, la maggior parte dei capi nazisti che fu processata all’indomani della fine della guerra non sembrò aver preso coscienza di quegli atti scellerati. Un esempio è riportato da Hannah Arendt ne La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. In occasione del processo di Gerusalemme, il comandante Eichmann era pienamente convinto di aver agito bene (infatti non aveva fatto altro che svolgere al meglio il proprio lavoro) e affermava di aver compiuto quelle stragi perché nessuna voce dall’esterno gli diceva che erano sbagliate. Il fatto è che molte persone che aderirono al nazismo, nella loro interiorità, erano contrarie al regime, ma non potevano opporsi palesemente ad esso, se si pensa al terrorismo creato proprio dal nazismo. Infatti bisognava «mostrarsi ancor più nazista dei nazisti comuni». L’unico modo per sottrarsi a questo scempio, pur continuando a vivere in Germania, era allontanarsi dalla vita politica. Cosa fare, dunque, affinché questi terribili atti non si ripetano più? Bisogna ricordare. È l’invito che il poeta Primo Levi (anche lui fu rinchiuso nei campi di concentramento, ma riuscì a salvarsi) fa agli uomini. Nella poesia Se questo è un uomo, si rivolge a chi vive in una tiepida casa e a chi trova il piatto pronto a tavola quando rincasa la sera, esortandolo a chiedersi se si possono considerare uomini coloro che lavorano nel fango per un misero pezzo di pane e che muoiono per un sì o per un no, oppure donne quelle che sono rimaste senza capelli e senza nome e che non hanno nemmeno più la forza di ricordare. Il poeta invita con forza al ricordo: se esso non ci sarà, gli uomini saranno senza casa, verranno colpiti da tremende malattie e non saranno più guardati in faccia dai loro figli. Ricordare, però, non è sempre facile. Chi ha vissuto sulla propria pelle lo scempio delle atrocità naziste ha avuto enormi problemi nel continuare a vivere e ha preferito cancellare, anche se con fatica, quanto visto coi propri occhi. Quindi, come afferma Bauman in Modernità e olocausto, «il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata». Come sostiene Primo Levi, anche oggi lo straniero può essere considerato nemico. È una concezione nascosta che non sta alla base di nessun pensiero, ma che può portare a drammatiche conseguenze come, appunto, i campi di concentramento. Ecco dunque che la storia diventa nostra maestra di vita: l’uomo è portato a ricordare quanto successo per far in modo che tali drammatici eventi non si verifichino più.

Il potere dei regimi totalitari del Novecento

Il terrore e la repressione politica nei sistemi totalitari del Novecento Destinazione: rivista storica

Il Novecento è stato il secolo che ha visto lo svilupparsi dei regimi totalitari. Gli esempi più noti sono costituiti dal nazionalsocialismo della Germania di Hitler, dal periodo stalinista della Russia e, in forme meno articolate, dal fascismo italiano di Mussolini e dalle altri sistemi di governo che caratterizzarono l’Europa dell’Est, l’Asia e l’America Latina. Si tratta di forme di dittature, cioè di governi in cui un’unica persona riuniva nelle sue mani tutto il potere (legislativo, esecutivo e giudiziario) e aveva il pieno controllo sulle attività sociali, economiche, politiche, intellettuali, culturali e spirituali. In queste forme di governo era necessario che il singolo dovesse identificarsi con l’ideologia dell’unico partito al potere. Non aveva, quindi, la possibilità di condurre una vita autonoma. Il primo strumento per uniformare le masse al potere era la propaganda: televisioni, giornali, riviste esaltavano gli atti compiuti dal regime e diffondevano solo ciò che esso ordinava di divulgare. Infatti, tali mezzi fornivano al cittadino informazioni, orientamenti e direttive del partito. Il regime, quindi, aveva il pieno controllo sui mezzi di comunicazione di massa. Non c’era spazio per le idee diverse da quelle della dittatura. Le forme di pensiero che non si allineavano all’ideologia del partito venivano colpite da censura e, di conseguenza, non potevano esprimersi liberamente. C’era, dunque, una forte limitazione e soppressione della libertà di espressione tipica dei governi democratici. Di conseguenza, nelle forme di governo dittatoriali, molti giornali vennero chiusi o continuavano ad esistere segretamente. Il controllo dei regimi totalitari sulla società avveniva anche mettendo in pratica altri provvedimenti: i partiti politici contrari al dittatore venivano sciolti, addirittura venivano soppressi fisicamente gli avversari politici. Nella maggior parte dei casi, infatti, il regime istituiva una speciale polizia segreta che aveva il compito di rintracciare e eliminare tutti coloro che erano contrari al potere. Si parla, quindi, di genocidio. Come afferma la Convenzione delle Nazioni Unite del 9-12-1948, per genocidio si intendono le misure prese per eliminare un determinato gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Esso può avvenire in cinque forme: assassinando quelli che fanno parte del gruppo; procurando a questi membri lesioni fisiche e morali; imponendo ai malcapitati condizioni di vita che li conducono ad una morte quasi certa; ostacolando le nascite all’interno del gruppo per far sì che si estingua da solo; infine, trasferendo forzatamente i figli da un gruppo all’altro. Il precursore di queste eliminazioni fisiche fu il tedesco Hitler. Egli, con la costruzione dei campi di concentramento, fu l’artefice della morte di centinaia di avversari politici e di milioni di Ebrei, considerati razza impura e, quindi, da cancellare definitivamente dalla faccia della terra. Sul suo esempio, molti altri dittatori costruirono campi di concentramento destinati soprattutto ad eliminare gli avversari politici. Nei regimi totalitari, quindi, non c’è spazio per l’avversario. Come afferma Courtois in Il libro nero del comunismo, i contrari al regime venivano considerati prima nemici, poi criminali e infine esclusi. In quanto tali, dovevano essere sterminati. I sistemi totalitari, infatti, volevano costruire «un’umanità riunificata o purificata, non antagonista». Escludendo un individuo, automaticamente si era spinti ad eliminarlo, in quanto considerato inutile e senza senso per il bene del regime. Molte persone, dunque, furono costrette ad abbandonare la loro patria per avere salva la vita. Come sostiene Todorov in Memoria del male, tentazione del bene, i sistemi totalitari hanno manomesso completamente la memoria. Tutti gli atti compiuti dal regime, infatti, venivano considerati giusti e normali. Si pensi come, ad esempio, i capi del nazismo non si resero conto della terribile strage che avevano attuato nei campi di concentramento e affermavano nei tribunali che avevano compiuto semplicemente il loro lavoro e che per questo non potevano essere puniti. Naturalmente, il popolo non la pensava così. Questo era consapevole delle terribili stragi che attuavano i regimi totalitari. Come afferma Altamirano in Saluto di Capodanno: 1 gennaio 1975, ad esempio, gli abitanti del Cile erano consci delle violenze attuate dal regime e, di conseguenza, provavano dolore per la loro patria che era stata trasformata in un tremendo carcere in cui si moriva di fame e in cui determinate persone venivano uccise, torturate e rinchiuse in prigione. Fortunatamente, oggi queste forme di potere totalitario esistono ancora in pochissimi paesi. La maggior parte degli stati, infatti, adotta un governo di tipo democratico, un governo, cioè, in cui tutti gli appartenenti a un popolo possono esprimere liberamente il loro pensiero. La lezione dei regimi totalitari, dunque, ha creato un mondo migliore basato sul rispetto dell’altro.

Le foibe

Ai sensi della legge 30 marzo 2004, n. 92, “la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Il candidato delinei la “complessa vicenda del confine orientale”, dal Patto (o Trattato) di Londra (1915) al Trattato di Osimo (1975), soffermandosi, in particolare, sugli eventi degli anni compresi fra il 1943 e il 1954.

Il 10 febbraio è il giorno in cui la Repubblica ha stabilito che si celebrasse il ricordo delle vittime delle foibe. Le foibe sono spaccature del terreno nelle zone carsiche che creano buche profonde. In esse, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, molti Italiani persero la vita per mano dell’esercito jugoslavo. Ma perché ci fu questa terribile strage? Già da molti anni era rimasta irrisolta la cosiddetta questione del confine orientale. I precedenti sono da ricercare nei primi anni del Novecento. Nel 1914 ebbe inizio la Prima Guerra Mondiale, che vide scontrarsi i paesi della Triplice Intesa (Francia, Russia e Inghilterra) contro quelli della Triplice Alleanza (Austria-Ungheria, Germania e Italia). Inizialmente, l’Italia si dichiarò neutrale. Poi, nell’aprile del 1915, l’allora Presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli esteri Sannino firmarono il patto di Londra: si tratta di un accordo segreto che l’Italia stipulò con Francia, Gran Bretagna e Russia in cui si stabilivano le condizioni per l’ingresso della penisola in guerra. In caso di vittoria, i paesi dell’Intesa promisero all’Italia i territori del Trentino, del sud del Tirolo fino al Brennero, Trieste e Gorizia, l’Istria tranne Fiume, parte della Dalmazia, il protettorato dell’Albania e una porzione dei territori in Africa. L’Italia, così, entrò in guerra a favore dell’Intesa contro i paesi dell’Alleanza. Com’è noto, l’Intesa vinse la guerra. I trattati di pace, per quanto riguarda l’Italia, però, non furono rispettati. Stati Uniti (che erano entrati in guerra nel 1917), Gran Bretagna e Francia, infatti, si dimostrarono maggiormente propensi a seguire il principio wilso-niano dell’autodeterminazione dei popoli (ogni popolo, cioè, poteva scegliere la sua forma di governo). Perciò, l’Italia dovette rinunciare alla Dalmazia e accettare il fatto che Fiume, sebbene la sua acquisizione non fosse contemplata dal Patto di Londra, rimanesse al di fuori dei confini italiani. Si parlò, così, di vittoria mutilata. Un gruppo di nazio-nalisti, però, guidati da Gabriele d’Annunzio, occupò la città di Fiume. La questione di Fiume fu inizialmente risolta con il trattato di Rapallo del 1920, in base al quale Italia e Jugoslavia dichiararono Fiume città libera. La città, però, divenne nuovamente oggetto di disaccordo tra i due paesi e così il suo territorio fu diviso in due parti (una all’Italia e l’altra alla Jugoslavia) con il Trattato di Roma del 1924. I problemi con la Jugoslavia, però, non riguardavano soltanto Fiume. Nella zona orientale, infatti, vivevano etnie diverse (sloveni, croati e serbi), ragion per cui questo territorio fu sottoposto a un processo di “italia-nizzazione” che si intensificò con l’avvento del Fascismo al potere. Il regime fascista, infatti, privò sloveni e croati di ogni forma di identità politica e culturale, chiudendo giornali, scuole, italianizzando nomi e toponimi e addirittura eliminando fisicamente le persone che non riconoscevano l’autorità italiana. Il culmine della potenza politica del fascismo in Italia si ebbe nel 1941, quando l’esercito nazifascista arrivò fino al Montenegro. Durante la guerra, però, l’esercito titino fu l’unico a sconfiggere militarmente i Tedeschi, riuscendo ad arrivare, nel 1943, fino a Trieste. Poi l’esercito titino si ritirò per riconquistare Trieste nel 1945 per quarantacinque giorni. In questo periodo l’esercito jugoslavo attuò una severa rappresaglia che colpì italiani, sloveni e croati considerati ostacolo all’instaurazione di un regime comunista nella Jugoslavia. La rappresaglia si abbatté anche sulla popolazione civile: molte persone trovarono la morte o perché gettate nelle foibe o perché deportate nei campi di concentramento jugoslavi. Successi accordi tra angloamericani e jugoslavi posero Trieste sotto l’amministrazione militare alleata. Con il Trattato di Parigi del 1947, Trieste fu posta sotto il controllo delle Nazioni Unite. Successivamente il territorio di Trieste fu diviso in due zone: la zona A sotto il controllo alleato e la zona B sotto l’amministrazione jugoslava. Gli Italiani non erano contenti della situazione e così nel 1954 si stabilì definitivamente che la zona A fosse assegnata all’Italia mentre la B alla Jugoslavia. La questione di Trieste fu risolta definitivamente nel 1975 con gli accordi di Osimo, con i quali Italia e Jugoslavia riconobbero reciprocamente la sovranità delle zone a loro affidate.

L’Italia nel secondo dopoguerra

La costruzione dello Stato democratico in Italia all’indomani della seconda guerra mondiale. Considerata anche l’esperienza dell’Italia pre-fascista, illustra le tappe del percorso di costruzione delle istituzioni democratiche, le scelte e i processi che ne hanno consentito il progressivo consolidamento.

Per descrivere il processo che portò alla formazione dello stato democratico post-fascista in Italia, è necessario partire dalla guerra. Non si può, infatti, parlare degli eventi che hanno caratterizzato la ricostruzione della democrazia nel nostro paese, senza fare un passo indietro, soprattutto per cercare di cogliere quali gruppi, quali personaggi, e con quali ideali e obiettivi, parteciparono alla resistenza al nazifascismo, e come già negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, questi abbiano contribuito alla creazione di uno spirito unitario, capace di agevolare poi il cammino dell’Italia attraverso una fase difficile, come la ricostruzione materiale, ma anche morale e politica del paese. Gli albori del movimento di resistenza partigiana in Italia sono da rintracciare negli ultimi mesi del 1942. Il razionamento dei generi, i bombardamenti sempre più frequenti sulle città, la disastrosa ritirata dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia) e l’entrata dell’armata inglese a Tripoli, avevano reso la guerra sempre più impopolare nel paese. Già nel marzo del ’43 una serie di scioperi coinvolsero Torino e Milano, chiedendo la fine della guerra, e mettendo le basi per un primo coordinamento dei nascenti comitati antifascisti. Anche dopo lo scioglimento del partito fascista, però, a seguito dell’arresto di Mussolini e l’affidamento del governo a Badoglio, lo stato continuò a scoraggiare se non a impedire la ricostruzione dei partiti e le manifestazioni pubbliche di dissenso. In quel difficile contesto, una serie di gruppi caratterizzati dalla trasversalità dei propri membri, cominciarono a costituirsi, coinvolgendo la cittadinanza prima in atti come il rifiuto della leva, e l’aiuto ai prigionieri e agli ebrei, e successivamente come il sabotaggio e la resistenza armata all’esercito tedesco. Più di duecentomila furono, in tutto il paese, gli uomini e le donne che parteciparono alla resistenza partigiana, provenienti da tutte le classi sociali. La maggioranza, era costituita da operai e da cittadini provenienti dal ceto medio, ma non mancavano esponenti di orientamento liberale e persino monarchico. Anche a livello politico, sebbene molto forte fosse la presenza di esponenti o simpatizzanti dei partiti comunisti e socialisti, vi erano altri gruppi partigiani che avevano come riferimento la linea del Partito d’azione e della nascente formazione cattolica, la Democrazia cristiana. L’eterogeneità dei partecipanti alla resistenza, in ogni caso, è un fattore che si rivelò fondamentale, non solo nei successi e nel contributo decisivo che i partigiani diedero alla liberazione del paese, ma anche, con la fine della guerra, nella consapevolezza della necessità di una comunione politica di intenti e di un senso di responsabilità capace di consentire al paese di voltare realmente e definitivamente pagina, senza correre nuovi e pericolosi rischi. Con la fine del conflitto, infatti, la situazione politica del paese era a dir poco fragile. In Sicilia, si andava costituendo un movimento indipendentista che provava a organizzare un proprio esercito; al nord, alcuni gruppi di partigiani sembravano riluttanti a deporre le armi, mentre gli operai occupavano le fabbriche e innalzavano la bandiera rossa; al sud, i contadini poveri invadevano i latifondi e le terre incolte; mentre gli alleati, la monarchia e il Comitato di Liberazione Nazionale (l’organo di coordinamento dei partiti antifascisti e delle formazioni partigiane) non intendevano fare passi indietro, in attesa delle decisioni che avrebbero assegnato il potere del paese, e messo le basi per la formazione di un nuovo stato unitario. In questo contesto, la priorità era quella di mantenere un ordine e un equilibrio fino al giugno del ’46, quando un referendum (indetto a guerra ancora in corso dal governo Bonomi) avrebbe chiesto a tutti i cittadini di scegliere tra monarchia e repubblica, e un’elezione politica avrebbe eletto un’assemblea per elaborare la nuova costituzione. Operazione non facile, quella di trovare e mantenere quest’equilibrio, ma operazione che si rivelò alla fine di successo, grazie alla responsabilità con cui le forze politiche affrontarono questa prova. Nel giugno del ’45, infatti, con l’affidamento del governo a Ferruccio Parri (ex partigiano e leader del Partito d’azione), i partiti che avevano contribuito a tirar fuori il paese dalla guerra, riuscirono a compattarsi, e posizioni di rilievo all’interno del nuovo esecutivo furono affidate a membri socialisti (Nenni, vicepresidente), comunisti (Togliatti, alla giustizia), e democristiani (De Gasperi, agli esteri). Tutti ex partigiani. Proprio De Gasperi, capo del successivo governo di coalizione (dal dicembre del ’45), ebbe il delicato compito di guidare il paese nella tappa forse più difficile nell’ambito di ricostruzione dello stato democratico: le elezioni del giugno del ’46. Le consultazioni, probabilmente le più importanti della storia italiana, si conclusero con un risultato netto: la Democrazia cristiana era il primo partito, con il 35% dei voti, seguito da comunisti e socialisti appaiati al 19 e al 20%. Meno netto, l’esito del referendum, che tuttavia stabilì, grazie al 54% delle preferenze, che l’Italia sarebbe stata una repubblica. A questo punto, se il nuovo governo De Gasperi aveva il compito di portare definitivamente il paese fuori dalla buia fase storica dal quale veniva, l’assemblea costituente aveva quello di garantire un testo costituzionale equilibrato, che rompesse definitivamente con il fascismo, e soddisfacesse le esigenze delle varie forze politiche presenti. Ma la prova di grande responsabilità data dai partiti nel corso della guerra prima, e dell’immediato dopoguerra poi, non poteva che esplicitarsi anche in questa nuova fase. L’approvazione della nuova costituzione, nel dicembre del ’47, riuscì a coniugare le rivendicazioni liberali riguardo i diritti dell’uomo e del cittadino, con le priorità socialiste riguardo i problemi del lavoro e con il riconoscimento dei diritti della Chiesa sanciti dai patti lateranensi, chiesto dai democristiani. Con l’entrata in vigore del nuovo testo (considerato uno dei migliori in Europa), l’Italia compiva il primo passo in avanti verso la ricostruzione e cominciava la propria rinascita post-fascista, superando in maniera equilibrata e responsabile le difficoltà e i rischi che un momento delicato, come quello dei tre anni dopo la fine del conflitto, aveva presentato.

Interventisti e neutralisti alla vigilia della I Guerra Mondiale

Allo scoppiare della I Guerra Mondiale le forze politiche e l’opinione pubblica italiana sono al loro interno profondamente divise. Il candidato analizzi le posizioni quanto mai eterogenee degli interventisti e dei neutralisti.

Era il 28 luglio del 1914, quando l’Austria dichiarò ufficialmente guerra alla Serbia, dopo l’assassino dell’erede al trono d’Austria, Francesco Ferdinando. L’assassinio, infatti, era avvenuto proprio a Sarajevo, esattamente un mese prima dell’inizio della guerra, per mano di Gavrilo Princip, uno studente nazionalista serbo-bosniaco. Pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra, esattamente il 2 agosto, l’Italia annunciò che non avrebbe partecipato al conflitto, pur essendo legata alla coalizione della Triplice alleanza: l’atto, in realtà, non risultò come clamoroso, dal momento che l’offensiva serba costituiva un atto di aggressione da parte dell’Austria, mentre i trattati che legavano l’Italia ai suoi alleati erano di matrice esclusivamente difensiva. La scelta, però, non fu facile, anche perché le spinte che arrivavano dal paese erano molto eterogenee, tanto da poter dire che l’Italia e gli italiani erano praticamente divisi a metà tra chi intendeva partecipare al conflitto e chi invece si faceva sostenitore di una politica di neutralità. Entrambi gli schieramenti, in realtà, racchiudevano al proprio interno anime molto differenti, accomunate talvolta esclusivamente dalla posizione riguardo un eventuale intervento in guerra. Da una parte, schierati a favore della guerra, c’erano gli interventisti. Al loro interno, innanzitutto i nazionalisti, che sostenevano la necessità di un ingresso dell’Italia in guerra, al fine di riconquistare territori un tempo appartenuti all’Italia, ma non solo. Tra loro, per esempio, c’era anche chi sosteneva la necessità della guerra per annettere territori che in qualche maniera potessero “spettare” o andassero annessi allo stivale. In un primo momento, infatti, l’interesse si rivolgeva verso i territori di dominio fran-cese (Nizza, la Corsica e la Tunisia), ma dopo poco (forse anche a causa delle sorti della guerra), i nazionalisti rivolsero le proprie simpatie verso lo schieramento dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia). Il loro obiet-tivo, infatti, era diventato quello di strappare all’Austria le città di Trento e Trieste, oltre che l’Istria e la Dalmazia. Meno radicale era la posizione degli “irredentisti”, che sostenevano la guerra al fine della riconquista di terre italiane, e che identificavano il conflitto come una prosecuzione del percorso risorgimentale e unitario. Tra gli irredentisti, proprio per questa ragione, vi erano anche alcuni ex esponenti del partito socialista, a cominciare dal futuro primo ministro Bonomi, e del partito radicale. Dall’altro lato, molto forte era anche il movimento di opposizione alla guerra. Da un punto di vista politico, infatti, all’opposizione dei socialisti (sostenitori dell’internazionalismo pacifista, e storicamente contrari ai conflitti “imperialisti”) si era aggiunta quella dei i cattolici, soprattutto dopo la condanna della guerra da parte di Benedetto XV. Favorevoli alla neutralità italiana, erano inoltre la maggior parte dei liberali, in particolar modo quelli che facevano riferimento alle posizioni di Giovanni Giolitti. Al di là della parte politica, però, larghe fasce di popolazione italiana si dimostrarono contrarie alla guerra: innanzitutto le masse operaie, di simpatia socialista; poi quelle contadine, sulle quali grande influenza aveva avuto la posizione della chiesa. Inutile dire, inoltre, che questi due enormi segmenti di popolazione sarebbero stati quelli che avrebbero pagato, in maniera più eclatante in termini numerici, la guerra sulle proprie spalle; infine gli intellettuali, anche se tra questi spiccavano figure come quelle di D’Annunzio, apertamente favorevole alla guerra, che veniva nel manifesto futurista addirittura definita come la “sola igiene del mondo”. Alla fine, l’eterogeneità dello schieramento degli interventisti, fu forse proprio uno dei motivi che incise più di tutti nell’ingresso dell’Italia in guerra. A sostenere questa opzione, infatti, vi era l’intero arco “istituzionale” delle destre (quella conservatrice e moderata, e quella estrema e nazionalista); coloro che si professavano seguaci ed eredi del risorgimento e della politica mazziniana; infine una parte dei socialisti e dei repubblicani. Non va trascurato, infine, il fatto che determinante per l’ingresso in guerra dell’Italia, fu la posizione essenzialmente conservatrice del neoeletto governo Salandra, che decise di intraprendere la strada dell’intervento – stringendo successivamente degli accordi segreti con l’Intesa – per la paura di una eventuale rivota sociale, prospettiva all’epoca non esattamente irrealizzabile, anche alla luce degli eventi noti come “la settimana rossa” che avevano coinvolto il paese nel giugno dello stesso anno.

Giovanni Giolitti

Delinea un ritratto di Giovanni Giolitti, mettendo in evidenza i provvedimenti più significativi del suo governo

Giovanni Giolitti fu uno dei più importanti uomini politici italiani. La sua attività politica è da collocarsi tra il 1903 e il 1914, periodo che gli storici hanno definito “età giolittiana” proprio perché caratterizzata dalla figura di questo grande statista. Giolitti, però, era stato al governo anche precedentemente. La sua carriera politica, infatti, cominciò durante il governo di Francesco Crispi, quando fu Ministro del Tesoro (1889-1890). Nel 1892 divenne, per la prima volta, Presidente del Consiglio, ma fu costretto a lasciare tale carica perché coinvolto nello scandalo della Banca Romana. Dal 1901 al 1903, ricoprì la carica di Ministro dell’Interno durante il governo Zanardelli. Infine, tra il 1903 e il 1914 egli stesso fu a capo di tre governi. Lo scopo di Giolitti era quello di garantire all’Italia un periodo di pace. L’Italia, però, dal punto di vista interno, rimaneva profondamente divisa in due parti: il Nord, più ricco e industrializzato, e il Sud, povero e arretrato. Inoltre, erano nati profondi dissapori tra i padroni della terra e gli imprenditori industriali con i contadini e gli operai. Questi ultimi, per far valere i loro diritti, cominciarono a scioperare. Giolitti mostrò un atteggiamento diverso nei confronti di questi scioperi. Contrariamente a quanto avveniva in precedenza (lo Stato interveniva con la forza per reprimere gli scioperi), Giolitti era dell’idea che lo stato dovesse limitarsi a garantire l’ordine pubblico. Infatti, lo statista riteneva che gli scioperi, così come erano iniziati, sarebbero terminati da soli. Giolitti voleva riformare la società italiana e, per raggiungere questo scopo, riteneva che fosse importante giungere a un accordo tra le classi di governo vecchie e nuove e, quindi, tra liberali e socialisti. Per poter governare meglio, quindi, mostrò un’apertura sia verso il Centro-sinistra (cui facevano parte i socialisti) sia verso il Centro-destra (cui aderivano i conservatori). Il governo Giolitti pose l’attenzione alla legislazione sociale e ai problemi di lavoro. Furono varate importanti riforme sociali che tutelavano il lavoro delle donne e dei ragazzi, prevenivano gli infortuni sul lavoro e garantivano il riposo settimanale. Inoltre vennero messi in pratica degli interventi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno. Nel 1905 furono nazionalizzate le ferrovie e incominciarono dei lavori per il miglioramento della viabilità (fu costruito, ad esempio, il traforo del Sempione). Le più importanti riforme dell’età giolittiana si ebbero, però, a partire dal 1911. Fu varata, infatti, una legge che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare per tutti, le assicurazioni diventarono monopolio dello Stato e, nel 1912, venne approvato il suffragio universale maschile: potevano votare tutti i cittadini maschi che avevano compiuto i trent’anni di età e quelli che avevano più di ventuno anni a patto che avessero prestato il servizio militare. In politica estera, Giolitti si riavvicinò a Francia e Inghilterra, pur continuando a rimanere legato alla Triplice Alleanza. Lo statista, grazie a questi accordi, ottenne libertà d’azione in Tripolitania e Cirenaica e riconobbe i diritti francesi in Marocco e inglesi in Egitto. Perciò, nel 1911, attaccò la Turchia. La guerra italo-turca vide il capitolare della Turchia. In seguito alla vittoria ottenuta, l’Italia conquistò Rodi, la Libia e le isole del Dodecaneso. La crisi del sistema giolittiano si ebbe nel 1913. In quest’anno, fu firmato il Patto Gentiloni: si trattava di un accordo politico con i cattolici in vista delle elezioni di quell’anno. Con tale patto venne revocato il Non expedit, la bolla papale con la quale Papa Pio IX vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica in seguito all’unificazione italiana. A peggiorare la posizione di Giolitti fu anche il Sud, che lo accusò di aver favorito lo sviluppo del Nord, lasciando il Mezzogiorno nelle sue solite condizioni di arretratezza. Nelle elezioni del 1913, dunque, Giolitti pensò di lasciare il potere a una persona di secondo piano della quale, poi, si sarebbe potuto sbarazzare. Prese, così, il potere Antonio Salandra che, però, in breve tempo, si rese autonomo da Giolitti. Quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale, Giolitti fu un accanito sostenitore della linea neutralista. L’Italia, però, entrò in guerra in seguito al patto di Londra del 1915. L’ultimo governo Giolitti si ebbe nel 1920, durante il cosiddetto “biennio rosso”. Lo statista fu chiamato di nuovo al governo per risolvere la spinosa questione di Fiume. Si ebbe, così, la stipula del Trattato di Rapallo, con il quale Fiume veniva dichiarata “città libera”. Giolitti si ritirò definitivamente dalla scena politica nel 1921, quando iniziò ad affermarsi il fascismo. Discordi sono i pareri sull’attività di Giolitti: da un lato egli fu considerato un ottimo statista, dal momento in cui l’Italia conobbe un periodo di notevole sviluppo; dall’altro, invece, fu definito da Salvemini “Ministro della malavita” in quanto fu accusato di aver manipolato i voti del Sud per le elezioni del 1913.

La crisi del ’29 e le sue conseguenze in Europa

Nell’ottobre del 1929 scoppiò negli Stati Uniti una gravissima crisi economica, destinata a durare a lungo e a propagarsi rapidamente in Europa. Illustra le origini di tale crisi, soffermandoti particolarmente sulle conseguenze che essa ebbe nell’economia e sulle soluzioni politiche adottate nei paesi europei.

Con la fine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti riescono a imporsi come principale potenza economica a livello internazionale. L’uscita dalla guerra, però, non fu facile per la maggior parte dei paesi europei, e dopo una breve ripresa (tra il 1925 e il 1926), le economie di tutto il mondo dovettero affrontare quella che è forse tutt’ora da considerare come la più grande crisi delle borse di tutti i tempi. Nell’ottobre del 1929, infatti, il clamoroso crollo dei titoli azionari della borsa di New York, segnò l’inizio della cosiddetta “grande crisi”, crisi che ebbe almeno per i successivi venti anni delle ripercussioni importantissime non solo economiche, ma anche politiche, per tutte le più importanti potenze mondiali. Le cause della crisi del ventinove sono da individuare essenzialmente in due fattori: il primo è la crisi del credito, dovuta alle speculazioni dei grandi finanzieri internazionali e di una parte rilevante di piccoli e medi risparmiatori. Quando, durante i primi giorni della crisi, la notizia riguardo un crollo del valore delle azioni cominciò a diffondersi, i clienti delle banche accorsero a ritirare i propri depositi, tanto che gli operatori non furono più in grado di restituire liquidità ai risparmiatori. Allo stesso tempo, l’economia doveva fare i conti con la seconda causa della recessione: la crisi di sovrapproduzione dovuta all’incapacità del mercato americano di reggere la concorrenza europea, con conseguente crollo dei prezzi, che si estese rapidamente dai generi alimentari all’intera produzione interna. A causa delle forti relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e i paesi europei, la crisi si diffuse molto rapidamente anche nel vecchio continente. Inoltre, il governo americano guidato da H.C.Hoover adottò immediatamente delle misure protezionistiche, provvedimento che costrinse, nella pratica, a chiudersi a loro volta su sé stessi. Le conseguenze della crisi, insomma, si dimostrarono fortissime anche in Europa, prima da un punto di vista economico, e succes-sivamente anche politico. La riduzione degli scambi commerciali si tradusse quasi subito in una riduzione e poi quasi in una paralisi della produzione, e in una serie di incredibili svalutazioni della moneta. Le risposte, però, arrivarono soprattutto sul piano politico. La Gran Bretagna, forte dei rapporti privilegiati con i paesi del Commonwealth, provò ad uscire dalla crisi aumentando ulteriormente gli scambi commerciali con i paesi appartenenti all’area, in cambio di una certa liberalizzazione nei rapporti politici. Facendo “fronte comune” con i propri partners commerciali, riuscì così ad attutire, anche se moderatamente, gli effetti della crisi, attraverso la riduzione dei dazi doganali all’interno del Commonwealth e la difesa dei prodotti inglesi sul mercato internazionale. Tutto questo, però, costò all’impero britannico la concessione del diritto di autogoverno ai sei Dominions allora esistenti: il Canada, l’Australia, l’Unione sudafricana, la Nuova Zelanda, Terranova e lo Stato libero di Irlanda. Ancora differenti furono le ripercussioni politiche che la crisi del ’29 ebbe sugli altri stati europei. Per quanto riguarda la Germania, c’è da dire che se fino ad allora la destra violenta, eversiva e nazista che avrebbe poi dato vita al partito nazionalsocialista, godeva di un consenso tutto sommato modesto, proprio la crisi economica – fortissima nell’allora Repubblica di Weimar – riuscì a far guadagnare a Hitler l’appoggio di un ceto medio praticamente allo sbando. Dai piccoli industriali agli artigiani, dal ceto impiegatizio agli studenti, passando per i militari, in molti furono affascinati dal programma estremista del partito nazista, che proponeva il superamento della congiuntura sfavorevole attraverso una chiusura che fondasse le proprie basi su un ritorno allo spirito germanico, che sarebbe stato, tra le altre cose, capace di vendicare i torti subiti nel corso e al termine della prima guerra mondiale. La reazione autoritaria alla crisi, infatti, apriva anche alla possibilità di un nuovo conflitto, inteso, dal punto di vista economico, come l’occasione per rilanciare l’industria internazionale. Se Hitler si impossessava del potere attraverso un colpo di stato, Mussolini dal canto suo, che in Italia aveva ormai consolidato il proprio regime dittatoriale, contestava sempre più apertamente gli assetti europei stabiliti dalla pace di Versailles, e chiedeva a gran voce la revisione dei trattati di pace. Le risposte, insomma, date dai governi europei alla crisi economica del 1929 furono molto varie, sia dal punto di vista economico che politico. È vero, inoltre, che alla chiusura britannica e alla reazione autoritaria tedesca, corrisposero talvolta delle risposte “a sinistra”. In Francia, per esempio, dove la crisi arrivò piuttosto tardi (intorno al 1932), e dove proprio il rischio concreto di una avanzata delle destre, portò al trionfo nelle elezioni del ’36 del cosiddetto Fronte popolare, costituito da socialisti, comunisti e radicali, nel tentativo di scongiurare una eventuale presa del potere fascista. Risposte molto diverse quindi, ma che in un modo o nell’altro concorsero a creare quella situazione di forte tensione che, esattamente dieci anni dopo lo scoppio della crisi, porterà la maggior parte dei paesi del mondo a trovarsi coinvolti nel più grande conflitto che la storia abbia conosciuto.

L’Italia e la II Guerra Mondiale

L’Italia entrava in guerra nel giugno 1940, un anno dopo le altre potenze europee. Analizzando la delicata situazione internazionale protrattasi per diversi anni immediatamente precedenti alla guerra, esaminare i motivi che indussero il governo fascista prima alla scelta della neutralità nei confronti del conflitto, e successivamente all’ingresso in guerra a fianco della Germania.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, con l’aggressione della Germania nazista ai danni della Polonia, nel settembre del 1939, arriva al culmine di almeno cinque anni di tensioni internazionali, che hanno costituito la causa prima del più grande conflitto che il pianeta abbia mai conosciuto. L’equilibrio fragile e forzato, scaturito dai patti imposti – più che concordati – alle potenze sconfitte al termine della prima guerra mondiale; l’ascesa delle destre reazionarie ai vertici di importanti stati europei, a cominciare da Italia e Germania; il desiderio di rivincita e di espansione di quest’ultima, parallelamente alla riluttanza da parte dei grandi stati democratici europei (Francia e Inghilterra) a stipulare patti con l’Urss, costituirono i motivi principali delle tensioni cominciate già all’inizio degli anni Trenta. Era il 1932, per esempio, quando l’Italia di Mussolini appoggiò le rivendicazioni austriache e ungheresi ai danni la cosiddetta Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania), inimicandosi in questo modo la Francia, alleata di queste ultime. Il percorso che portò nel giugno del 1940 l’Italia in guerra, in ogni caso, è un percorso abbastanza contraddittorio, costituito da un quasi perenne appoggio all’aggressiva politica estera tedesca, ma allo stesso tempo da piccoli passi e apparenti ripensamenti, che almeno da un punto di vista di facciata, e almeno fino al 1938, tentavano di evitare una definitiva rottura nei rapporti internazionali, soprattutto con la Francia. A creare per la prima volta dei problemi seri tra l’Italia e le potenze che erano uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale, in realtà, fu l’intervento fascista in Etiopia nell’ottobre del 1935. Le sanzioni economiche che furono imposte all’Italia, però, furono piuttosto blande, e nel maggio del ’36 Mussolini poté annunciare in pompa magna la rinascita dell’Impero italico, (che comprendeva anche le antiche colonie di Eritrea e Somalia), nella denominazione di “Impero dell’Africa Orientale Italiana”. In maniera parallela alle difficoltà che andavano nascendo nei rapporti con Francia e Inghilterra, Mussolini rafforzò i propri legami con la Germania di Hitler: pochi mesi dopo la proclamazione dell’Impero, infatti, l’Italia siglò con lo stato nazista prima l’alleanza nota come Patto Roma-Berlino, e poi contribuì a estendere questa stessa alleanza al Giappone. Va detto, però, che come l’Italia non aveva intenzione di rompere con Francia e Inghilterra, anche queste ultime provarono fino all’ultimo istante utile a salvare i rapporti con la Germania, per non doversi trovare nelle condizioni di sottoscrivere delle alleanze con l’altra grande potenza est-europea, quell’Unione sovietica che incarnava per le democrazie continentali il pericolo comunista. Francia e Inghilterra, per esempio, non fecero certo la voce grossa per provare a impedire l’invasione dell’Austria da parte della Germania nel marzo del ’38, decidendo di intervenire soltanto quando nei piani di Hitler si palesò la possibilità di annettere anche la Cecoslovacchia. A quel punto, fu proprio Mussolini a mostrare un atteggiamento di equilibrio e di mediazione, che in realtà si poneva a netto favore della diplomazia tedesca e di conseguenza dell’intervento in Cecoslovacchia. La conferenza internazionale a Monaco, con cui il duce provò a mediare tra Germania e l’accoppiata anglo-francese fu un fallimento, ma Mussolini riuscì a conservare ancora per qualche tempo una posizione di apparente neutralità, che gli sarebbe stata necessaria in seguito, per organizzare il proprio schieramento. Proprio mentre Hitler invadeva la Cecoslovacchia, d’altronde, l’Itaila occupava l’Albania, e cosa ancor più importante, stipulava con la Germania il Patto d’acciaio, che implicava l’intervento militare di una delle due parti nel caso in cui “l’altra si trovasse implicata in operazioni belliche con una o più potenze”. L’accordo, come si può notare, non dettava alcuna condizione riguardo un intervento soltanto a scopo difensivo, e di conseguenza rappresentava un innegabile volontà da parte di entrambe le potenze, ad essere una al fianco dell’altra in una guerra ormai pronta a scoppiare. Se questo non avvenne, nel settembre del ’39, quando Francia e Inghilterra decisero di opporsi all’avanzata tedesca in Polonia, non fu per un desiderio o una scelta di neutralità dell’Italia nei confronti del conflitto che coinvolgeva l’alleato germanico, ma per una necessità materiale, quale quella di organizzare in maniera adeguata (sia dal punto di vista militare che industriale) l’ingresso del paese in un conflitto che si prospettava dall’incerta durata. La propaganda fascista, infatti, aveva nel corso degli ultimi mesi fatto largo uso di un linguaggio e di una spavalderia militare tutt’altro che corrispondente alle reali potenzialità dell’esercito italiano, a cominciare dal celebre richiamo agli “otto milioni di baionette” pronte a scendere sul campo di battaglia. Soltanto il 10 giugno del 1940, però, Mussolini – forte anche delle vittorie del suo alleato in Francia – decise di inoltrare le dichiarazioni di guerra agli ambasciatori di Francia e Inghilterra. Il duce, infatti, era convinto che una volta piegata definitivamente l’esercito transalpino, anche l’Inghilterra avrebbe cercato un compromesso per chiudere in breve tempo il conflitto. Il tempo “guadagnato” sugli alleati, però, nel tentativo di organizzare militarmente il paese, si rivelò tutt’altro che prezioso, tanto che nella prima offensiva italiana (sulle Alpi, contro la Francia) il conflitto presentò un esito disastroso, quale seicento morti, tremila feriti e più di duemila “congelati”. Quest’ultimo dato, in particolare, è utile per dare l’idea di come nonostante l’attesa, l’Italia si sia lanciata in maniera assolutamente inadeguata in un conflitto di portata mondiale, destinato a proseguire per ulteriori cinque anni dal momento del suo ingresso in guerra.

Il miracolo economico e l’immigrazione verso il nord del Paese.

Nel ventennio 1951-1971 milioni di italiani si trasferiscono dal sud al nord del paese, e dalle campagne alle città sempre più industriali. Questo fenomeno determina un rimescolamento della popolazione italiana, e una serie di conseguenze di tipo economico e sociale. Si analizzino, in particolare, i profondi mutamenti culturali e mentali, ma anche la questione della trasformazione dei consumi, e la nascita delle nuove abitudini metropolitane.

Gli anni Cinquanta furono per l’Italia, come per la maggior parte degli altri paesi occidentali, una fase di grande crescita industriale. I settori che maggiormente si svilupparono in questa fase furono la siderurgia, la chimica, e l’industria meccanica leggera, quella vasta gamma di produzioni che va dagli elettrodomestici fino alle automobili. La grande espansione industriale continuò senza sosta fino alla metà degli anni Sessanta, per poi ricominciare – dopo un breve periodo di recessione – e articolarsi, seppur in maniere differenti ed eterogenee, fino agli inizi dei Settanta. La crescita delle produzioni, in ogni caso, così come l’aumento della domanda estera e la crescente diversificazione di quella interna, furono causa di una crescita importante per l’intero paese, che riuscì a trarre un’importante giovamento da questa condizione economica favorevole, e rilanciarsi a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Una cosa che va sottolineata, però, è come questa grande crescita portò con se alcune problematiche rilevanti, che avrebbero segnato l’evolversi della società italiana per i successivi decenni. Anche solo durante la prima fase del cosiddetto “miracolo economico”, per esempio, il numero di operai salì vertiginosamente, da cinque a sette milioni, in meno di dieci anni. La necessità di una forza lavoro, non necessariamente qualificata, era forte, e questo costituì un’occasione per tanti lavoratori che dalle città meridionali – dove l’espansione industriale non era arrivata, o quantomeno era arrivata in maniera molto diversa rispetto al nord del paese – si spostarono verso quelle settentrionali. Città come Milano, Torino e Genova si riempirono in pochi anni di operai provenienti da Napoli, dalla Sicilia, dalla Calabria. Non pochi, ovviamente, furono i problemi e le situazioni di difficoltà nelle quali gli emigranti si vennero a trovare, dovendo fare i conti con una condizione di vita non sempre agevole, spesso lontani dalla famiglia, e in troppi casi costretti a misurarsi con un sentimento di razzismo ancora molto lontano dall’essere piegato. Lo stesso tipo di migrazioni che avvenivano dal sud al nord del paese, si sviluppavano dalla campagna verso le città. Tutto questo, fece si che nel paese si sviluppasse un’economia che i tecnici definiscono “duale” o “bivalente”: abbastanza sviluppata e diversificata per quanto riguarda la parte settentrionale del paese, e arretrata al sud, dove agli insediamenti industriali non certamente diffusi come nel resto d’Italia, si aggiungeva una grossa difficoltà anche per il mondo rurale, che doveva fare i conti con una diminuzione della mano d’opera e con un livello tecnologico decisamente insufficiente. Nell’intero decennio dei Cinquanta, insomma, l’Italia si stava velocemente trasformando da paese agricolo a paese industriale, tanto che nel ’58 il numero degli operai superò, per la prima volta, quello dei contadini. Allo stesso tempo, nonostante le innegabili difficoltà del meridione ad agganciarsi al treno dell’industria del nord (i grandi stabilimenti industriali meridionali, apparivano, come nei casi di Taranto e dell’Alfasud a Napoli, più cattedrali nel deserto che impianti capaci di “trainare” l’intero comparto produttivo locale), tanti furono i cambiamenti, conseguenza del crescente benessere, che attraversarono il paese. Innanzitutto dal punto di vista dei consumi: dopo anni di grossa difficoltà, infatti, la popolazione italiana cominciava a conoscere, seppure (come accennato) con molte discrepanze e molte necessarie differenziazioni, un livello di benessere discreto. I consumi alimentari, per esempio, furono tra i primi a cambiare (a cominciare da quello della carne), seguiti da quelli dei beni “non primari”. Tra questi, su tutti, lo sviluppo della televisione, che contribuì in maniera importante all’alfabetizzazione e a una crescita culturale di base (seppur massificata) di una importante fascia di popolazione. Programmi come il Festival di Sanremo, la Domenica sportiva, la Tribuna politica, diventarono un vero e proprio punto di riferimento per il paese, e contribuirono all’unificazione linguistica nazionale come forse mai niente e nessuno era riuscito a fare fino a quel momento. Allo stesso tempo, molti furono i cambiamenti nel modo di vivere delle persone: la diffusione delle automobili (e in una fase successiva della Vespa Piaggio), passate da prodotto d’élite a prodotto di massa, accentuarono un processo di cambiamento per quanto riguarda le abitudini e il modo di vivere la città, in particolar modo per quanto riguarda i giovani. Gli spostamenti all’interno di una grande metropoli erano diventati improvvisamente molto più facili, e la diffusione delle “attività sociali” (night club, ristoranti, cinema, ma anche associazioni, sezioni di partito) incisero in maniera importante sulla dilatazione degli orari e sulla quantità di attività con cui le persone impiegavano il proprio tempo libero. L’Italia, insomma, tra il 1950 e il 1970, in particolar modo nel corso degli anni del boom, si accingeva a diventare un paese moderno. Lo faceva non senza pagare alcun prezzo, a cominciare dalle condizioni non sempre favorevoli (salari tra i più bassi d’Europa) in cui si trovavano a lavorare e a vivere gli operai (spesso migranti) delle grandi città, condizioni che furono determinanti a far si che i prodotti italiani avessero una forza rilevante sui mercati continentali. Lo faceva pagando il prezzo della disuguaglianza tra nord e sud del paese, tema che sarebbe esploso in maniera definitiva e non più occultabile dopo qualche anno. Lo faceva pagando il prezzo di un cambiamento dell’economia, da agricola a industriale, che avrebbe lasciato anch’essa dei segni importanti. Si tratta, però, di una crescita che fu all’epoca necessaria, e senza la quale il paese sarebbe rimasto inevitabilmente e clamorosamente indietro rispetto alle altre nazioni europee. Forse, se insieme a quella crescita, fossero stati fatti investimenti tali da promuovere un vero sviluppo del mezzogiorno e una vera politica di riequilibrio delle risorse e delle possibilità, anche una buona parte dei problemi con cui l’Italia deve fare i conti allo stato attuale, potrebbero essere affrontati in maniera assai più facile.

Il Novecento tra progresso e tragedie storiche

I due volti del Novecento. Da un lato esso è secolo di grandi conquiste civili, economiche, sociali, scientifiche, tecniche; dall’altro è secolo di grandi tragedie storiche. Rifletti su tale ambivalenza del ventesimo secolo, illustrandone i fatti più significativi.

Il Novecento è stato un secolo pieno di eventi straordinari, movimentato e turbinoso. L’hanno caratterizzato due guerre mondiali, i grandi genocidi e l’olocausto, una guerra fredda, la minaccia della bomba atomica, il crollo del Muro di Berlino. Lo storico inglese Hobsbawm ha definito questo secolo “breve”, per la densità di questi grandi eventi che si sono concentrati in così poco tempo, e che hanno contribuito a modificare gli assetti politici ed economici del mondo, ma anche la mentalità degli esseri umani. Non possiamo però separarlo totalmente dai secoli precedenti, perché i germi della grande fabbrica, dell’industrializzazione, dello stato sociale, dei partiti, del dualismo nord-sud, del femminismo e delle organizzazioni di massa sono già presenti nel XIX secolo. Il Novecento vide come fenomeno l’avvento della società di massa, presente già nel XIX secolo, mentre iniziavano i processi di industrializzazione, il quale ha mutato la vita dell’uomo e l’organizzazione della società. Ovviamente una grande mobilitazione di massa si ebbe nelle guerre mondiali, di natura militare. Poi ci furono le mobilitazioni operaie e a quelle dei partiti ideologici, che occupavano le piazze con le loro proteste per far valere i propri diritti. I protagonisti della storia furono proprio questi movimenti di massa, i partiti, insieme allo stato, le industrie, le banche. La società industriale, la tecnologi applicata all’economia dei consumi, il carattere globale della vita dell’uomo, l’alfabetizzazione crescente produssero una nuova mentalità, con nuovi comportamenti e interessi. Oltre al totalitarismo politico, il Novecento fu scenario di un totalitarismo di modi di vivere: con l’avvento dei mass media si ridussero le differenze di linguaggio, tradizioni e vita locale. Per esempio, chi prima conosceva solo il dialetto locale, con la diffusione della televisione e della radio riuscì a conoscere l’italiano, e gradualmente l’uso del dialetto venne abbandonato. Dopo la Prima Guerra Mondiale lo stato diventava sempre più presente nella vita dei cittadini, e la sua collettività e socialità comprimeva le singole comunità. Questa visione della stato si sviluppò nel corso degli anni Trenta, ma con la caduta del Muro di Berlino avvenne anche la fine dello stato imprenditoriale. Altro evento fu la velocizzazione dell’informazione, affidata a strumenti tecnologici sempre più avanzati. I nuovi mezzi di comunicazione, le ferrovie, le navi a vapore, gli aerei, il telegrafo senza fili infatti, abbreviarono i tempi e resero più veloci scambi, incontri, colloqui. Con la scoperta di Internet poi si sono superati i limiti dello spazio, prima insormontabili. All’inizio del secolo l’Europa era al centro del mondo, ricca di industrie avanzate, piena si personaggi che contribuirono all’affermazione delle scienze esatte, con un commercio avanzato, il sistema bancario affermato, pullulante di letterati e artisti. Anche la Chiesa aveva un ruolo in questa epoca piena di fermenti: basti pensare all’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che invitava i cattolici ad impegnarsi di più nelle società. Creatività e inventiva furono i privilegi dell’Europa del Novecento, cosciente della sua superiorità culturale e civile. Anche gli Stati Uniti erano in grado di competere con l’Europa in questi ambiti, tanto che già dopo la prima guerra potevano considerarsi superiori. Componenti di questo periodo non furono solo il progresso scientifico e civile, ma anche tragedie ed avvenimenti che coinvolsero tutto il mondo. Le tensioni tra i gli stati, il desiderio di supremazia, furono seguite da due guerre mondiali. Ma questa fu anche l’epoca dei regimi totalitari, dell’affermarsi del Fascismo in Italia e Nazismo in Germania. Fu l’epoca dei grandi massacri e deportazioni di massa, a partire dall’olocausto, ma anche di massacri di interi popoli da parte di Milosevic in Jugoslavia e Saddam Hussein durante Guerra del Golfo. Ricordiamo il continuo braccio di ferro tra Russia e Stati Uniti e la Guerra Fredda. Fu anche scenario del terrorismo in Italia e dei delitti che ne seguirono, dell’affermarsi della mafia e delle atrocità commesse. Rivoluzioni per l’indipendenza percorsero il mondo: ricordiamo la lotta pacifica di Gandhi per l’indipendenza dell’India, la rivoluzione cinese di Sun Yat-sen, le lotte per l’indipendenza in Birmania, Malaysia e Indonesia, le lotte dei Kurdi, dell’Algeria e di altri stati africani. Sono tanti gli avvenimenti del XX secolo, positivi e negativi, che hanno interessato tutta l’umanità e hanno modificato modi di pensare, di vivere, politica ed economia. Grandi menti, grandi personaggi hanno tenuto le redini del gioco, realizzando con guerre, scoperte in tutti i campi del sapere la conformazione del mondo attuale, con la coscienza e mentalità dei suoi abitanti. Storia del diritto di voto in Italia Il Novecento non è solo un secolo di grandi e tragici eventi, ma anche della conquista di diritti fondamentali per la democrazia, primo fra tutti il diritto universale al voto. Ripercorri le tappe di questa conquista nel nostro paese. Dalle idee riguardo la volontà collettiva e la rappresentanza politica di Rousseau possiamo individuare le origini del diritto di voto, anche se la sua conquista non fu proprio facile. Il diritto di voto universale è la possibilità per tutti i cittadini maggiorenni di partecipare alle elezioni politiche e amministrative e di poter esprimere un proprio parere su questioni riguardanti l’intera comunità, come i referendum. Nei moderni Stati democratici i cittadini sono parte attiva del sistema politico, e con il loro suffragio universale si elegge l’organo legislativo di una nazione. Il principio del suffragio universale maschile fu introdotto negli USA nel 1776, quando essi ottennero l’indipendenza, ma aveva delle restrizioni in base all’istruzione e al censo. La Nuova Zelanda è stato il primo Paese al mondo ad introdurre il suffragio universale, per uomini e donne, nel 1893. In Europa il primo stato ad adottare il suffragio universale fu l’Inghilterra nel 1865. Qui John Stuart Mill propose di estendere il diritto di voto anche alle donne, in un programma presentato agli elettori della Gran Bretagna. In seguito fu appoggiato da uomini e donne, che lottarono per vincere questa causa, ma le donne dovettero ancora aspettare prima di ottenere il diritto di suffragio. Durante la Rivoluzione Francese nel 1789 ci furono innumerevoli manifestazioni popolari e rivolte riguardo il diritto di votare, perché questo era uno dei principi della rivoluzione e la popolazione desiderava partecipare attivamente nelle questioni della patria, con un grande sentimento nazionalistico. Per quanto riguarda l’Italia, il suffragio universale venne sancito dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1946. Un diritto inalienabile per tutti gli esseri umani, che permise anche alle donne di eleggere ed essere elette. L’eccezionalità inoltre fu data anche dall’occasione, ovvero il Referendum del 2 giugno 1946, in cui tutta l’Italia fu interpellata a scegliere tra la Repubblica e la Monarchia. In realtà il diritto di voto fu esteso alle donne, solo per le amministrative, già dal 1924. Mussolini aveva ammesso sulla carta che le donne potevano votare, dimostrando di non temere il loro voto, ma di appoggiarlo pienamente. Ma questa azione fu solo pura demagogia, perché avendo instaurato la dittatura, l’elezione non avvenne in nessun comune o provincia, ma furono imposti governatori e potestà. Il difficile viaggio che l’Italia intraprese per raggiungere l’universalità del voto cominciò nel 1866, da una legge per l’unità di legislazione della nuova Italia, che proibì il voto, allora solo amministrativo, che le donne toscane e lombardo-venete esercitavano. Nel 1881 alcuni deputati discutevano in Parlamento una nuova legge elettorale, e chiesero ufficialmente il suffragio universale, con grande opposizione di Agostino De Pretis, il quale fece un discorso alla Camera: “non credo che questa proposta avrebbe il voto favorevole se la stessa più bella metà dell’umana famiglia fosse direttamente consultata. La donna ha altri mezzi d’influenza, di azione, assai più potenti del voto!”. Questa posizione fermissima fu la stessa che nel 1912 mantenne Giolitti, il quale nel mezzo della discussione elettorale disse che concedere il voto alle donne sarebbe stato un salto nel buio, perché questo avvenimento avrebbe potuto trasformare la politica italiana completamente, e ciò non era ammissibile; questa riforma non doveva assolutamente avere luogo. Ma d’altro canto Giolitti approvò la legge n. 666 che concesse il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avevano un’età superiore a trent’anni, senza badare al censo e all’istruzione. Invece per quanto riguarda i maggiorenni al di sotto dei trent’anni, potevano votare coloro che avevano un certo livello d’istruzione e un determinato patrimonio. Arrivando dunque al provvedimento fascista del 1924, assistiamo a un periodo in cui erano frequenti le lotte per i diritti delle donne, riguardo il voto e la giusta retribuzione nel lavoro, l’istruzione obbligatoria, i diritti del campo della sanità, giustizia nel lavoro femminile e minorile. Le battaglie avevano a capo una donna di origine russa, Anna Kuliscioff, la quale era emigrata in Italia perché innamorata di Andrea Costa, il primo parlamentare socialista italiano. In seguito ebbe una storia con Filippo Turati, che era tra i fondatori del Partito dei Lavoratori Italiani. Anna fu tenace nel combattere e spesso portava avanti le sue idee da sola, nonostante si trovasse di fronte a tanti ostacoli. Molti uomini negavano l’estensione del voto alle donne a causa della loro ignoranza popolare, del loro analfabetismo, e dell’influenza che su di loro esercitava la Chiesa. Ma Anna controbatteva che se la donna avesse ottenuto l’indipendenza economica con un salario adeguato, avrebbe raggiunto una dignità uguale all’uomo e dunque poteva avere spazio nella vita sociale e soprattutto politica. Fu arrestata nel 1898 per reato di opinione e quando uscì fu abbandonata anche dal suo Partito. Anna fu un personaggio fondamentale, e grazie alle sue battaglie nel 1946 parteciparono alla vita politica della Repubblica quattro donne, Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce e Nilde Jotti, che facevano parte dell’Assemblea costituente e avevano il compito di redigere la Costituzione. Il decreto che estendeva il voto anche alle donne fu emanato il 1 febbraio 1945, su proposta di De Gasperi e Togliatti.

L’evoluzione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II

Secondo un giudizio storico largamente condiviso, con Papa Giovanni XXIII la Chiesa si lascia alle spalle le fasi più aspre della contrapposizione alla modernità, quali, ad esempio, le pronunzie del “Sillabo” e la scomunica del modernismo. Si avvia al tempo stesso un lungo travaglio, culminato nel Concilio Vaticano II, teso al dialogo ecumenico con i “lontani” e i “separati” e al confronto con un mondo aperto a moderne prospettive politiche. Illustra questa importante fase della storia della Chiesa ed il ruolo che essa ha avuto nel contesto italiano ed internazionale.

Il concilio ecumenico Vaticano II fu un grande evento nella storia della Chiesa, e si svolse in nove sessioni e quattro periodi dal 1962 al 1965. Fu indetto da Giovanni XXIII, per cercare un nuovo linguaggio con cui diffondere il messaggio cristiano nel mondo, ma egli morì nel 1963 e il concilio fu concluso da Paolo VI. Si promulgarono quattro costituzioni, tre Dichiarazioni e nove Decreti, nei quali argomenti principali furono la missione salvifica della Chiesa nel mondo, la sua natura e la sua vocazione. Possiamo definirlo ecumenico a tutti gli effetti, perché parteciparono cardinali, patriarchi e vescovi cattolici provenienti da tutto il mondo, in modo che si potessero conoscere le esigenze delle chiese non solo di rito orientale, ma anche di quelle latino-americane e africane, e si cercasse di instaurare rapporti più stretti. Inoltre parteciparono, come osservatori, anche gli esponenti delle chiese ortodosse e protestanti. Gli obiettivi che si propose di raggiungere furono la definizione più precisa del concetto di Chiesa e il suo rinnovamento, l’unione di tutti i cristiani e il dialogo col mondo moderno. Nella costituzione Dei Verbum si conferì un ruolo primario alla Bibbia sia nella vita della Chiesa che in quella dei singoli fedeli, dunque si incoraggiarono la ricerca scientifica sui testi originali e le traduzioni nelle lingue moderne. Importante è la costituzione Lumen Gentium, dalla quale emerge la nozione di “popolo di Dio” e la definizione della Chiesa come sacramento di Cristo. Il popolo di Dio, che acquisisce più importanza, è guidato dal successore di Pietro, il Papa, e dai successori degli Apostoli, i vescovi. La costituzione Sacrosanctus Concilium riguarda l’organizzazione della liturgia e della celebrazione della Santa Messa. Fu riconosciuta la necessità dell’utilizzo delle lingue correnti nella celebrazione dei Sacramenti, della Messa e nella liturgia delle Ore. Il latino restava sempre la lingua ufficiale, ma le letture e le acclamazioni potevano essere pronunciate nelle varie lingue nazionali. La costituzione Gaudium et Spes precisa le intenzioni della Chiesa di confrontarsi con il mondo e la cultura moderna, perché, anche nelle sue manifestazioni profane, è sempre opera di Dio. La Chiesa intende impegnarsi nel raggiungimento della pace, giustizia nel mondo, ma anche nella scienza e libertà. Il decreto Unitatis Redintegratio tratta l’unità delle confessioni cristiane, mentre la dichiarazione Nostra Aetate ha come argomento le religioni non cristiane; entrambe riconoscono “semi di verità” nelle anche Chiese cristiane e negli altri credi religiosi. Quindi, nella dichiarazione Dignitatis Humanae si proclama la libertà religiosa, ognuno è libero di professare il proprio credo e la fede non deve essere imposta con la forza. Tra le principali riforme del concilio, quella della liturgia è la più evidente. Si abbandonò il latino e si eliminarono alcune parti del rito. Gli altari furono staccati dalle pareti e di conseguenza anche il sacerdote si spostò, e si rivolse verso i fedeli, mentre prima volgeva loro le spalle ed era voltato verso il crocifisso. Inoltre furono più frequenti i contatti con le altre confessioni cristiane, come la Chiesa Ortodossa, la Comunione Anglicana e la Federazione Luterana Mondiale. Migliorarono i rapporti con l’Ebraismo: ricordiamo infatti la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986, e quella di Benedetto XVI nel 2010. Fu Paolo VI che cercò di conciliare la spinta alle modernizzazioni con le esigenze cristiane e il messaggio evangelico. Il Papato assunse una nuova forma storica, non più espressione di un potere accentrato, ma acquisì una prospettiva più apostolica ed ecumenica, con insegnamenti universali e rivolti a tutta l’umanità. Chi attuò in pieno i propositi del concilio fu Papa Giovanni Paolo II, accentuando i richiami alla fraternità e il carattere ecumenico della Chiesa. L’azione e la presenza del Papa si estense a livello internazionale, con al centro la difesa dei diritti umani, denunciando politiche e strutture sociali ingiuste nei confronti della dignità umana. Giovanni Paolo II viaggiò in Africa, in Asia, negli Stati Uniti, e poté apprendere le difficoltà e le contraddizioni presenti nelle Chiese cattoliche di queste nazioni. Il sottosviluppo, diceva Giovanni Paolo II, va combattuto con la solidarietà delle nazioni ricche verso quelle povere; denunciava poi la tendenza moderna dell’uomo al solo sviluppo economico e la conseguente sottomissione al consumo. A partire da Giovanni XXIII, la Chiesa subisce una sorta di evoluzione, aprendosi lentamente verso il mondo, soffermandosi sui problemi dell’umanità e cercando di portare il messaggio del Vangelo tra tutti i popoli, tentando di proporre soluzioni. La religione cattolica assume un carattere universale, misto a tolleranza, solidarietà, difesa dei diritti umani.

Mazzini e Cavour due personaggi che hanno tentato di unire l’Italia

Per raggiungere l’unità d’Italia, due personaggi storici seguirono vie diverse. Mazzini utilizzò moti insurrezionali ponendosi come obiettivo uno stato repubblicano. Cavour invece attraverso perspicaci reti diplomatiche cercava di realizzare una stabile monarchia. Descrivi in che modo i due personaggi hanno tentato di unire l’Italia e spiega perché è prevalsa la strategia di Cavour.

Dopo il Congresso di Vienna nel 1815 furono reintrodotti i principi di legittimità e assolutismo. Piccoli gruppi di intellettuali si organizzarono in società segrete e promossero moti insurrezionali, repressi facilmente. L’Italia si trovava in arretratezza agricola e industriale, politicamente frammentata, e la lotta contro l’assolutismo si manifestò con azioni limitate dirette da società segrete. Una di queste era la Carboneria, con esponente di grande rilievo Giuseppe Mazzini. Mazzini lottava instancabilmente per l’unità nazionale italiana, fondata su ideali democratici e organizzata secondo il modello repubblicano. Nel 1831 fondò la Giovine Italia e nel 1834 la Giovine Europa. Il suo programma iniziò a definirsi dopo l’insuccesso dei moti del 1830-31, poiché la Carboneria non era capace di sviluppare un efficace progetto rivoluzionario. Mazzini sosteneva che era illusorio fidarsi dei sovrani italiani, perché avevano una concezione assolutistica del potere. Inoltre i progetti di cambiamento politico dovevano essere sostenuti da una grande partecipazione del popolo, quindi occorreva una propaganda maggiore. La popolazione andava convinta razionalmente ma anche coinvolta emotivamente attorno a questo obiettivo politico. Il progetto doveva dunque mobilitare le energie di tutta la penisola, il cui popolo formava una comunità ideale celebrata dal romanticismo. Il piano prevedeva l’indipendenza dallo straniero, l’unificazione italiana e l’organizzazione in forma repubblicana. Il programma mazziniano però aveva però dei limiti. La sua diffusione rimase circoscritta ai ceti intellettuali e artigiani delle città centro-settentrionali, trascurando il mondo contadino, del quale non vide la drammatica povertà sia materiale che morale. I moti promossi dai mazziniani si rivelarono irrealizzabili, dunque si risolsero in clamorosi fallimenti. Soprattutto, vi era una contraddizione di fondo nell’impostazione democratica di Mazzini. Egli diceva di essere sostenitore dell’iniziativa popolare, e il suo concetto di popolo aveva caratteristiche particolari, inteso secondo la visione del romanticismo: l’intera comunità nazionale unita da vincoli storici e spirituali, lingua, costumi, religioni. Ma nell’Ottocento con popolo si indicava la parte più povera della società, che in Italia costituiva la maggioranza. Coinvolgere le masse popolari significava comprendere le loro aspirazioni, e nella realtà rurale dell’epoca significava attuare norme che distribuissero terre ai contadini. Ma su questo, come su altre iniziative sociali, Mazzini rimase reticente per paura di sollevare contrasti di interessi tra le varie fasce di popolazione, dunque di infrangere quell’unità di popolo necessaria per realizzare l’unificazione politica. Bisognava dunque superare alcuni limiti e promuovere un’attività insurrezionale basata su un’iniziativa popolare più ampia possibile, ma questa caratteristica essenziale mancava nelle iniziative di Mazzini. Il progetto di Mazzini poi si basava su una rivoluzione solamente politica, mentre era necessario anche un cambiamento sociale. Ben diversa fu la strategia adottata da Camillo Benso, conte di Cavour, divenuto presidente del consiglio in Piemonte nel 1852. Cavour seppe stringere un accordo politico fra i liberaldemocratici e lo schieramento democratico più propenso a collaborare con la monarchia. Nel parlamento si creò un’ampia maggioranza favorevole al governo, trasformando il regno sabaudo in una monarchia parlamentare. Inoltre l’appoggio delle forze politiche gli consentì di attuare riforme liberamente. In campo economico abbassò le tariffe doganali, potenziò il sistema bancario, promosse opere pubbliche, attuò la riforma fiscale. Nel campo amministrativo consentì anche ai ceti medi di accedere alle cariche più alte, eliminò i privilegi ecclesiastici e dichiarò il principio della separazione tra chiesa e stato. Potenziò poi l’esercito e la marina militare, per i progetti di espansione del regno sabaudo. Inizialmente Cavour infatti voleva solo espandere il regno di Sardegna verso est, nel Lombardo-Veneto austriaco, e per realizzare questo obiettivo occorreva una complessa azione diplomatica. Per fronteggiare l’Austria rafforzò i legami con Francia e Inghilterra, accettando l’invito a partecipare alla guerra di Crimea, così durante il congresso di pace poté sollevare i problemi di oppressione della penisola. L’attivismo di Cavour attirò l’attenzione dei democratici italiani che da tempo premevano per iniziative politiche attente alle masse popolari, ed erano inoltre d’accordo sulla prospettiva di un’azione militare contro l’Austria. Con gli accordi di Plombières Cavour convinse Napoleone III ad offrire appoggio militare al Piemonte contro l’Austria, sostenendo che in questo modo l’Impero asburgico si sarebbe ridotto e sarebbe stato meno potente. Inoltre la Francia avrebbe ottenuto Savoia, Nizza e la possibilità di esercitare la sua influenza anche sul Centro e il Sud Italia. Dopo la seconda guerra d’indipendenza dunque, nel 1859, furono annesse al Regno di Sardegna la Toscana e l’Emilia, e il quadro politico della penisola si era modificato, rimanendo il Regno di Sardegna, l’Impero austriaco in Veneto, lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Nel 1860 Garibaldi organizzò la “spedizione dei Mille” nel Regno delle Due Sicilie. Sbarcò dapprima in Sicilia e liberò l’intera isola, e poi sul continente i Mille sconfissero a Napoli l’esercito borbonico. Intervenne Cavour, inviando truppe nelle Marche e in Umbria contro le truppe pontificie, e proseguì verso sud ricongiungendosi con Garibaldi, il quale gli consegnò i territori liberati. Nel 1861 dunque fu proclamato il Regno d’Italia, con capitale Torino e re Vittorio Emanuele II. L’Unità fu poi completata con l’annessione al Regno del Veneto nel 1866 e del Lazio nel 1870.

L’olocausto

Tra gli eventi tragici del XX secolo emerge in particolare l’olocausto degli ebrei. Spiegane le possibili cause, ripercorrendone le fasi e gli eventi, ricordandone gli esiti e aggiungendo riflessioni personali scaturite dall’eventuale racconto di testimoni, da letture, da film o documentari.

Divenuto cancelliere nel 1932, Hitler attuò una serie di provvedimenti, tra i quali le misure per cancellare la presenza ebraica dalla nazione tedesca. Per prima cosa furono approvate le leggi di Norimberga nel 1935, con le quali gli Ebrei che si trovavano in Germania persero il diritto di cittadinanza, furono limitati nell’esercizio del loro lavoro, e fu proibito loro di contrarre matrimonio con gli “ariani”, per mantenere puro il sangue tedesco. Nel novembre del 1938, prendendo come pretesto l’attentato di un Ebreo a un ufficiale tedesco, in tutte le grandi città tedesche furono organizzate spedizioni punitive molto violente, durante le quali vennero distrutte proprietà, luoghi di culto e abitazioni. L’episodio passò alla storia come “notte dei cristalli”, nella quale furono uccisi un centinaio di Ebrei e furono arrestate e deportate circa 35000 persone. Inoltre, lo stato chiese alle comunità ebraiche il risarcimento per i danni arrecati alle strutture pubbliche durante questa spedizione. Col passare del tempo la vita degli Ebrei divenne sempre più difficile; essi vennero esclusi dalla vita pubblica cittadina, non potevano entrare nei teatri, nei campi sportivi, avevano scompartimenti riservati nei treni, dovevano vivere in appositi edifici. Sembrava che il governo tedesco volesse spingerli ad abbandonare la Germania, dopo averli spogliati di tutti i loro averi, ma verso il 1939 l’antisemitismo nazista si fece sempre più acre e si orientò verso la cosiddetta “soluzione finale”. Fu vietato agli Ebrei di uscire fuori dai confini della Germania, e seguirono deportazioni di massa e la reclusione nei Lager, nei quali avvenne uno sterminio di massa. Durante la seconda guerra mondiale, queste misure furono adottate anche nei confronti degli Ebrei che vivevano nelle nazioni sotto il dominio nazista. In tedesco Lager significa “campo”, nel senso di “accampamento”, ma anche “deposito”. Con l’avvento del nazismo il termine assunse un significato negativo. Il primo campo di concentramento fu aperto a Dachau, nel 1933, per ospitare provvisoriamente militanti comunisti e socialisti considerati un pericolo per la sicurezza dello stato. In seguito i campi accolsero anche obiettori di coscienza, omosessuali ed Ebrei, che durante la seconda guerra mondiale furono i principali deportati. E in questo periodo i Lager assunsero il ruolo di campi di lavoro, in cui la manodopera si sfruttava a costo zero, e soprattutto di campi di sterminio, in particolare per attuare la totale eliminazione degli Ebrei. Alla fine della guerra, spettacoli orribili si presentarono agli occhi delle truppe alleate e sovietiche quando avanzarono in Germania, nei luoghi dove si trovavano questi campi di sterminio. Al processo di Norimberga, in cui si condannarono i capi del Nazismo, le vicende di questi luoghi degli orrori vennero ricostruite dettagliatamente, dal momento in cui si decise il totale annientamento degli Ebrei. Anche nei paesi occupati dalla Germania si costruirono campi di concentramento, nei quali gli Ebrei furono ridotti alla fame, torturati e uccisi. Il più noto è Auschwitz, in Polonia, che aveva quattro camere a gas e diversi forni crematori. I deportati provenivano da tutta Europa, e venivano fatti viaggiare in vagoni merci e, una volta giunti a destinazione, la maggior parte di loro veniva condotta direttamente alle camere a gas. Sulle porte di queste vi era la scritta “bagni”, e la gente vi entrava al suono di musiche soavi, illusa di rilassarsi. I loro corpi poi venivano bruciati e i denti d’oro raccolti e inviati alla Reichsbank. L’esperienza del campo di concentramento è oggetto di una grande produzione scritta, già attiva dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Tra gli autori principali ricordiamo Primo Levi, chimico torinese di origine ebraica, deportato ad Auschwitz nel 1944 a causa della sua attività di partigiano. Il suo romanzo Se questo è un uomo, racconta sotto forma di diario la prigionia dell’autore, e descrive con estrema lucidità il sistema del campo, basato sul potere e sulla prevaricazione, tanto che anche tra i prigionieri esisteva una forma di gerarchia. Traspare dalle descrizioni del romanzo una disumanizzazione dell’uomo, umiliato da ritmi di lavoro distruttivi, privato dell’esercizio e dell’ascolto dei propri sentimenti ed emozioni. Rudolf Hoss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, riportò la sua testimonianza in Comandante ad Auschwitz, una sorta di confessione sulle crudeltà a cui aveva partecipato. Il colonnello descrive come gli Ebrei venivano trasportati fino al campo, la dolcezza con cui i militi si rivolgevano loro per non destare sospetti. Se qualcuno di loro era troppo irrequieto, veniva prelevato e ucciso in un luogo appartato, in modo che nessuno se ne accorgesse. Appena arrivati, i deportati venivano spogliati e disinfestati, e questa operazione doveva avvenire in assoluta tranquillità e con le buone maniere, con lo scopo di ingannarli su ciò che stava per accadere. Tra i militi vi erano anche Ebrei, in modo che questi potessero raccontare cose positive sul campo e i prigionieri si potessero fidare. Molto cruda è la descrizione di Oliver Lusting, uno dei pochissimi sopravvissuti ad Auschwitz, che in Dizionario del Lager racconta le atrocità che i prigionieri subirono, sotto forma di dizionario. Oltre allo sfruttamento riguardo il lavoro, la morte immediata nelle camere a gas, nei campi di concentramento si praticavano esperimenti sul corpo umano. A Dachau si sperimentava quanto un uomo riuscisse a sopravvivere immerso in una vasca di acqua gelida. A Buchenwald i prigionieri venivano legati ad una sedia e ricoperti da migliaia di pidocchi contaminati da tifo. Ad Auschwitz le donne venivano sottoposte senza anestesia all’esportazione delle ovaie, gli uomini venivano sterilizzati dalle radiazioni o castrati. Si sperimentava inoltre il trapianto osseo, l’incancrenirsi di piaghe aperte e si infieriva sulle ustioni col fosforo, si sperimentava quanto un uomo può sopravvivere a calci e pugni e quanto può correre con un macigno di 30 kg prima di cadere a terra morto. Tra le riproduzioni cinematografiche più recenti riguardo l’olocausto, possiamo ricordare Il bambino con il pigiama a righe, di Mark Herman, ripreso dall’omonimo romanzo di John Boyne. Si narra la storia di Bruno, il figlio di un ufficiale nazista, che incuriosito dalla gente che stava in un recinto e che portava strani indumenti a righe, tutti uguali, un giorno riesce ad avvicinarsi e fa amicizia con un bambino, ma ciò avrà tragiche conseguenze. E’ un modo diverso di narrare le crudeltà del periodo, attraverso la visione e la psicologia dei bambini. C’è chi pensa che queste crudeltà siano pura invenzione ed esagerazione, ed è anche plausibile, perché è difficile credere che un uomo riesca ad essere così crudele e spietato nei confronti di esseri umani, riducendoli e trattandoli come cavie da laboratorio o macchine da lavoro. Purtroppo tante sono le testimonianze dirette, sia dal lato dei carnefici che dal lato delle vittime. E come fu detto nel processo di Norimberga, dovranno passare millenni prima che la Germania possa scontare la pena di un simile massacro, e quando saranno passati tutti questi secoli, ancora non l’avrà ancora scontata del tutto.

Democrazia e totalitarismi nel primo dopoguerra

Mentre in Italia e in Germania la democrazia non riuscì a sopravvivere ai traumi sociali ed economici del primo dopoguerra, lasciandosi sopraffare da regimi totalitari, in Francia e in Inghilterra, pur in presenza di instabilità politica e di una profonda crisi istituzionale, le forze democratiche seppero resistere ad ogni tendenza autoritaria. Sviluppa l’argomento, illustrando le ragioni di comportamenti e risultati così differenti.

Il primo Dopoguerra è un periodo di crisi economica e politica, con risultati differenti nei diversi Paesi colpiti. Nella crisi italiana, il movimento fascista di Benito Mussolini concesse uno sbocco politico ai timori e alle delusioni delle forze conservatrici e nazionaliste. Mussolini giunse al governo nel 1922, ottenne la maggioranza parlamentare nel 1924 e, grazie al suo attivismo antisocialista violento e intimidatorio, sciolse i partiti e nel 1926 instaurò la dittatura. Nel campo economico adottò una politica dirigistica, in modo da stabilizzare la moneta e recuperare prestigio internazionale; inoltre avviò grandi opere pubbliche e costituì l’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Per quanto riguarda la politica estera, collaborò con le potenze vincitrici, ma con l’attacco all’Etiopia nel 1935 fu isolato politicamente e si alleò con la Germania, alleanza ufficializzata dall’Asse Roma-Berlino del 1936 e dal Patto d’acciaio del 1939. La Germania, colpita dall’enormità delle riparazioni di guerra, dalla divisione dei partiti, dai conflitti sociali e dall’inflazione, si salvò dalla rovina con la costituzione di un governo di grande coalizione e dall’avvento di capitali statunitensi. Ma verso la fine degli anni Venti questi si ritirarono e subentrò una crisi politica, economica e sociale, sfruttata da Adolf Hitler, il quale si presentò come restauratore e vendicatore dell’orgoglio nazionale umiliato. Nel 1932 fu nominato cancelliere e in pochi mesi, dopo aver sciolto i partiti, impose la dittatura. Con una grande propaganda guadagnò consensi e aizzò l’odio contro gli ebrei; avviò un programma di opere pubbliche e proclamò il diritto di espansione della Germania. Anche dove i governi democratici si dimostravano forti, le difficoltà economiche e politiche tuttavia non mancarono, determinando momenti di profonda crisi. All’inizio degli anni Venti la Gran Bretagna era la nazione europea più stabile, grazie al minimo coinvolgimento nel conflitto, combattuto all’esterno del Paese, la salda istituzione politica, l’esteso dominio coloniale, e l’annientamento della potenza tedesca. Tuttavia la situazione non era delle migliori: l’emergere di altre potenze industriali, con impianti e tecnologie più avanzate, aveva intaccato la sua egemonia economica. E anche l’impero coloniale presentava vari problemi e non garantiva un mercato che riuscisse ad assimilare la grande produzione industriale. Il difficile mantenimento di un proporzionato livello di esportazione creò vari squilibri nel sistema produttivo inglese, che provocarono una diffusa disoccupazione, smorzata in parte dai sussidi elargiti dallo stato. Ne conseguì un alto grado di conflittualità tra i sindacati, che volevano mantenere il livello del salario ottenuto durante la guerra, e gli industriali, che invece volevano abbassare il costo del lavoro per recuperare la competitività a livelli internazionale. Lo scontro sfociò nel 1926 in un lungo sciopero generale indetto dai sindacati per appoggiare i lavoratori delle miniere, che paralizzò il Paese, ma non piegò né il governo né gli imprenditori. Neanche questa fase così critica mise in crisi le istituzioni politiche inglesi, che avevano conosciuto due considerevoli novità: il suffragio femminile, limitato nel 1918 e universale dal 1928, e lo sviluppo del partito laburista, fondato nel 1906 dai sindacati e ispirato a un socialismo non marxista. Questo partito fu prima il principale partito di opposizione, poi nel 1929 fu forza di governo. Quando anche la Gran Bretagna dovette affrontare le conseguenze della crisi del 1929, era sotto la guida del laburista MacDonald, che prese dei provvedimenti: limitò i sussidi di disoccupazione, accertandosi con controlli rigorosi delle condizioni economiche dei beneficiari; svalutò la sterlina che restituire impulso alle esportazioni; introdusse i dazi doganali per difendere il mercato inglese. A causa del periodo difficile e delle scelte economiche ci furono scontri e ripartizioni all’interno del Partito laburista. MacDonald rimase solo al potere perché ricorse a una grande coalizione di governo inserendo liberali e conservatori. Ma ciò non convinse neanche i componenti del suo partito, e nel 1935 i conservatori ripresero il potere con Baldwin e Chamberlain, i quali ampliarono le funzioni dello stato in senso assistenziale. Inoltre ci fu la riorganizzazione dei domini, nonostante i mutamenti politici. Nel 1922 l’Irlanda ottenne l’indipendenza, riconosciuta come stato libero. Nel 1931 fu creato il Commonwealth, che poneva su un piano di assoluta parità la Gran Bretagna e i suoi ex dominion, l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda, il Sudafrica, i quali erano politicamente indipendenti, ma restavano formalmente sudditi della corona. La Francia invece dovette risolvere le devastazioni dovute al conflitto e ricostruire l’apparato riproduttivo. Il governo conservatore, per risolvere il problema dell’occupazione e della produzione, ricorse alle indennità di guerra che la Germania doveva corrisponderle. Inoltre si diminuì la retribuzione degli operai, in modo da permettere alle imprese l’accumulo degli utili essenziali a ripristinare gli investimenti. Verso la fine degli anni Venti gli obiettivi potevano dirsi ormai raggiunti, ma anche la Francia fu colpita dalla crisi del 1929, con le solite conseguenze: calo di produzione, disoccupazione, conflitti sociali e instabilità politica, e tra la popolazione si diffuse la sfiducia verso le forze politiche tradizionali. Allora emerse il Partito comunista, ma ci furono anche organizzazioni di estrema destra che miravano a un governo di tipo fascista e si opponevano alla repubblica parlamentare. Molta influenza ebbe l’Action Francaise, un movimento tradizionalista che mirava alla ricostituzione della monarchia e al ritorno ai valori dell’ordine e gerarchia. Con l’avvento del nazismo in Germania, negli anni Trenta, il clima politico in Francia si fece più teso: alcuni vedevano il nazismo come una pericolosa minaccia, altri invece un modello di governo per far uscire il paese dalla crisi. Ci fu come conseguenza la netta divisione dei due schieramenti di destra e sinistra. Nel 1936 una coalizione di sinistra, il “Fronte popolare”, vinse le elezioni politiche e costituì un nuovo governo con Léon Blum. Nonostante le riforme, il governo non riuscì a calmare il proletariato, che chiedeva la settimana lavorativa di quaranta ore, due settimane all’anno di ferie retribuite, aumento dello stipendio, e gli imprenditori dovettero accettare tali richieste (Accordi di Palazzo Matignon). Ma questi nutrivano forti ostilità nei confronti del governo e la produzione industriale non riuscì a risollevarsi. Dunque il governo delle sinistre cadde nel 1937, e la Francia riprese ad essere governata da deboli forze di coalizione, in preda a profonde divisioni e conflitti. Proprio la scarsa stabilità politica delle due nazioni, l’alternarsi tra governi socialisti e conservatori, impedì il nascere di forze di tipo nazista e fascista. Dunque è un fatto positivo per la democrazia, perché il partito che si trova al governo sa che se non amministrerà bene, gli elettori alle prossime elezioni voteranno il partito di opposizione. Ciò è anche uno stimolo a governare bene.

L’emancipazione femminile in Italia

Uno dei fenomeni più significativi del Novecento è la presa di coscienza dei propri diritti da parte delle donne, prima nei paesi più avanzati come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e poi negli altri paesi occidentali. Dalle rivendicazioni del diritto di voto agli appelli sempre più chiari e vigorosi per l’uguaglianza con gli uomini in tutti i settori della vita economica e civile. Il principio delle “pari opportunità” è stato il vessillo delle lotte femminili. Illustra le fasi e i fatti salienti che hanno segnato il processo di emancipazione femminile nel nostro paese facendo possibilmente anche riferimento a canzoni, film, pubblicazioni e a qualunque altro documento ritenuto significativo.

La presa di coscienza delle donne di poter avere un ruolo nella società avvenne intorno al XVIII secolo, ma ebbe risultati significativi solo nel XX secolo, con mutamenti nelle coscienze femminili, nei loro comportamenti, nella famiglia e nel lavoro. Ciò rivoluzionò i valori tradizionali e definì meglio il ruolo femminile in tutti gli ambiti, non solo pubblici, come nella politica, il lavoro e la scuola, ma anche nella sfera privata, nel rapporto col coniuge e i figli. Tra il 1790 e il 1920, le donne riuscirono a conquistare spazi in politica e nella società fino a quel momento vietati: il voto, accesso a tipi di istruzione e lavori maschili, libertà nei costumi e quindi nell’abbigliamento, diversa gestione del tempo libero. In seguito, dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta, vennero elaborate teorie femministe, e in questo modo si rafforzò l’identità femminile e si misero in discussione diverse istituzioni sociali e valori dominanti. Fu durante l’Illuminismo che sorse la questione femminile in Europa, nel momento in cui circolavano le idee di uguaglianza e libertà. Nella Rivoluzione Francese una scrittrice, Olympe de Gouge, propose all’Assemblea costituente una dichiarazione dei diritti della donna, in cui rivendicava i suoi diritti naturali e il desiderio di sfuggire alla potestà maschile, e dunque chiedeva una legge che regolasse i rapporti. Anche le donne, dotate di cervello, avevano il diritto di esprimere i propri pensieri, di essere inserite nella politica e di poter svolgere qualsiasi lavoro. Ma la scrittrice, qualche anno dopo, venne processata e condotta alla ghigliottina, poiché aveva affermato che anche il re aveva diritto ad avere una difesa, e aveva dimenticato i doveri e le virtù femminili. Perciò l’Assemblea respinse le richieste di uguaglianza tra i due sessi, e più tardi, il Codice Civile Napoleonico del 1804 ribadiva l’inferiorità della donna. In Gran Bretagna emergeva un’altra figura di rivoluzionaria, Mary Wollstonecraft, che nel 1792 pubblicò un’opera in cui evidenziava la profonda disparità tra i due sessi, e pretendeva il diritto all’istruzione, al lavoro e alla vita pubblica. Mary era una donna anticonformista, con atteggiamenti liberi anche nella vita privata, e la sua opera è enumerata tra i testi più alti non solo riguardo la questione femminile, ma soprattutto viene inserita nella letteratura che riguarda il rispetto e la tolleranza tra gli esseri umani. Proprio in Inghilterra il movimento femminista si affermò in modo più solido, nel periodo della rivoluzione industriale, in cui le differenze sociali, anche nell’organizzazione familiare, divennero sempre più marcate. Le donne furono inserite nel lavoro in fabbrica, però come succedeva nel caso dei bambini, venivano sfruttate e sottopagate. Ma il fatto di percepire un salario, sebbene minimo, e il fatto di svolgere compiti prima assegnati solo a uomini, portò alla presa di coscienza di poter acquisire diritti, poiché non erano adatte ad essere solo mogli e madri. Nacquero movimenti organizzati atti a rivendicare diritti sociali e politici: il suffragio, la possibilità di frequentare tutte le scuole e tutte le università, rispetto nel lavoro. La presa di coscienza dell’identità femminile cominciò tra donne borghesi, istruite e appartenenti a movimenti politici democratici, e in seguito penetrò nelle classi operaie e in generale tra le lavoratrici, con la richiesta soprattutto della parità salariale. Ci furono scontri violenti in Gran Bretagna; possiamo ricordare per esempio la leader del movimento femminista, Emmeline Goulden Pankhurst, che fondò la Women’s Social and Political Union, e che ricorse a dimostrazioni in pubblico, cortei in Parlamento, scioperi della fame e tentativi criminosi ad edifici pubblici. Le svolte si ebbero durante la Prima Guerra Mondiale, in cui le donne prendevano il posto degli uomini impegnati nel conflitto; quando la guerra terminò, le donne inglesi ottennero il diritto di voto, seguite dalle tedesche che poterono votare nel 1919, e dalle americane nel 1920. Non dobbiamo dimenticare che nel 1908, negli Stati Uniti, alcune operaie di un industria tessile, in seguito a uno sciopero, furono rinchiuse nella fabbrica dal proprietario, ma in seguito allo scoppio di un incendio le operaie morirono. L’episodio avvenne l’8 marzo, e quel giorno fu celebrato come “Festa della donna” prima solo negli USA, poi divenne simbolo dei maltrattamenti nei confronti delle donne a livello mondiale. In Italia il movimento femminista si manifestò in ritardo, sia a causa della situazione politica arretrata, sia a causa del ruolo predominante della Chiesa Cattolica, che sosteneva l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo. Nonostante ciò, nel 1881 nacque per opera di Anna Maria Mozzoni un primo movimento a difesa dei diritti femminili. Ambigua era la posizione dei socialisti, che da un lato aveva accolto donne nel partito e appoggiava le loro battaglie, dall’altro le relegava ancora all’ideale di moglie e madre. Fu Anna Kuliscioff che ottenne più attenzioni nel partito e lottò tenacemente per il diritto di elezione, ma le Italiane dovettero aspettare il 1946 per poter votare. Il regime fascista infatti ostacolava il lavoro femminile e si oppose alla loro emancipazione. Tuttavia anche le donne avevano le loro organizzazioni: i Fasci Femminili, le Piccole Italiane e le Giovani Italiane, le Massaie Rurali. Ma le funzioni di questi gruppi erano la valorizzazione della vita domestica, e focalizzava l’attenzione sul ruolo di madre e moglie fedele. Questa ottica maschilista dovette ridimensionarsi durante il secondo conflitto mondiale, quando le donne ricoprirono ruoli maschili nella vita pubblica, e di conseguenza ci fu la svolta del 1946 nel referendum tra monarchia e repubblica. Furono elette ventuno donne nell’Assemblea costituente e quattro ebbero l’incarico di redigere la Costituzione, la quale ribadiva l’uguaglianza tra i sessi nella famiglia e nella società. Bisognava modificare però il Codice civile, che affermava il potere supremo del capo famiglia, ma questo avvenne nel 1975. Tra le altre riforme possiamo annoverare la tutela delle madri lavoratrici del 1971, la legge sul divorzio del 1974, la parità sul lavoro del 1977 e la legge sull’aborto del 1978. Ci volle molto tempo perché i cambiamenti nella mentalità generale avvenissero. Negli anni Cinquanta molte donne erano relegate in casa, gravate da faticose mansioni non riconosciute. Le giovani donne però si inserirono nelle varie scuole e università, potevano avere contatti con coetanei dell’altro sesso senza essere controllate, potevano realizzare i loro progetti di vita. Negli anni Sessanta partirono dagli USA le nuove proteste femminili, tese a modificare la condizione femminile e alla critica del modello femminile tramandato dai mass media. Si rivendicava la libertà sessuale in seguito alla diffusione della pillola contraccettiva. Attualmente l’emancipazione della donna non è completa. Sicuramente è stata raggiunta la libertà sessuale con l’introduzione della pillola anticoncezionale, in modo da poter scegliere i tempi e i modi per diventare madre. Si è potuta raggiungere una certa carriera nel lavoro, grazie alla diminuzione del numero di figli e all’apertura degli asili nido, e il peso dei lavori domestici si è ridotto notevolmente con l’utilizzo degli elettrodomestici. Ma ci sono molte difficoltà riguardo il raggiungimento di ruoli dirigenziali e di prestigio nel campo lavorativo, il numero delle donne in politica è molto ridotto, e persino nella sfera privata alla donna tocca il doppio del lavoro familiare. La lotta è dunque ancora lunga e difficile da raggiungere. La protesta per la situazione femminile non è stata espressa solamente con manifestazioni o pubblicazioni di testi, ma ritroviamo questo soggetto in molte canzoni, film, e romanzi. Tra i film famoso è Thelma e Louise, in cui è rappresentata una società con il potere in mano a uomini possessivi, maschilisti, violenti e talvolta stupidi, i quali schiavizzano e sottomettono le donne. Tra i cartoni animati possiamo inserire in questa categoria Mulan, in cui vi è un riferimento continuo alle tradizioni cinesi, in cui la donna veniva unicamente educata a diventare docile e mansueta per poi trovare un marito. Ma la giovane protagonista ha il coraggio di uscire fuori dagli schemi e si arruola nell’esercito per combattere al posto del padre malato. Mulan diventa il prototipo dell’emancipazione femminile in una società in cui unico dovere di una ragazza era portare onore alla famiglia con un buon matrimonio. Per quanto riguarda le canzoni, l’argomento predominante è la posizione della donna nell’amore. Spesso capita che una donna si annulli per l’altra persona, che rinunci alla realizzazione di sé stessa, e questo concetto è espresso nella canzone Blunotte di Carmen Consoli. Di romanzi potremmo citarne migliaia, e tra quelli che hanno destato scalpore possiamo ricordare Paura di volare di Erica Jong, in cui la protagonista ha il coraggio emergere dai tabù e dai pregiudizi della società.

Il 1848 in Italia

Il 1848 è un anno segnato da moti rivoluzionari molto importanti per l’Europa intera. Il candidato esamini in particolare la situazione dell’Italia, evidenziando le caratteristiche con cui il moto si presentò e le conseguenze che ne derivarono in ambito politico, economico, sociale.

Nel giugno del 1815, con la fine del congresso di Vienna, l’Europa vedeva i propri confini ridisegnati, al termine degli eventi che avevano visto continue mutazioni, da un punto di vista geo-politico, che erano cominciati con la rivoluzione francese, ed erano terminati con le guerre napoleoniche. Il congresso di Vienna aprì la fase storica nota come Restaurazione, intesa nel senso di ripristino delle condizioni di potere assoluto, antecedenti alla rivoluzione francese, nei principali stati europei. Le misure adottate in quella sede, però, furono decisamente anacronistiche, totalmente distaccate dal contesto storico e dai cambiamenti sociali che avevano attraversato l’Europa nei precedenti venticinque anni. La rivoluzione francese, infatti, aveva in realtà sconvolto gli equilibri che il congresso ristabiliva: erano, in primo luogo, le popolazioni europee – in particolar modo la classe borghese (che aveva ottenuto negli ultimi anni notevoli conquiste) e in generale chiunque avesse posizioni politiche democratiche, considerate all’epoca radicali – a non essere disposte al vero e proprio passo indietro che la nuova geografia politica del continente gli chiedeva. Tutto questo contribuì a creare un clima di agitazione ma allo stesso tempo anche di grande fiducia e determinazione politica, una fase storica fatta di grandi aspirazioni e ideali, che sfociò nei moti del 1848. Le agitazioni, in realtà, sembravano già dalla fine degli anni Trenta pronte a scoppiare nella maggior parte dei paesi europei, ma fu la crisi economica e la conseguente recessione del 1946/47 a trasformarsi nella scintilla decisiva per lo scoppio dei moti. Moti la cui diffusione in Europa partì in realtà proprio dall’Italia, e precisamente dalla Sicilia, dove a seguito di un’agitazione rapidamente cresciuta nel mese di gennaio, i Borboni furono costretti a concedere alla popolazione una costituzione. L’esempio fu seguito a stretto giro da altri sovrani italiani, preoccupati dalle pressioni dei movimenti politici che si stavano rafforzando, movimenti di stampo essenzialmente liberale e borghese. Carlo Alberto di Savoia, per esempio, ammodernò i codici e il sistema amministrativo, oltre a concedere possibilità maggiori nell’ambito della libertà di stampa. Anche in Toscana ci fu l’abolizione della censura, da parte di Leopoldo II, e in generale tutti questi sovrani, così come il Papa Pio IX, concessero in tempi piuttosto rapidi una costituzione alle loro popolazioni. Il fermento democratico-liberale, intanto, stava attraversando tutta l’Europa, e giunse a Parigi, che diventò ancora una volta il fulcro di un importante movimento rivoluzionario. Nel febbraio del ’48, infatti, una volta che gli oppositori al re Luigi Filippo d’Orleans ebbero solidarizzato, dopo essere scesi in piazza, con la Guardia Nazionale, il re fu costretto ad abbandonare Parigi. La città passò sotto il controllo di un governo provvisorio formato da democratici, repubblicani e socialisti: il governo si pronunciò subito a favore della proclamazione della repubblica e di una costituzione. Poco tempo dopo, ancora in Italia, la Primavera dei popoli (nome con cui si è soliti accomunare tutti i moti avvenuti nel biennio tra il 1848 e il 1849) arrivò a Milano. Nel mese di marzo, la città lombarda si liberò, al termine delle sanguinose “cinque giornate” dal dominio austriaco, costituendo un vero e proprio precedente per la prima guerra di indipendenza italiana. La rivolta milanese, infatti, fu appoggiata dopo un primo momento di esitazione anche dallo stesso Carlo Albeto di Savoia, il quale, approfittando anche della ritirata austriaca, decise di dichiarare guerra all’impero. Una buona parte degli storici, in realtà, si pone nei confronti dei moti del ’48 in maniera abbastanza critica. Gli eventi che seguiranno le rivolte, infatti, andranno spesso in tutt’altra direzione rispetto alle richieste e alle conquiste (molto spesso di breve durata) ottenute dalle popolazioni europee. Se è vero, d’altronde, che in Austria dopo i moti del ’48 venne abolito il feudalesimo, e che in Russia fu cancellata la servitù della gleba, è anche vero che la maggior parte delle costituzioni che furono concesse alle popolazioni europee vennero in tempi relativamente brevi, revocate. Fu forse proprio in Italia, in realtà, che i moti ebbero una rilevanza politica maggiore, dal momento che (così come avvenne in Germania) assunsero il ruolo di apripista politico per un processo risorgimentale che culminò, dopo un sanguinoso e lungo cammino, nella conquista dell’indipendenza del paese.

Tecnologia e creatività

Una caratteristica principale della tecnologia è la creatività. Grazie infatti ad invenzioni innovative il progresso tecnologico ha compiuto passi da gigante nel corso degli ultimi anni. Descrivi in che modo la creatività ha preso piede nel mondo del mercato e in particolare delle aziende.

Molto spesso oggi si parla di creatività come ricombinazione intelligente di conoscenza già presente, che considera l’ambito aziendale uno dei basilari e più ampi campi di azione. Si parla di nuove forme di strutturazione aziendale, utilizzazione di prodotti esistenti per assecondare nuove domande, avviamento di nuovi mercati. L’innovazione influenza sul modo di agire, crescere, rivaleggiare o collaborare delle varie imprese. Ciò che più conta oggi nella competizione economica mondiale non è tanto la possibilità di sfruttamento di materie prime, quanto la disponibilità di capitale umano, di idee e di capacità innovativa. Quest’ultima ha avuto sempre un ruolo importante, ma negli ultimi tempi lo è stata ancora di più: la creatività umana è addirittura la fonte del vantaggio concorrenziale. Tecnologia, talento e pazienza fusi insieme danno vita alla creatività per trasformare. Non bisogna sprecare il talento umano, ma cercare di valorizzarlo e ricompensarlo, a partire dal mondo dell’università. Quando si parla di innovazione nelle aziende si intende una certa forma di mutamento che generi non solo progressi, ottimizzazione di prezzi, di vendite e di performance, ma che incrementi anche la competitività. Ogni trasformazione è già innovativa di per sé stessa, ma nelle imprese i cambiamenti divengono innovazione quando accresce la capacità di concorrere sui mercati. Spesso l’innovazione viene accostata solo alla tecnologia, ma la creatività parte innanzitutto dalla mente umana. Le relazioni umane non si possono sostituire, perché nei momenti risolutivi, quando le imprese si incontrano per realizzare un progetto collettivo, è essenziale avere chi possiede la capacità di fare un progetto, negoziare, incrementare le relazioni e comunicazione. La creatività ha bisogno di attenzione sia alle tecnologie che alle strategie, ed è perciò indispensabile che un’azienda, che aspira ad essere veramente innovativa, sia dotata delle capacità di comprendere le tecnologie ed inserirle al suo interno, di interpretare le scene in cui si sposta e di relazionarsi con il consumatore. Solo tramite relazioni interpersonali tra individui con capacità veramente elevate è possibile intravedere possibilità di un cambiamento e miglioramento. Non sussiste perciò tecnologia che non necessiti di un sostegno costituito da impegno, capacità, motivazione e risolutezza di chi lavora. Nessuna invenzione tecnologica potrebbe accrescere la competitività se dovesse mancare anche solo una di queste caratteristiche, che consistono esclusivamente nelle risorse umane. Si tratta di un processo progressivo e continuo, che si basa su un piano di sviluppo, che consenta all’impresa di servirsi dei vantaggi offerti dalle tecnologie, raggiungendo così i propri obiettivi. L’azienda davvero innovativa non crea eccessive metamorfosi, non realizza progetti grandiosi ogni tanto per poi fermarsi per tanti anni. L’impresa innovativa realizza rinnovamenti nel corso dei giorni costantemente e in modo dinamico. Per fortificare e sorreggere le migliori capacità innovative e creative di aziende, università, amministrazioni pubbliche, enti o singoli creatori, soprattutto con lo scopo di incoraggiare la crescita della cultura della creatività nel nostro Paese, viene conferito il “Premio nazionale per l’innovazione”. E’ un’idea del Governo italiano, promossa con un decreto nel 2008, proponendo anche la Giornata nazionale dell’innovazione. Il premio, consegnato per la prima volta nel 2009, è istituito e approvato dal Presidente della Repubblica, indirizzato ai migliori innovatori. Il conferimento del premio di solito è seguito da una motivazione, che brevemente esplica cosa vuol dire innovare nell’ambito delle imprese. Nel caso della premiata Iveco Spa, per esempio, il premio è stato motivato dal fatto che grazie all’innovazione, l’azienda è stata capace di affrontare meglio, rispetto alla concorrenza, le conseguenze della contrazione del mercato, e raggiungendo una posizione ragguardevole nella competizione. Al Gruppo Loccioni, invece, è stata riconosciuta la capacità di “aver fatto della creatività e dell’innovazione l’elemento portante del proprio successo nel rispetto di valori fondamentali quali la gestione dei rapporti umani e il rispetto dell’ambiente”. E’ giusto premiare la creatività e l’intuizione delle imprese, ed è giusto anche valorizzare e dar spazio a menti giovani, che hanno idee nuove e un punto di vista più fresco nell’affrontare le situazioni. E’ in questo modo che si ha il progresso tecnologico.

Chernobyl e Fukushima: vantaggi e svantaggi del nucleare

L’energia nucleare se da un lato ha permesso di produrre energia a basso costo, dall’altro ha messo in pericolo la vita di molte persone e del pianeta stesso. L’incidente avvenuto a Chernobyl e quello di Fukushima sono due dei tanti disastri accaduti nel mondo a causa delle centrali nucleari. Spiega brevemente i vantaggi e svantaggi del nucleare, e quali altri metodi si potrebbero utilizzare per l’approvvigionamento energetico.

L’energia nucleare viene prodotta nelle centrali attraverso il bombardamento dell’uranio con i neutroni. Il nucleo dell’uranio si divide in due nuclei più piccoli, che producono a loro volta altri nuclei in una reazione a catena. L’aspetto positivo dell’uranio è il fatto che questo non produce anidride carbonica nell’atmosfera, ma gli aspetti negativi sono molti. Infatti durante questo processo si emette radioattività ad alta intensità. Gli oggetti che vengono esposti alle radiazioni poi diventano scorie radioattive, e ci vogliono migliaia di anni prima che abbassino il livello di radioattività. Non vi è nessuna tecnologia capace di distruggere le scorie. La sicurezza delle centrali nucleari è da sempre un tema al centro dei dibattiti politici, ed alcuni sono favorevoli, perché vi intravedono una via d’uscita dalla dipendenza petrolifera, altri invece sono sfavorevoli per una questione di sicurezza. Negli anni sessanta si era diffusamente certi che l’essere umano poteva controllare e anticipare ogni evento naturale grazie alle tecnologie avanzate. Questa fiducia smisurata ebbe fine quando si verificarono i primi incidenti nucleari. Nel 1979 un incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island, negli Stati Uniti, provocò l’evacuazione di tutti gli abitanti. Non ci furono gravi conseguenze a livello nazionale, si dovettero aspettare gli incidenti di Chernobyl e Fukushima per comprendere la pericolosità delle centrali. Con l’incidente di Chernobyl, il 26 aprile 1986, tutta l’umanità si trovò di fronte alle conseguenze vere e proprie di un incidente nucleare a livello mondiale. Dalla centrale di Chernobyl partì una nube radioattiva che fu sospinta dai venti a migliaia di chilometri di distanza. L’area contaminata attorno alla centrale era molto vasta e i terreni di tutta l’Europa contenevano tracce di radioattività. In tutto il mondo per almeno dieci anni si sospesero le costruzioni di centrali, decisione presa anche per il fatto che il prezzo del petrolio si era abbassato notevolmente. Alcuni Paesi, come la Germania, sospesero i lavori per le nuove centrali, ma continuavano ad usare quelle già esistenti. Altri invece, come l’Italia, decisero di uscire definitivamente dal programma nucleare. Nel 1987 infatti con un referendum fu abolita la procedura per la localizzazione delle centrali e furono aboliti i contributi a regioni e comuni sedi di impianti elettronucleari. Inoltre fu sancito il divieto di collaborazione alla realizzazione di centrali all’estero per l’Enel. Francia e Giappone continuavano invece a investire nella ricerca tecnologica per creare centrali nucleari di nuova generazione, più sicure e proficue rispetto alle precedenti. Nelle centrali già costruite poi aumentarono le misure di sicurezza. Negli anni ’90 il mondo continuava a chiedersi quali fossero state le cause del disastro di Chernobyl. Col passare del tempo prevalse la tesi dell’errore umano, verificatosi insieme a una serie di eventi inverosimili. Negli anni seguenti si verificarono altri incidenti nucleari, a Tokaimura nel 1999 e a Mihama nel 2004. Non furono molto gravi e la contaminazione si verificò solo intorno alla centrale. Nel 2000 si registrò una generale tendenza di ritorno al nucleare. Ciò perché il petrolio iniziò a scarseggiare e aumentò di prezzo, insieme alle altre materie prime energetiche. La dipendenza energetica da Paesi politicamente instabili poi spinse molti Paesi occidentali a rivalutare l’energia nucleare. Anche alcuni Paesi in via di sviluppo optarono per l’energia nucleare, e il problema della sicurezza delle centrali sembrava ormai essere superato dalle nuove tecnologie e dalle centrali atomiche di nuova generazione. Il timore era circoscritto solo alle zone vicine alle centrali e a quelle vicine ai depositi di scorie. Nel 2011 il dibattito sulla sicurezza delle centrali nucleari si è riacceso nuovamente con il grave disastro nucleare alla centrale atomica di Fukushima (Giappone). L’incidente di Fukushima è stato causato da un terremoto, un evento inaspettato, ma il problema è che ci sono difficoltà nel trovare rimedi alle conseguenze. Poi, il fatto che questo sia successo in Giappone, uno dei Paesi tecnologicamente più avanzati e che conosce molto bene il settore nucleare, ha generato grandi timori in tutto il mondo. Oggi dunque il tema della sicurezza nelle centrali nucleari è di nuovo oggetto di dibattiti tra governi a livello internazionale, e si è cercato di trovare un’alternativa al nucleare. Basta innanzitutto ridurre i consumi di energia e cercare di rendere più efficienti i sistemi, utilizzando impianti termici efficaci e illuminazione a basso consumo. Inoltre si può investire sulle energie rinnovabili, come quella solare, eolica, idraulica e geotermica. Nell’ultimo periodo si stanno diffondendo gli impianti fotovoltaici, che sfruttano l’energia solare e la convertono in energia elettrica. I pannelli fotovoltaici producono energia per trentacinque anni, e insieme all’energia eolica, quella solare continua ad avere un costo sempre più basso.

La linea sottile tra scienza ed etica

La scienza: dubbi e paure dello scienziato. Destinazione: rivista scientifica

L’uomo di scienza è, forse, colui che meglio ha interiorizzato, fin dai tempi più remoti, la massima “Memento audere semper”. Prepararsi a compiere un esperimento scientifico costituisce un rischio per lo scienziato: l’approvazione di teorie e leggi, spesso scatena reazioni inaspettate, provenienti dall’opinione pubblica, dalla politica, dalla chiesa. L’uomo di scienza può essere, dunque, considerato un “avventuriero”, un audace che, spinto dalla curiosità, a sua volta scaturita da quella “mirabilia” di cui ci parla Galileo Galilei, tenta la fortuna, sfidando la natura. Attualmente, mossi dall’incontrollabile volontà di oltrepassare i limiti morali che l’etica impone, gli scienziati sono favorevoli a verifiche scientifiche di ipotesi inverosimili. Noi tutti ricordiamo Dolly, la pecora che per prima fu clonata e che è diventata, poi, l’icona stessa di una pratica vergognosa. La clonazione è impensabile dal momento che noi, sulla Terra, siamo degli esseri unici, differenti gli uni dagli altri sia fisicamente che moralmente e, nonostante possano esserci soggetti simili tra loro per caratteristiche somatiche o per affinità caratteriali, mai due persone saranno, secondo natura, perfettamente “sovrapponibili”. Nel libro “Le racisme éxpliqué à ma fille”, Tahar Ben Jelloun, l’autore, condanna la clonazione, affermando con convinzione che, anche dei gemelli omozigoti hanno sempre e comunque qualcosa di differente nell’aspetto fisico e, di conseguenza, è disumano ricorrere a questa “scoperta” in quanto potrebbe essere utilizzata da uomini potenti e pericolosi per degli scopi altrettanto dannosi. La duplicazione di un individuo simboleggia il superamento della linea sottile che separa scienza e morale. L’uomo dovrebbe riconoscere la sua finitezza e l’impossibilità di poter trovare una spiegazione valida e scrupolosamente esaminata di ogni singolo fenomeno. Il filosofo e letterato francese Blaise Pascal riassume la speculazione riguardo all’illimitatezza del sapere in un aforisma raccolto nei suoi “Pensieri: “Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano.” E’ questo lo spirito che deve animare uno scienziato. L’etimologia del termine “scienza” ci conduce alla rispettiva parola latina “scientia”, che deriva dal participio presente, “sciens, scientis” del verbo “scire”, la cui traduzione italiana corrisponde a “sapere, conoscere”. Logicamente, in base a quanto è stato detto precedentemente, è impossibile conoscere la scienza nella sua totalità e, perciò, essa è un processo in continua evoluzione, destinato sempre a migliorarsi e a perfezionarsi, ma non a concludersi in materia definitiva. Uno scienziato non è consapevole dei risultati che si potrebbero ottenere dai suoi esperimenti e perciò teme di raggiungere esiti catastrofici e imprevedibili. Il 6 e il 9 agosto 1945 fu sganciata, rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki, la bomba atomica, definita anche “fungo atomico” per la forma generata dopo la terribile esplosione. Due città completamente rase al suolo, centinaia e centinaia di uomini innocenti la cui vita è stata distrutta dalla messa in pratica di studi scientifici e dal connubio scienza e tecnica, stesso “matrimonio” dal quale nel 1609 Galileo Galilei partorì il cannocchiale, strumento che ha permesso di puntare gli occhi al cielo e di approfondire le scarse conoscenze che allora si possedevano. Quando gli scienziati capirono le gravi conseguenze che la guerra nucleare avrebbe prodotto, provarono orrore e si sforzarono affinché i politici e i generali non usassero effettivamente la bomba; secondo Hobswam, infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale il potere politico sottomise la scienza e obbligò i fisici d’avanguardia a costruire un’arma terribilmente nociva. A seguito del tragico evento, alcuni degli scienziati che parteciparono alla costruzione della bomba atomica decisero di mettere fine alla propria vita piuttosto che di convivere con la consapevolezza di aver creato un “mostro” capace di distruggere l’umanità. Non bisogna far riferimento agli uomini di scienza pensando che essi siano degli esseri incapaci di sbagliare o delle persone sempre sicure delle loro azioni e, d’altronde è proprio dal dubbio che nasce il presupposto per informarsi su un fenomeno e per studiarlo, analizzandolo e ricorrendo all’esperienza empirica. Pur essendo nel 21° secolo la scienza è costretta a combattere contro l’ottusità dei potenti e della chiesa che intervengono in maniera errata, con l’intenzione di voler sopprimere degli studi e delle scoperte di notevole rilievo per il bene dell’umanità. “Ho speso tutta la mia vita per la libertà della scienza”, “grida” nella sala delle biblioteca di Montecitorio Rita levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina e, la sua sincera affermazione sembra vendicare tutti gli studiosi come Tommaso Campanella, Giordano Bruno, sfortunatamente vissuti nel secolo della controriforma, che hanno scelto la morte alla rinuncia e alla smentita delle proprie teorie. Essere un uomo di scienza comporta assumersi delle grosse responsabilità e, l’unica grande paura dello scienziato dovrebbe essere quella di non superare la debole barriera interposta tra scienza ed etica.

La Natura e la sua forza

La scienza dell’uomo di fronte all’imponderabile della Natura! Destinazione: rivista scientifica

Da sempre l’uomo ha interagito con la Natura. Si è chiesto il significato degli eventi naturali e perché essi avvengano. Inoltre si è sempre sentito inferiore rispetto alla forza della Natura perché non la conosce ancora sufficientemente. Dapprima il suo rapporto con la Natura era molto rispettoso; con il passare del tempo e con lo sviluppo della tecnologia, l’uomo ha cominciato a “invadere” irrispettosamente lo spazio della Natura che, quindi, periodicamente fa sentire la sua voce e ricorda all’essere umano il suo comportamento errato nei riguardi del creato. Lo smoderato sfruttamento della Natura, infatti, molto spesso provoca catastrofi naturali come alluvioni e smottamenti. Questi potrebbero essere evitati se l’uomo non costruisse abitazioni o strade dove non dovrebbe. Altri disastri naturali, quali terremoti o maremoti, invece, non possono essere evitati in quanto l’uomo non riesce a prevedere il momento in cui essi si manifesteranno. Boncinelli, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 2/1/2005 intitolato Dall’asse distorto ai grappoli sismici. Quando la scienza vuol parlare troppo, si dice scettico sul fatto che l’uomo possa prevedere i disastri naturali. Infatti scrive: «la verità è che, eccetto in casi particolarmente fortunati, non siamo ancora in condizione di prevedere i terremoti e i maremoti». Fin dai tempi antichi l’uomo si è chiesto quali fossero le cause delle catastrofi. Il filosofo Platone dà, nel Timeo, una spiegazione religiosa: tutto, cioè, dipende dalle divinità. Gli dei, alle volte, purificano la terra con molta acqua. Fu proprio un’inondazione, accompagnata da un terremoto, a far scomparire nel mare l’isola di Atlantide. Invece Fetonte, figlio di Apollo, guidò il carro del padre senza saperlo fare e quindi bruciò tutta la terra e lui stesso morì. Naturalmente oggi sono stati fatti passi in avanti e sappiamo che le catastrofi naturali hanno spiegazioni scientifiche. Bonatti, ad esempio, in un articolo pubblicato dal Sole 24 ore il 2/1/2005 intitolato Ma è l’oceano che ci dà vita, spiega le cause del maremoto. Esso viene provocato quando la terra che si trova sotto l’acqua improvvisamente si sposta. Nel caso di disastri naturali, l’uomo cerca di intervenire a sostegno delle popolazioni colpite. Però, come scrive Thom in Modelli matematici della morfogenesi, «il mondo brulica di situazioni sulle quali visibilmente possiamo intervenire, ma senza sapere troppo bene come si manifesterà l’effetto del nostro intervento». Infatti l’uomo non conosce neanche con quale forza si scatenerà la natura. I disastri naturali hanno anche delle conseguenze. In caso di terremoti o maremoti, ad esempio, il paesaggio può mutare. Oppure si possono avere cambiamenti anche sul nostro pianeta. Boncinelli, nello stesso articolo sopra citato, afferma che gli «fa tenerezza sentire che l’asse terrestre si è spostato». Anche la Terra, dunque, è fragile, ma non tanto quanto l’uomo che, invece, può solo sperare di salvarsi quando avviene una catastrofe. Riprendo, dunque, il pensiero che Goethe esprime nel Frammento sulla natura: l’uomo è a stretto contatto con la Natura, ma ancora non ne conosce i segreti. Di conseguenza, secondo me, l’uomo deve rispettare la Natura perché solo così può evitare quelle catastrofi provocate in gran parte dal suo comportamento.

La forza della Natura

Catastrofi naturali: la scienza dell’uomo di fronte all’imponderabile della Natura! Destinazione: rivista scientifica

L’uomo è figlio della Natura. Vive e interagisce con essa, ma non riesce a coglierne i segreti. Goethe, nel Frammento sulla natura, dice che noi uomini «viviamo in mezzo a lei, ma le siamo estranei. […] Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun potere». Ciò significa che l’uomo non riesce a cogliere tutti i segreti della Natura e non può conoscere i tempi in cui essa rivolgerà la sua forza contro di lui. La Natura, infatti, si scaglia contro l’uomo quando quest’ultimo interviene su di lei senza rispetto. Nascono così le catastrofi naturali contro le quali l’uomo può solo sperare di salvarsi. Platone, nel Timeo, spiega che le catastrofi naturali sono causate dagli dei che puniscono gli uomini quando si comportano male. Ma può anche capitare che siano gli dei la causa dei disastri. Fetonte, per esempio, incendiò tutta la terra e morì poiché si impadronì del carro del padre Apollo senza saperlo guidare. Altri dei, invece, possono purificare troppo la terra con l’acqua e causare inondazioni. Naturalmente le catastrofi naturali hanno una spiegazione scientifica. Bonatti, ad esempio, in un articolo pubblicato dal Sole 24 ore del 2/1/2005 intitolato Ma è l’oceano che ci dà vita, spiega le cause che provocano uno tsunami. Affinché avvenga un maremoto, sono indispensabili due elementi: una grande quantità d’acqua e uno strato solido e rigido sotto di essa. I movimenti e gli spostamenti della litosfera trasmettono energia alle acque sovrastanti e causano il maremoto. Dopo le catastrofi, ci possono essere delle conseguenze. Può capitare, ad esempio, che si sposti l’asse terrestre. Boncinelli, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 2/1/2005 intitolato Dall’asse distorto ai grappoli sismici. Quando la scienza vuol parlare troppo, fa le sue considerazioni e afferma che anche la Terra è fragile, anche se non come noi. L’uomo si sta affannando per cercare di prevedere le catastrofi naturali. Ma è possibile farlo? Boncinelli, nello stesso articolo, dice che «eccetto in casi particolarmente fortunati, non siamo ancora in grado di prevedere maremoti e terremoti», poiché l’uomo ancora non conosce molte cose riguardo le scienze della Terra. È certo comunque che l’uomo può intervenire quando si manifestano disastri naturali. Thom, in Modelli matematici della morfogenesi, afferma che non si sa bene come si manifesta l’intervento umano in caso di catastrofi poiché non si conosce l’intensità con cui la Natura si manifesta contro l’uomo. Di conseguenza, alle volte l’intervento dell’uomo è utile, altre invece non porta a risultati concreti. Sono, dunque, d’accordo son Rusconi che, ne L’apocalisse e noi, dice che la violenza della Natura «ci pone davanti alla nostra nuda condizione umana e alle nostre responsabilità». L’uomo, infatti, molto spesso interviene senza rispetto sulla Natura che, quindi, si ribella e gli ricorda la sua piccolezza. Secondo me, l’uomo dovrebbe essere più rispettoso nei riguardi della Natura: solo così si possono evitare gravi catastrofi.

La società della “Galassia internet”

Social Network, Internet, New Media. Destinazione: rivista scolastica

Molto spesso la televisione riporta la notizia dell’arresto di un assassino incastrato perché in quel preciso istante si trovava nel luogo del delitto. Si rimane impressionati quando si ascolta che l’assassino è stato intrappolato dal suo cellulare. Gli investigatori, infatti, prima di arrestarlo, hanno controllato le micro cellule del suo cellulare, cioè i segnali che partono da questo oggetto. Oggi, infatti, la tecnologia è arrivata al punto di influenzare le nostre vite nel bene e nel male. Nel bene perché ci ha semplificato la vita, nel male perché controlla ogni nostro movimento. Come afferma giustamente De Kerckhove in un intervento al Convegno Internazionale “Professione giornalista: Nuovi Media, Nuova Informazione” intitolato Alla ricerca dell’intelligenza connettiva, «oggi con la tecnologia cellulare è possibile controllare chiunque, sapere con chi parla, dove si trova, come si sposta». La nostra libertà individuale, quindi, è in pericolo appunto perché controllata in ogni suo più piccolo spostamento e la creatività dell’uomo rischia di essere sopraffatta dalla tecnologia. L’uomo, purtroppo, oggi non può vivere senza tecnologia, in particolare senza computer e internet. Come sostiene Castells in Galassia internet, sono vani i tentativi di chi vuole fare a meno della rete. Infatti, se non è l’uomo a utilizzarla, sarà lei stessa a cercarlo perché oggi si vive appunto in una società di rete, la Galassia Internet. L’uomo senza internet, dunque, sembra essere messo da parte da una società sempre più informatizzata. Internet ha avuto senza dubbio degli effetti positivi sulla nostra vita. Infatti basta un semplice click per evitare lunghe file alla posta, per leggere le notizie che più ci interessano, per scaricare e ascoltare musica, per controllare la posta elettronica… Internet ha migliorato anche il modo di comunicare. Esso, infatti, coma afferma Benkler nell’intervista del 10 maggio 2007 a omniacommunia, permette di dare voce a tutti. Basta iscriversi a un blog o ai social network e tutti possono esprimere liberamente la loro opinione ed essere ascoltati allo stesso modo. Benkler, però, sostiene anche che bisogna fare attenzione all’utilizzo di internet. La rete, infatti, è piena di sciocchezze. Questo può sembrare un limite, ma, in realtà, non lo è. Infatti, Benkler dice che l’uomo, nella ricerca di quello che gli interessa, deve essere capace di discernere ciò che può essergli utile da ciò che non lo è e, quindi, deve mettere in pratica la sua intelligenza. Conclude Benkler: «la ricerca di fonti differenti è un’attività molto più coinvolgente e autonoma rispetto alla ricerca della risposta da parte di un’autorità». Su internet l’uomo può parlare di qualsiasi argomento. Ecco perché, come sostiene Boccia Artieri, in Le culture partecipative dei media. Una introduzione a Henry Jenkins, internet ha influenzato notevolmente anche la politica, le dinamiche di mercato, i processi educativi… Un importante cambiamento si è avuto anche nel linguaggio. Internet, infatti, ha creato nuove parole che sono state inserite nel vocabolario della lingua italiana (ad esempio, mouse, click, chattare…) e permette di diffondere più velocemente i neologismi. La rete è aperta a tutti, grandi e piccoli, e sono soprattutto i ragazzi a modificare il linguaggio. La rete può essere anche una banca dati di enorme valore. Come afferma Bajani in un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore il 7 dicembre 2008 intitolato YouTube della terza età, internet può contenere anche momenti di vita vissuta. Si possono caricare, infatti, i video dei momenti più belli o strani della nostra vita che possono essere visti dagli utenti della rete. Internet, quindi, è anche un’importante banca della memoria. Bajani, infatti, si riferisce a videointerviste fatte a uomini e donne nate prima del 1940. Sono dell’opinione che internet continuerà ad influenzare le nostre vite e che la società diventerà sempre informatizzata e dipendente da queste nuove forme di comunicazione.

In che modo internet ha migliorato la nostra vita?

Conoscenza, lavoro e commercio nell’era di internet. Destinazione: rivista scientifica

File interminabili agli sportelli, giornali ammassati per essere buttati nella spazzatura, gironzolare a vuoto fra i negozi per trovare e comprare ciò che ci interessa: tutto questo rischia di diventare un semplice ricordo. In che modo? Con il computer. Eh sì, perché l’avvento di questo straordinario “aggeggio” elettronico sta rivoluzionando ogni giorno il nostro modo di vita. Il computer è un bene di massa: tutti, nei paesi industrializzati, ne hanno uno e, di conseguenza, tutti possono usufruire degli enormi vantaggi che esso procura. Fra i tanti, quello più utilizzato è internet. Basta semplicemente avere una connessione alla rete e, rimanendo seduti in casa, si possono compiere numerose attività: mandare posta, pagare bollettini, leggere quotidiani, fare ogni tipo di ricerca, comprare oggetti… Tutto è cominciato dall’invenzione della radiotelegrafia da parte di Marconi, come affermato dal il giornalista Pace il un articolo pubblicato da La Repubblica il 12 dicembre 2001. Questo straordinario inventore fu il primo che riuscì a trasmettere le lettere fra due luoghi distanti (l’Europa e il Canada) utilizzando un filo appeso a un aquilone. Da allora lo sviluppo della comunicazione non ha conosciuto sosta: sono nati i primi telefoni, si è passati per il telefono cellulare per arrivare, infine, a questa rivoluzionaria “invenzione”, internet. Certo, questo è un mezzo che deve essere utilizzato con attenzione. Numerosi sono i pericoli che si nascondono in rete, in quanto si può venire più facilmente a contatto con truffatori e tipi poco raccomandabili. Ma un suo corretto utilizzo permette di migliorare ogni giorno la nostra vita. Si pensi al fatto che ora, grazie ad internet, è addirittura possibile trovare un lavoro. Come afferma il Supplemento a panorama del 15 novembre 2001, le aziende, piccole o grandi che siano, o i privati pubblicano on line i loro annunci. Sembra, quindi, finita l’epoca in cui ci si recava in edicola per comprare giornali che offrivano annunci di lavoro. Oggi all’utente basta solo inserire i propri dati, inviare il curriculum e, se necessario, iscriversi al sito, per rispondere all’annuncio proposto. I tempi della domanda e dell’offerta, quindi, si sono notevolmente ridotti. Basta, infatti, un semplice click e ci si ritrova catapultati nel mondo del lavoro. In quanto bene di massa, il computer e internet costituiscono un semplice strumento accessibile a tutti: anche le persone comuni possono utilizzarlo e godere dei suoi innumerevoli benefici. Di conseguenza, come afferma Hobsbawn, in Intervista sul nuovo secolo, tutti possono prendere parte a quel meccanismo complicato che è il mercato finanziario internazionale. Le transazioni finanziarie risultano, infatti, più semplici appunto perché si utilizza il computer. Trasmettere elettronicamente fondi non è utile solo per il vasto mondo del mercato finanziario, ma aiuta gli utenti anche nello svolgimento di attività quotidiane, quali, ad esempio, comprare oggetti di ogni tipo. Come affermato da Grando in Commercio elettronico e progettazione logistica. Una relazione sottovalutata, grazie a internet è possibile acquistare vari oggetti (cd, dvd, lavastoviglie, televisori, cellulari…) che, dopo essere stati ordinati on line, ci vengono comodamente recapitati a casa. Internet non si limita soltanto a questo. Altri sono i suoi benefici, come, ad esempio, inviare mail, leggere in tempo reale notizie provenienti da ogni parte del mondo, evitare la fila agli sportelli di banche e poste, richiedere certificati… Com’è cambiata la nostra vita negli ultimi anni! Essa sicuramente è destinata a migliorare ancora di più grazie anche ad un uso corretto e consapevole della rete internet.

L’esistenza degli UFO tra dubbi e certezze

Destinazione: rivista scientifica

Da sempre l’uomo ha avuto il desiderio di sapere se esistessero o meno, nell’universo, altre forme di vita intelligente. Ha così cominciato a investire le sue risorse per la ricerca di altri esseri viventi. Sono nate, in questo modo, parole come “extraterrestre” o “UFO”: la prima indica un qualcuno o un qualcosa che si trova al di fuori del pianeta Terra, mentre la seconda è una sigla (dall’inglese Unidentified Flying Object) utilizzata per indicare qualsiasi oggetto o fenomeno luminoso, osservato in cielo, che non abbia una spiegazione plausibile. Queste manifestazioni inspiegabili sono antichissime. Nei secoli precedenti, il filosofo Kant era fortemente convinto dell’esistenza di altre vite nell’universo. Scrive, infatti, nella Critica della ragion pura: «Io sarei pronto a scommettere tutti i miei averi che almeno in uno dei pianeti che noi vediamo vi siano degli abitanti». Si cominciò a discutere effettivamente di UFO solo a partire dal 1947, quando negli Stati Uniti fu avvistato un “disco volante”. Steven J. Dick ne La vita nel cosmo. Esistono gli extraterresti? afferma, però, che non tutti credono nella reale esistenza degli alieni. Infatti, molti biologi che li cercano spesso si scontrano con quelli «molto pessimisti sulla morfologia, se non sulla stessa esistenza degli extraterrestri che smorzano, quindi, le aspirazioni di chi cerca di estendere i principi della biologia terrestre all’universo nel suo complesso». Come sostengono Pippo Battaglia e Walter Ferreri in C’è vita nell’universo? La scienza e la ricerca di altre civiltà, è stata soprattutto l’aeronautica americana a condurre ricerche sugli UFO. La percentuale dei loro avvistamenti, però, è stata molto bassa poiché, nella maggior parte dei casi, si è trattato di suggestioni o visioni dovute a osservazioni errate e a racconti imprecisi. I due studiosi spiegano anche la natura degli UFO. Scrivono, infatti: «Si potrebbe, per esempio, pensare che all’origine di un certo numero di avvistamenti vi siano, in realtà, fenomeni geofisici ancora poco conosciuti, oppure velivoli sperimentali segreti, senza tuttavia escludere del tutto la natura extraterrestre». Dunque, si usa il concetto di “extraterrestre” o “UFO” ogniqualvolta ci si trova di fronte a fenomeni non spiegabili con la ragione o con le conoscenze finora acquisite dall’uomo. Gli extraterrestri, però, non sono mai giunti sulla Terra. Da questa constatazione si è sviluppato lo scetticismo di Stephen Hawking sull’esistenza degli UFO. Egli, infatti, ne L’universo in un guscio di noce, afferma che gli alieni non sono giunti sul nostro pianeta per due motivi: o sono esseri troppo intelligenti e quindi non si curano di noi che siamo creature troppo primitive per loro; oppure più semplicemente non esistono, o, se così non fosse, non sono abbastanza intelligenti. Conclude, dunque, Hawking: «Lo scenario futuro non somiglierà a quello consolante definito da Star Treck, di un universo popolato da molte specie di umanoidi. […] Credo che invece saremo soli e che incrementeremo molto, e molto in fretta, la complessità biologica ed elettronica». La ricerca degli alieni ha dato vita anche a riflessioni filosofiche. Paul C. W. Davies, in Siamo soli? Implicazioni filosofiche della scoperta della vita extraterrestre, pone l’attenzione sulla coscienza, caratteristica dell’uomo e «fenomeno basilare che fa parte del funzionamento e delle leggi dell’universo». In quanto tale, la coscienza può essere trovata anche altrove. Se così fosse, ci sarebbe la dimostrazione che l’universo non solo è in evoluzione, ma è anche uno spazio in cui la mente svolge un ruolo fondamentale. L’esistenza di altre forme di vita, dunque, continua ad essere ancora oggi oggetto di vivace dibattito. Le ricerche di extraterrestri continuano e chissà… magari un giorno scopriremo che non siamo soli.

Una società sempre più tecnologica

Social Network, Internet, New Media. Destinazione: rivista scolastica

Viviamo in una società influenzata sempre più dalla tecnologia. Il computer, i cellulari e gli altri oggetti elettronici di ultima generazione hanno influenzato notevolmente il nostro stile di vita. Si pensi che ci sentiamo persi senza cellulare, ci innervosiamo se ci accorgiamo di averlo lasciato a casa mentre siamo fuori. L’utilizzo della nuova tecnologia ha vantaggi e svantaggi. Se è vero che ha semplificato notevolmente la nostra vita, è altrettanto vero che essa controlla ogni movimento che facciamo. Come afferma giustamente De Kerckhove in un intervento al Convegno Internazionale “Professione giornalista: Nuovi Media, Nuova Informazione” intitolato Alla ricerca dell’intelligenza connettiva, la nostra libertà individuale è in pericolo. Si pensi, infatti, che la tecnologia cellulare controlla chiunque, poiché è in grado di sapere con chi si parla, dove ci si trova e quali sono i nostri spostamenti. L’uomo, quindi, è in continua osservazione e si rischia, in tal modo, che la sua creatività sia controllata sempre più dalla tecnologia. Vani sono i tentativi di chi vuole vivere senza tecnologia. Infatti, come osserva esattamente Castells in Galassia internet, l’uomo vive nella Galassia Internet: deve, cioè, avere a che fare per forza con le nuove tecniche di comunicazione perché “se non ci si occuperà delle reti, saranno le reti a occuparsi di noi”. La rete, infatti, ha cambiato notevolmente il nostro modo di comunicare. Oggi è possibile entrare in contatto con persone che si trovano in diverse parti del mondo con un semplice click, iscrivendosi ai social network o ai blog. Qui, come afferma Benkler nell’intervista del 10 maggio 2007 a omniacommunia, è possibile parlare più liberamente e far sentire maggiormente la propria opinione su un determinato argomento. L’uomo, quindi, può farsi ascoltare più facilmente perché lascia un commento su un argomento che gli sta a cuore, entrando, così, in una vera conversazione pubblica. In essa, dunque, tutti possono parlare e tutti sono ascoltati allo stesso modo. Benkler sostiene anche, però, che sulla rete sono presenti molte sciocchezze. Esse, a suo parere, non costituiscono un limite nella comunicazione. Infatti, l’uomo, utilizzando la sua intelligenza, può cercare altri riferimenti alle tematiche di interesse e può essere capace di scegliere ciò che realmente può essergli utile. Tutti, quindi, indistintamente, possono intervenire su diversi argomenti. Queste nuove forme tecnologiche di comunicazione, come sostiene Boccia Artieri in Le culture partecipative dei media. Una introduzione a Henry Jenkins, hanno influenzato anche le forme e il linguaggio del nostro tempo. Si pensi, infatti, a quante nuove parole sono state coniate e a quanti lemmi stranieri si è aperta la nostra lingua italiana. Inoltre, la tecnologia ha una fortissima influenza anche sulla politica, sulle dinamiche di mercato, sui processi educativi… Internet può costituire anche una banca dati di enorme valore. Come afferma Bajani in un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore il 7 dicembre 2008 intitolato YouTube della terza età, uomini e donne nati prima del 1940 possono raccontare le proprie esperienze di vita con una videointervista da pubblicare poi in rete. Ma non sono solo gli anziani a lasciare i loro ricordi in internet. Anche i giovani, infatti, spesso pubblicano i loro video sulla rete per lasciare un segno di sé. La nostra vita, dunque, è sempre più influenzata da internet. Facciamo, però, attenzione a come lo utilizziamo. Molti, infatti, sono i pericoli che si nascondo in rete: si possono, ad esempio, incontrare persone cattive o malintenzionati o si può diventare succubi di qualche gioco on line che crea dipendenza. Ben venga, dunque, la nuova tecnologia a patto che la si utilizzi con cautela.

Internet, uno strumento di evoluzione

Conoscenza, lavoro e commercio nell’era di internet. Destinazione: rivista scolastica

Stiamo attraversando un’epoca di grande progresso, soprattutto dal punto di vista scientifico ed elettronico. Si pensi come i computer stiano influenzando sempre di più la nostra vita quotidiana. Sta cadendo in disuso l’abitudine di fare la fila agli sportelli di poste e uffici. Ora, infatti, è possibile fare tutto stando comodamente seduti su una poltrona da casa: si possono pagare le bollette, richiedere certificati, mandare lettere, leggere giornali e addirittura fare la spesa. Basta semplicemente avere un computer e una connessione internet. Internet, dal punto di vista dell’informazione, permette di leggere le notizie in tempo reale. I siti dei più importanti quotidiani, infatti, vengono aggiornati più volte nell’arco della giornata, con lo scopo, appunto, di rendere un servizio migliore tenendo costantemente aggiornati i lettori. Ma quanta strada si è fatta per raggiungere questo successo? Dapprima era molto difficile anche comunicare a distanza con persone che vivevano oltreoceano. Come afferma il giornalista Pace il un articolo pubblicato da La Repubblica il 12 dicembre 2001, è stato grazie a Marconi che si è avviato lo sviluppo della comunicazione a distanza. Egli, infatti, fu il primo a far arrivare una lettera (la “s” dell’alfabeto morse) dalle coste dell’Europa, in Cornovaglia, fino in Canada utilizzando semplicemente un filo appeso a un aquilone. Marconi, dunque, è stato l’inventore della radiotelegrafia. E da allora sono stati fatti passi avanti: l’invenzione del telefono, del telefono cellulare e, infine, del computer e di internet. Il computer, quindi, sta lentamente prendendo il posto dei quotidiani. Con un semplice click, infatti, è possibile leggere in tempo reale notizie provenienti da ogni parte del mondo. L’uso di internet non si limita soltanto alle informazioni. Esso è utile anche per chi è in cerca di lavoro. Infatti, come viene affermato nel Supplemento a panorama del 15 novembre 2001, gli annunci non si pubblicano più solo sui giornali o sulle bacheche, ma anche su internet. Stando davanti al pc, l’utente può iscriversi a siti di lavoro, inserire il proprio curriculum, specificare il settore lavorativo di interesse e leggere gli annunci pubblicati dalle aziende rispondendo ad essi inviando semplicemente una mail. Gli annunci su internet permettono una risposta veloce e, dunque, sono «uno strumento rapido per far incontrare la domanda con l’offerta». I siti di ricerca del personale oggi sono diffusi in tutto il mondo e costituiscono un ottimo strumento per chi vuole lavorare subito. Navigando in rete è possibile anche fare la spesa e comprare ogni tipo di oggetto. Come affermato da Grando in Commercio elettronico e progettazione logistica. Una relazione sottovalutata, il commercio on line si sta sviluppando sempre più e prevede molteplici attività, come consegna di contenuti digitali, trasferimenti elettronici di fondi, scambi commerciali elettronici… Non c’è dubbio, dunque, sul fatto che internet abbia rivoluzionato la nostra vita in ogni suo aspetto. Hobsbawn, in Intervista sul nuovo secolo, afferma che il computer influenza anche il mercato finanziario internazionale. Nell’angusto mondo di scambi, vendite e offerte, è, infatti, possibile anche per un semplice cittadino accedere a questo tipo di mercato, in quanto il computer è un mezzo utilizzabile anche da gente comune. Insomma, viviamo in un’epoca fortemente influenzata dall’uso di internet. Come ogni invenzione, anche essa ha i suoi lati oscuri: in rete si possono nascondere pirati informatici, pedofili, sfruttatori e persone pericolose per la nostra incolumità. Sicuramente, negli anni futuri, internet renderà la nostra vita ancora più semplice. Poniamo, però, attenzione all’uso di questa nuova tecnologia facendone un corretto utilizzo.

L’acqua, risorsa e fonte di vita

Destinazione: rivista scientifica

La Terra è l’unico pianeta del nostro sistema solare in cui si è potuta sviluppare la vita. Come mai? Grazie alla presenza di acqua. Circa i due terzi del nostro pianeta, infatti, sono occupati da acqua. Quella che permette lo sviluppo della vita è l’acqua dolce. Dell’acqua presente sulla Terra, circa il 97% è salata, mentre solo il 3% è dolce. L’acqua, dunque, come affermato da Ball in H2O una biografia dell’acqua, è la «matrice della vita». In quanto tale, essa è stata posta come elemento fondamentale per la creazione del mondo: «nella Bibbia “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”; nel Regveda, tutto “era acqua indistinta”». L’indissolubile rapporto acqua-vita, quindi, è stato percepito da molti miti della creazione, come riporta anche Corbellini in un articolo pubblicato da Il Sole 24 ore il 5-1-2003 intitolato Una molecola nell’oceano. Il giornalista afferma anche, però, che l’acqua può costituire un grave pericolo per la salute. Molto spesso, infatti, essa è sporca e per questo motivo favorisce lo sviluppo di malattie quali colera e tifo e trasmette pericolosi virus come quello della malaria. L’uomo, quindi, deve preservare questo bene inestimabile. Purtroppo non lo fa perché, come riportato dagli Atti della Giornata mondiale dell’alimentazione del 2002, pensa che l’acqua sia un bene inesauribile e sempre disponibile. Questa convinzione, però, non è esatta; l’acqua sta incominciando a scarseggiare in alcune zone, mettendo a rischio la sopravvivenza della natura e dell’uomo stesso. Bisogna saper usare correttamente questo bene prezioso, innanzitutto non sprecandolo o sporcandolo. L’uomo, infatti, come afferma Fontana in L’acqua, natura, uso, consumo, inquinamento e sprechi, deve tenere bene a mente che si va incontro alla morte se non si beve per qualche giorno e che, se scarseggia l’acqua, si muore di fame a causa della conseguente carestia. Difatti l’acqua viene impiegata anche in agricoltura, che costituisce il nucleo fondamentale dell’economia di molti stati. Parlò bene il Presidente del Consiglio del 2002 in occasione delle Celebrazioni Ufficiali Italiane per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, quando affermò che il cibo rappresenta la forma primaria che permette uno sviluppo sostenibile. Però, «affinché vi sia cibo occorre che vi sia acqua». L’acqua, dunque, è un bene che deve essere utilizzato sapientemente. Merzagora, in un articolo pubblicato da Il Sole 24 ore del 5-1-2003 intitolato Un patto sul colore dell’acqua, riporta le drammatiche stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questa prevede che entro il 2025 non ci sarà acqua a sufficienza per tutti e bisogna, quindi, correre ai ripari. Cosa fare? Innanzitutto, è necessario agire su scala locale, controllando, ad esempio, l’acqua usata per l’agricoltura, riparando le stupide perdite nelle tubature o evitando di contaminare inutilmente l’acqua. Inoltre, a mio parere, è utile anche far leva sulla comunità, istruendola su un corretto uso dell’acqua e mettendola in guardia sulle drammatiche conseguenze a cui la sua mancanza può portare. Basti pensare alla desertificazione che sta aumentando sempre più e alle carestie che stanno diventando molto più frequenti. Inoltre è possibile agire anche su scala internazionale. Come riportato da Agricoltura, molti paesi stanno mettendo a punto delle tecniche per stimolare la pioggia. Si tratta di utilizzare piccoli aerei che, volando alla base dei sistemi nuvolosi, rilasciano delle piccolissime particelle di ioduro di argento che facilitano il processo di condensazione e, di conseguenza, la formazione della pioggia. L’acqua: un bene di vita e di morte al tempo stesso. Solo l’uomo può essere in grado di preservare le caratteristiche benefiche dell’oro blu facendone un corretto utilizzo e salvaguardandolo.

Il ruolo delle scienze nel mondo di oggi tra etica e progresso

L’Unesco ha dedicato il 2005 alla fisica e, con essa, ad Albert Einstein, che nel 1905, con la pubblicazione delle sue straordinarie scoperte, rivoluzionò la nostra visione del mondo. La notorietà di Einstein è legata in modo particolare alla teoria della relatività, ma anche alle sue qualità morali e ai valori ai quali ispirò la sua azione: fede, non violenza, antifondamentalismo, rispetto per l’altro, egualitarismo, antidogmatismo. Riflettendo sulla statura intellettuale e morale dello scienziato e sulla base delle tue conoscenze ed esperienze personali, discuti del ruolo della fisica e delle altre scienze quali strumenti per la esplorazione e la comprensione del mondo e la realizzazione delle grandi trasformazioni tecnologiche del nostro tempo.

Nei primi decenni del Novecento era opinione comune che il sapere umano si sarebbe dilatato in modo infinito, e di conseguenza ci sarebbe stato un crescente benessere mondiale. L’uomo avrebbe dominato incontrastato sulla natura, e lo sviluppo industriale avrebbe reso tutti ricchi. Questo pensiero positivo derivava dal fatto che invenzioni e realizzazioni tecnologiche facevano una continua comparsa tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Basti pensare ai trafori alpini ottenuti dagli esplosivi, le grandi dighe costruite con calcestruzzo precompresso, l’invenzione della lampadina elettrica. Nel 1881 fu costruita la prima centrale elettrica in Inghilterra. Furono inventati il trattore, l’aereo, il treno elettrico, l’elicottero; nel 1884 fu realizzato il motore a benzina, poi quello Diesel, il pneumatico e l’automobile nel 1888. Furono creati il frigorifero, la radio, la fotografia, il cinematografo, il telefono. Tutte queste invenzioni susseguitesi in così poco tempo crearono un grande stupore fra la gente, e di conseguenza pensieri positivi riguardo il futuro. Per quanto riguarda la fisica, nel XX secolo colui che ha cambiato l’interpretazione nel mondo fisico fu Albert Eistein. Nel 1905 pubblicò tre articoli in cui dimostrava la validità della teoria dei quanti di Planck nell’effetto fotoelettrico dei metalli, esponeva la teoria del moto browniano e quella della relatività speciale, seguita nel 1915 dalla teoria della relatività generale. Queste ultime teorie sconvolsero le precedenti concezioni del tempo, spazio ed energia, e diedero allo scienziato una fama mondiale, soprattutto grazie alle sue qualità umane e pacifiste. Anche la biologia fece passi da gigante. Già verso la metà dell’Ottocento nacquero i primi fondamenti di embriologia e fisiologia. Nell’ambito della microbiologia Pasteur diede il via alle vaccinazioni. In questo periodo Darwin formulò la teoria dell’evoluzione, che provocò forti critiche e dibattiti, soprattutto in ambiente cattolico. Nel corso del secolo le scoperte scientifiche sono diventate sempre più incomprensibili e destinate solo ad un gruppo specializzato. Infatti le biotecnologie, il laser, i calcolatori, la virologia e le ricerche sul cancro sono oscuri per la maggior parte della gente. Ciò avviene anche nella tecnologia, infatti chi usa un videogioco, un cellulare, sa come usarli e che sono il prodotto di applicazioni scientifiche, ma non conosce effettivamente il loro funzionamento. Con l’avvento delle guerre mondiali, l’invenzione delle armi atomiche e le catastrofi ambientali la positività che regnava all’inizio del XX secolo è crollata. Non perché le scienze e le tecnologie siano regredite, anzi le conoscenze sono di gran lunga aumentate, ma perché l’uomo si è reso conto che queste scoperte avrebbero potuto provocare effetti catastrofici. La realizzazione di armi atomiche nel 1945, la costruzione della bomba ad idrogeno e le armi nucleari degli anni Cinquanta resero evidente la possibilità della distruzione del mondo, e quindi provocarono un atteggiamento di forte sospetto nei confronti dei fisici che crearono questi armamenti. Così accadde anche per gli scienziati che realizzarono le armi batteriologiche e chimiche. Tuttavia le scoperte scientifiche hanno anche portato alla completa sconfitta di grandi epidemie che sconvolsero il pianeta nei secoli passati, ed hanno permesso di vivere nel benessere, accrescendo gli anni di vita dell’uomo e diminuendo la mortalità infantile. Di conseguenza crebbe la popolazione mondiale e la produzione industriale, poiché aumentarono i consumatori. Ma se da un lato aumentò il benessere, con una produzione industriale troppo alta rispetto alla capacità dell’ambiente crebbe il degrado. Ricordiamo per esempio la catastrofe industriale di Cernobyl e il petrolio che ha provocato un grave disastro marittimo. E’ giusto dunque porre dei limiti alle scienze? Il problema è stato a lungo dibattuto nel corso degli ultimi decenni. Nei lunghi dibattiti di bioetica si è spesso discusso sull’imposizione di limiti alla ricerca, soprattutto riferendosi al fatto che gli scienziati ora sono capaci di manipolare il patrimonio genetico degli embrioni e creare nuovi esseri viventi. Se da un lato ciò porta alla possibilità di trovare cure a malattie ereditarie, dall’altro può provocare la creazione di agenti patogeni utilizzati nelle guerre batteriologiche. Altri propongono una tesi di equilibrio, secondo la quale il ricercatore si propone di avanzare nel campo delle proprie scoperte, ma se queste dovessero risultare pericolose, dovrebbe applicare le proprie conoscenze per evitare i danni, e soprattutto non utilizzare i risultati ottenuti per scopi negativi. Credo che quest’ultima tesi sia la più appropriata, anche se non tutti gli scienziati hanno una spiccata moralità, e la storia ci porta tanti esempi. Ma d’altro canto l’umanità è volta verso il progresso, ed è giusto che le malattie vengano debellate e che si cerchi di ottenere un benessere sempre maggiore.

I libri digitali

Stampa e scrittura digitale coesistono in un periodo di transizione che preannuncia il futuro digitale. Secondo le recenti disposizioni di legge i testi in adozione presentano una forma mista cartacea e digitale, ossia il contenuto è parzialmente disponibile in Internet, e per la durata dell’edizione saranno periodicamente disponibili, online o in forma cartacea, materiali di aggiornamento e approfondimento. Esprimi le tue opinioni a tale proposito, motivando la tua preferenza.

“E per tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero” ha cantato Roberto Vecchioni all’ultimo Festival di San Remo, riuscendo ad ottenere una meritata vittoria. In un’epoca di transizione che si prepara a sostituire completamente il mondo cartaceo con il mondo digitale, c’è ancora chi si ostina ad urlare e a ricordare quanto sia importante studiare, apprendere da libri fatti di pagine lisce o ruvide, lucide o opache, che possono essere sottolineate, scritte, personalizzate a proprio piacimento. Possedere un’opera, un testo scolastico, una raccolta di poesie tra le mani, significa appropriarsi completamente e affezionarsi a quei caratteri stampati, vuol dire custodirli gelosamente. Consuetamente mi vien ripetuto sia dai miei professori, sia indirettamente dagli autori dei libri che utilizzo a scuola, che nel VII-VI secolo a.C. circa, esisteva una società aurale, divisa, cioè, tra coloro che erano in grado di leggere e scrivere e coloro che, non essendone capaci, continuavano a tramandare oralmente racconti mitologici e gesta eroiche. Traslando questa situazione nel mondo contemporaneo, possiamo notare come tra le due epoche lontanissime vi siano delle congruenze: anche oggi c’è chi si rifiuta di imparare ad utilizzare il computer e, preferisce, dunque, trascorrere dei pomeriggi in biblioteche comunali a consultare della carta scritta e chi,del notebook o del portatile non può più fare a meno. Un tempo nella disputa oralità-scrittura, com’è ben noto, a prevalere fu quest’ultima e, da allora, la vita di ogni singolo individuo, cambiò notevolmente: stesura di leggi scritte che tutelavano maggiormente e, probabilmente, più equamente la persona, possibilità di registrare avvenimenti, biografie, catastrofi per permettere, poi, ai posteri di studiare su fonti certe, diffusione di un nuovo mezzo di conoscenza, il libro. Oggettivamente per poter parlare di “libro” inteso come volume stampato con copertina, pagine, frontespizio, bollatura, bisogna aspettare il 1456, anno in cui Gutenberg portò a termine l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Durante la rivoluzione protestante, avviata nel 1517 con l’affissione delle 95 tesi sulla cattedrale di Wittenberg del monaco tedesco Martin Lutero, la nascita della stampa contribuì alla diffusione della Bibbia tradotta in tedesco e permise a diversa gente di poter possedere almeno un testo sacro. Prima del 1456 chiunque desiderasse avere un libro, doveva rivolgersi ai monaci amanuensi, così chiamati dato che la loro attività principale consisteva nel ricopiare precisamente e, molto pazientemente, dei testi che prendevano, poi, il nome di manoscritti. L’impiego della copiatura richiedeva diverso tempo e queste opere non potevano che essere richieste da famiglie nobili e ricche che avevano il giusto denaro per poter pagare somme molto elevate. Un simile ragionamento, forse, potrebbe appartenere anche ai giorni nostri ma bisogna prendere in considerazione dei soggetti differenti: i libri e il mondo digitale. Le aziende telefoniche, in contesa tra loro, promuovono tariffe per “accontentare” tutti coloro che hanno fatto di Internet il proprio mondo (non solo virtuale). Dal punto di vista economico molte famiglie trovano conveniente acquistare un ADSL che, con una quota mensile fissa, assicura una navigazione nel web ventiquattrore su ventiquattro. Avere a disposizione quest’opportunità, vuol dire, per certi versi risparmiare. A settembre, ogni anni, milioni di genitori devono stringere i denti per poter acquistare i libri per i proprio figli. Annualmente si parla di CaroLibri e di percentuali che tendono ad aumentare. Chi ha più di un figlio deve far fronte in un solo mese a delle spese stratosferiche e nonostante il tenore di vita sia migliorato, il cambio di moneta, e la crisi finanziaria in cui l’intero mondo versa ultimamente hanno impedito di vivere alla maggior parte delle persone serenamente, senza, cioè, dover temere di non riuscire a coprire le uscite mensili. Con delle recenti disposizioni di legge, i testi in adozione presentano una forma mista, sia cartacea che digitale e questa nuova trovata può essere analizzata in due diversi modi. Sicuramente tanti pensano che, ora come ora, sia più facile e meno costoso stampare i libri stando a casa, evitando così code in libreria e corse esasperate negli ultimi giorni; in realtà, credo che questo procedimento sia più economico solo in apparenza, in quanto bisogna sommare il costo della connessione ad Internet, dei fogli da utilizzare, delle cartucce e, di conseguenza si finisce col risparmiare solo qualche euro. Molti insegnati, magari legati alla “tradizione libro” non concepiscono, ancora, l’idea che presto, purtroppo, i bambini non proveranno più gioia sfogliando dei testi scritti, non si emozioneranno più dinanzi a dei volumi dalla pagine ingiallite che “profumano di vecchio”, Difendiamo la bellezza di quella concretezza che noi possiamo toccare con mano e cerchiamo di viaggiare sul pianeta “Internet” senza dimenticare quanto quel mondo sia così astratto e lontano da noi. Il futuro? E’ tutto da vedere. La mia unica speranza è, un giorno, poter rimproverare mio figlio perché ha imbrattato dei banchi in delle normali aule scolastiche e non dover assistere ad un cambiamento epocale con la definitiva creazione di scuole con soli laboratori informatici.

Le nuove professioni della tecnologia digitale

Chi non parla la lingua del computer è escluso dal circuito della comunicazione sociale. La grammatica della tecnologia digitale non si limita ad incidere sulla concezione del mondo, ma determina la portata e gli obiettivi della flessibilità, della virtualità e della razionalizzazione del lavoro. Sorge un nuovo tipo di lavoratori: il “nomade dell’alta tecnologia”. Si potrebbe parlare, infatti, di lavoratori nomadi della rete che, grazie alle nuove tecnologie, sviluppano la capacità di essere, per così dire, simultaneamente in luoghi diversi, vincendo la legge dello spazio e del tempo.

Se tutti gli “over-sessantacinque” viventi conoscessero il latino, a quest’ora, indubbiamente, urlerebbero al mondo la celebre esclamazione ciceroniana: “O tempora, o mores!”, condannando così la vorace decadenza che sta logorando il XXI secolo. L’uomo, assetato dalla volontà di affermarsi nell’attuale società, sfida l’infinito, nonostante sia già consapevole dell’esito di tale battaglia. La tecnologia è il risultato e l’esempio pratico della lotta lanciata dalla ragione umana alle leggi inesorabili della natura.Si ha quasi la convinzione che dei circuiti elettrici, dei monitor, dei cellulari abbiano contribuito a migliorare il tenore di vita dei cittadini moderni e, affascinati da schermi sensibili al tocco e visioni tridimensionali, gli abitanti del pianeta Terra, quotidianamente, s’isolano in un proprio mondo, differente dal globo terrestre. Nasce l’era della virtualità e di conseguenza muore il tempo delle relazioni umane. Social Network e chat permettono a noi tutti non solo di scambiare opinioni digitando delle lettere da una tastiera e cliccando il pulsante “Invia” ma anche di conoscere nuova gente e, senza alcuna esagerazione, d’incontrare la persona che, i nostri nonni, forse, avrebbero definito “l’amore di una vita”. La genuinità dei sentimenti, l’innocenza di uno sguardo tra due giovani ragazzi, gli incontri di lavoro sono, ormai, solo dei ricordi remoti. Assieme ad essi, sono lontani, e passati soprattutto, i tempi in cui si scrivevano delle lettere che giungevano al destinatario dopo un certo numero di giorni, superati gli anni in cui esisteva un solo telefono fisso nelle famiglie più benestanti. Nel 2011 chi non possiede almeno un cellulare o un computer è “degno di condanna”, allo stesso modo di chi commette un reato. Nel momento in cui ci si accinge a scrivere il proprio curriculum vitae non deve assolutamente mancare, tra le altre varie certificazioni, il conseguimento dell’ECDL (European Computer Driving Licence) o, più semplicemente, “patente informatica europea.” Coloro che non hanno ancora ottenuto tale attestato, sono invitati a frequentare un uggiosissimo corso durante il quale si apprendono le nozioni che oggi si ritengono di primaria importanza. Un qualsiasi lavoratore, ora, dal libero professionista all’impiegato, ha l’obbligo di saper utilizzare il computer: chi non conosce la grammatica della tecnologia digitale è escluso dalla società contemporanea. Analizzando i diversi settori, possiamo notare come, recandoci da un medico, questo prescriva dei medicinali mediante dei clic e mandando “in stampa” la ricetta compilata; in farmacia la stessa richiesta viene letta da un puntatore laser che invia dei comandi di ricerca ad un computer; in un’agenzia viaggi gli itinerari vengono progettati attraverso dati digitali; ogni scuola ha il suo sito Internet dal quale gli studenti e i genitori possono accedere a notizie riguardanti i libri di testo utilizzati, l’orario di ricevimento dei docenti, le attività formative in corso. Il mondo del lavoro è dipendente dalla tecnologia dell’informazione: l’informatica ha sicuramente portato dei notevoli cambiamenti nella sfera lavorativa: grazie ad Internet, la rete delle reti e, grazie alle reti informatiche in grado di mettere in comunicazione delle persone situate in due aree geografiche distanti, un uomo ha acquistato la capacità di essere simultaneamente in luoghi diversi, trovandosi, in realtà, in un unico posto. Il computer ha giovato nel mondo del lavoro in quanto ha acconsentito a ridurre il numero dei pendolari, permettendo a molti impiegati e soprattutto a molti appartenenti al settore dirigenziale di trascorrere dei giorni più tranquilli, senza lo stress delle frenesia quotidiana. Allo stesso tempo la tecnologia digitale ha comportato una riduzione dei rapporti lavorativi: non possono più esserci delle strette di mano tra colleghi, dei confronti di giudizi differenti in merito a documenti cartacei. La perdita derivata dall’avvento tecnologico non si tiene in considerazione, in particolare quando ci si accorge di quanto, sfruttando il calcolatore, il lavoro sia stato velocizzato e razionalizzato. Inoltrare delle lettere a più persone per convocare loro a dei colloqui o per informare loro su delle novità lavorative, è un’operazione che richiede pochi istanti e qualche clic; ricercare dati personali, quali il Codice Fiscale, è un’attività che può essere portata a termine da chiunque abbia installato sul proprio computer il giusto programma per farlo. Hotel e aziende possono essere pubblicizzati anche attraverso Internet, librerie e biblioteche si servono del computer per stilare e memorizzare gli elenchi dei libri a disposizione di coloro che hanno il desiderio di acquistarli o di prenderli in prestito. Volendo ricorrere al linguaggio proprio di Facebook, il Social Network colpevole di aver ammaliato adulti e ragazzi, potremmo affermare che “la tecnologia informatica è ufficialmente fidanzata con l’ambito occupazionale” e a tanti “quest’elemento piacerebbe”. “Est modus in rebus, sunt certi denique fines/ quos ultra citaque equità consistere rectum”, ricorda il buon Orazio nelle “Satire” e sarebbe opportuno che tutti interiorizzassero questi versi, per far tornare alla memoria che bisogna sempre seguire un principio di moderazione e di equilibrio nelle situazioni. E’ giusto riconoscere che la tecnologia digitale abbia permesso di “avere il mondo a portata di clic” ma, nel frattempo, è doveroso ammettere che l’informatica abbia partecipato alla crisi di valori nella quale navighiamo da decenni.

Le catastrofi naturali e la forza inarrestabile della Natura

Destinazione: rivista scientifica

Fin dai tempi antichi, l’uomo ha avuto rapporti con la Natura. Da essa ha sempre tratto sostentamento, tanto da rispettarla e salvaguardarla. Tuttavia il rapporto di amicizia uomo-natura è andato via via diminuendo, a causa del progresso che si è attuato attraverso i secoli. Oggi, infatti, sembra che l’uomo voglia imporsi su di essa, quasi come volesse schiavizzarla per ottenere sempre più materie prime. Ma la Natura mal sopporta questo affronto e, periodicamente e inaspettatamente, ricorda all’uomo la sua piccolezza e lo invita a non essere avido, moderando la sua azione distruttrice. Soprattutto in questi ultimi anni, si stanno verificando terribili catastrofi naturali che si abbattono sull’uomo, provocando numerosi danni e vittime. È come se la Natura rispondesse agli attacchi invadenti della creatura umana. E questi nulla può contro di essa. La forza della Natura è stata oggetto di riflessione fin dai tempi antichi ed è sempre apparsa come un qualcosa di misterioso, da scoprire. Infatti Goethe, nel Frammento sulla natura, afferma che l’uomo «vive in mezzo a lei, ma le è straniero». Ciò significa che egli non può capirne i significati più profondi e non può prevedere né dove né quando la Natura si scaglierà contro di lui. L’essere umano può tentare solamente di difendersi dai suoi attacchi e sperare che essa voglia essergli benevola. Platone, nel Timeo, vede nella forza distruttrice della Natura una punizione degli dei alle azioni nefaste dell’uomo. Basti pensare a quello che accadde all’isola di Atlantide, che, nell’arco di un giorno, a causa di terremoti e inondazioni, scomparve inghiottita dal mare. La Natura si ripete negli anni e nei secoli. Infatti un’analoga situazione si è verificata nel 2004 in Indonesia. Dopo un violento maremoto, una gigantesca onda assassina si è versata con impeto sulle spiagge asiatiche, spazzando via parte di quelle meravigliose coste e cambiando, così, la formazione geo-fisica del territorio. Nonostante il progresso e le tecniche sempre più raffinate, l’uomo continua a contrastare la Natura senza ottenere, però, grandi successi. Le catastrofi naturali sono diventate molto più frequenti e distruttive. Come mai? L’uomo, per sete di ricchezza, ha ormai l’illusione di essere più potente della Natura e interviene sull’ambiente senza più rispetto per esso. Molteplici sono le conseguenze: l’assottigliamento dello strato di ozono, lo scioglimento dei ghiacciai, uragani, alluvioni… ma l’uomo può prevedere quando avverranno queste catastrofi? Boncinelli, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 2/1/2005 intitolato Dall’asse distorto ai grappoli sismici. Quando la scienza vuol parlare troppo, si dice scettico riguardo questa possibilità. Egli, infatti, afferma che anche la Terra è fragile ed è «difesa soltanto dalle leggi della fisica e dall’improbabilità di grandi catastrofi astronomiche». Siccome l’uomo ignora tante cose soprattutto nell’ambito delle scienze della Terra, è chiaro che «eccetto in casi particolarmente fortunati, non siamo ancora in grado di prevedere terremoti e maremoti». L’uomo può comunque intervenire quando si manifestano catastrofi naturali. Il suo intervento, però, non è sempre lo stesso. Infatti, come afferma Thom in Modelli matematici della morfogenesi, «il mondo brulica di situazioni sulle quali visibilmente possiamo intervenire, ma senza sapere troppo bene come si manifesterà l’effetto del nostro intervento». Di conseguenza, ci sono momenti in cui l’uomo può intervenire per ridurre gli effetti delle catastrofi naturali e altre situazioni in cui è praticamente impotente di fronte alla violenza della Natura. Concludo citando Rusconi che, in un articolo pubblicato sulla Stampa il 30/12/2004 intitolato L’Apocalisse e noi, afferma che la Natura ricolloca l’uomo nella sua condizione umana, mostrandogli continuamente la sua debolezza e la sua impotenza. Infatti, a mio avviso, non bisogna dimenticare che la Natura è madre e l’uomo il figlio che da essa dipende. Dunque, se l’uomo continuerà con questo suo atteggiamento irrispettoso, la Natura diventerà sempre più aggressiva e imprevedibile e punirà ancor di più questo suo figlio ribelle.

La misteriosa forza della natura

Catastrofi naturali: la scienza dell’uomo di fronte all’impon-derabile della Natura! Destinazione: rivista scientifica.

Quando si parla di ambiente e di tutela degli equilibri naturali si pone l’attenzione su un problema di estrema importanza; quando si parla dei rischi che possono conseguire a un uso del territorio che non tenga conto dell’impatto ambientale, non si fa dell’inutile allarmismo. E infatti, dopo le catastrofi naturali, ci si chiede sempre: sarebbe stato possibile evitare quello che è successo? Si è colpevoli di vittime e danni? Purtroppo gli interrogativi del dopo servono a ben poco se, passata l’emergenza, si ritorna a devastare senza contegno il territorio, senza ricavare alcuna lezione dall’esperienza subita. Bisogna convincersi che le catastrofi naturali, come terremoti, alluvioni, frane, maremoti, onde anomale, se sono inevitabili, tuttavia i loro effetti dannosi possono essere contenuti dall’uomo con una saggia opera di prevenzione e con un uso del territorio razionale e rispettoso degli equilibri ambientali. Purtroppo, però, l’uomo, per sete di ricchezza, continua a non rispettare la natura, ma la continua a sfruttare senza misura. Le catastrofi, così, stanno diventando sempre più frequenti. Ma quali sono le origini delle catastrofi? Nell’antichità, si era convinti che i disastri naturali derivassero da un errato comportamento delle divinità. Platone, ad esempio, nel Timeo, afferma che Atlantide è scomparsa perché gli dei hanno voluto purificare in modo eccessivo la terra. Dice anche che Fetonte, figlio di Apollo, bruciò tutta la terra e morì egli stesso perché si impadronì del carro del padre non sapendolo guidare. Oggi si sa che le cause delle catastrofi naturali sono di origine scientifica. Bonatti, nell’articolo intitolato Ma è l’oceano che ci dà vita pubblicato da Il Sole 24 ore il 2/1/2005, espone come si sviluppa un maremoto. Egli afferma che «gli ingredienti di uno tsunami o maremoto sono due: grandi masse d’acqua, cioè l’oceano; e […] la litosfera terrestre». Quando la terra sotto l’acqua si muove, crea un’onda anomala, appunto il maremoto. Rimane nella memoria il triste maremoto che colpì l’Indonesia nel 2004. Un’onda aggredì le coste di alcuni Paesi rivieraschi dell’Oceano Indiano per decine di migliaia di chilometri cambiando la conformità di quelle belle coste. Quando avviene un disastro, la domanda che l’uomo si pone è sempre la stessa: si sarebbe potuto evitare? Si poteva prevedere? Sono domande inquietanti. Rusconi, nell’articolo L’apocalisse e noi pubblicato dal quotidiano La Stampa il 30/12/2004, afferma che ogni disastro naturale «ci pone davanti alla nostra nuda condizione umana e alle nostre responsabilità». La forza della Natura, infatti, è molto grande e l’uomo molte volte non può nulla contro di essa perché non possiede ancora conoscenze sufficienti. Come afferma infatti Boncinelli nell’articolo Dall’asse distorto ai grappoli sismici. Quando la scienza vuol parlare troppo pubblicato dal Corriere della Sera il 2/1/2005, «eccetto in casi particolarmente fortunati, non siamo ancora in condizione di prevedere i terremoti e i maremoti». Bisogna, però, continuare lo stesso ad investire sulla prevenzione. Alle volte anche l’intervento dell’uomo in favore di popolazioni colpite da disastri naturali risulta inefficiente in quanto non si conosce con quale intensità la Natura decide di colpirlo. Lo tsunami del 2004, pur nella sua inevitabilità, avrebbe potuto provocare danni di gran lunga inferiori se soltanto gli uomini fossero stati più accorti. Con i sofisticati sistemi tecnologici di cui disponiamo, di avvistamento e trasmissione dei dati attraverso le reti satellitari, sarebbe stato possibile avvertire per tempo le popolazioni interessate dall’evento catastrofico, in modo da farle allontanare dalle coste, cioè dai luoghi maggiormente a rischio. Invece questo non è stato fatto, per l’assenza di un sistema di protezione civile capace d’intervenire in tempo reale in occasioni del genere e sia per la responsabilità. La natura, dunque, rimane per noi ancora un grande mistero. Come afferma Goethe, nel Frammento sulla natura, «Natura! Ne siamo circondati e avvolti – incapace di uscirne, incapace di penetrare più addentro in lei». L’uomo deve continuare la sua ricerca di conoscenza per tentare di ridurre i danni provocati da un’improvvisa catastrofe naturale. Ma è anche fondamentale che rispetti l’ambiente: solo così si possono evitare danni peggiori.

La corretta alimentazione è alla base di una buona salute

Siamo quel che mangiamo? Destinazione: rivista scientifica

Mangiare bene significa vivere in salute. Una corretta alimentazione unita a uno stile di vita equilibrato, infatti, giovano al nostro stato fisico. Si è sempre detto che in Italia si mangia bene e infatti la maggior parte dei paesi stranieri prende ad esempio l’ottima cucina italiana. Essa è caratterizzata dalla Dieta Mediterranea: si mangia, cioè, usando sapientemente olio d’oliva, cereali, frutta fresca e secca, verdure, pochi latticini e carne e molti condimenti e spezie. Le proprietà salutari della Dieta Mediterranea sono state esaltate anche dal CNI-UNESCO, che il 17 novembre 2010 ha dichiarato questa dieta «patrimonio immateriale dell’umanità», mettendola in risalto anche con le tradizioni italiane che comprendono colture, raccolta, pesca, conservazione, trasformazione, preparazione e consumo del cibo. La Dieta Mediterranea non è semplicemente cibo; è anche «interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende». Oggi, però, stanno aumentando i problemi legati a una scorretta alimentazione. La maggior parte delle volte non si ha nemmeno il tempo di cucinare, si preferisce consumare un panino o cibi precotti. Questo non giova alla nostra salute, anzi. Il cibo, come afferma Carlo Petrini in un articolo pubblicato da La repubblica il 9/6/2010 intitolato Il nuovo patto per la natura, è diventato una semplice merce: non si comprano più dei buoni alimenti, ma si preferiscono prodotti di scarsa qualità. Questo avviene perché è il modo di produzione alimentare che ormai è fallimentare: l’agricoltura preferisce le monoculture, mentre l’allevamento è sottoposto a eccessivo sfruttamento. Il cibo è, dunque, diventato una semplice merce che, in quanto tale, può essere anche sprecata. Questo, a mio parere, è un grave peccato, se si pensa che i paesi industrializzati buttano nell’immondizia cibo in grande quantità, mentre nei paesi sottosviluppati ci sono persone che non hanno niente da mangiare e muoiono di fame. Per non avere gravi problemi di salute, dunque, è necessario vivere in modo equilibrato e mangiare correttamente. Come affermato da Adele Sarno in un articolo pubblicato da La Repubblica l’1/4/2011 intitolato Otto ore seduti? Il cuore rischia doppio. Arriva l’auto-test per la prevenzione, per evitare danni al cuore non bisogna stare sempre fermi e non si deve mangiare male. Assumere pasta molto condita col pane e carni grasse più volte alla settimana, infatti, è un esempio di scorretta alimentazione. Bisognerebbe mangiare pochissime volte a settimana carni grasse e formaggi e aumentare, invece, la quantità di pesce e verdure. Inoltre bisogna anche avere un corretto comportamento mentre si mangia. Come afferma Silvia Maglioni in Mangiare davanti al computer fa male alla linea, è scorretto assumere cibo mentre si sta lavorando o giocando al computer. La nostra attenzione, infatti, non si concentra su quello che ingeriamo, ma su ciò che stiamo facendo col pc. In questo modo, si assumono più calorie di quelle che il nostro corpo ha bisogno giornalmente e si finisce per mettere su chili di troppo. Quindi, secondo me, è necessario spegnere il computer, sedersi a tavola e mangiare correttamente. Si pensi anche che il pranzo o la cena costituiscono momenti per stare insieme alla famiglia e, quindi, è possibile dialogare raccontando ciò che è successo durante la giornata. Dovremmo, quindi, fermarci un attimo e staccarci dal nostro tran-tran quotidiano. Solo così possiamo capire che molti problemi di salute potrebbero essere evitati se solo si facesse maggiormente attenzione a ciò che si mangia e se si evitasse una vita sedentaria.

La potenza dell’amore

Destinazione: giornale scolastico

Non c’è sentimento più bello dell’amore. Quando lo proviamo, ci sentiamo appagati, non siamo più soli e siamo in grado di affrontare qualsiasi tipo di difficoltà perché abbiamo al nostro fianco la persona che amiamo di più al mondo. Per lei siamo capaci di compiere delle “pazzie” e di metterci contro tutto e tutti pur di difendere il nostro sentimento. Guardando il dipinto di Magritte, Gli amanti, mi viene in mente che si dice che l’amore è cieco. I due personaggi che si baciano, infatti, hanno il viso coperto. L’amore, infatti, è un sentimento che può superare ogni limite, in quanto può manifestarsi anche tra persone con una grande differenza di età ed è capace di far accettare i difetti dell’altro. Quando ci si innamora, si è felici. Sembra di poter camminare “tre metri sopra il cielo”, per citare il famoso romanzo di Federico Moccia. Ed è questa l’impressione che si trae osservando il dipinto di Chagall intitolato La passeggiata: la donna è contenta di stare al fianco dell’amato e questa sua gioia la fa innalzare da terra verso il cielo. Molto spesso non si è in grado di contrastare l’amore poiché esso può essere anche una passione travolgente. È il caso di Paolo e Francesca, protagonisti del quinto canto dell’Inferno di Dante. I due amanti si trovano nella cerchia dei lussuriosi e sono condannati in eterno ad essere trasportati dalla bufera infernale che non si arresta mai. In vita, infatti, Paolo e Francesca sono stati travolti dalla tempesta dell’amore. Francesca racconta che l’amore fece innamorare Paolo di lei e poi si insidiò anche nel suo animo. I due consumarono la loro passione ma furono scoperti e uccisi da Gianciotto, marito di Francesca e fratello di Paolo. In questo caso, dunque, si tratta di un amore peccaminoso a cui, però, nessuno dei due amanti ha saputo resistere. Ma l’amore è un sentimento in grado anche di appagare l’uomo. Gozzano, ad esempio, in La signorina Felicita ovvero la felicità, afferma di essere lusingato dal fatto che Felicita faceva di tutto per piacere ai suoi occhi. Gozzano, inoltre, dice anche che per lei sarebbe stato disposto ad allontanarsi dalla letteratura che rende la vita simile alla morte. L’amore, quindi, è vita. In quanto tale, si contrappone alla morte. A mettere in risalto questo contrasto è anche Leopardi in Amore e morte. Il poeta afferma che Amore e Morte hanno generato la sorte. Dall’Amore nasce il bene e, perciò, esso viene perseguito dai fanciulli in quanto è capace di dare conforto al cuore durante il cammino tortuoso della vita. La morte, invece, causa solo dolore e annulla ogni male. Purtroppo, però, anche l’amore può essere causa di dolore. Ciò avviene soprattutto quando due persone si lasciano. La vita, in questo caso, non ha più senso. È quanto appare dalla lettura della poesia di Cardarelli intitolata Distacco. Il poeta, infatti, afferma che la sua vita non sarà più capace di offrirgli alcun bene, proprio perché si è separato dalla donna che per lui fu «più che una sposa». L’innamoramento e l’amore costituiscono, quindi, l’essenza della vita. Come afferma Alberoni in Innamoramento e amore, questi sentimenti fanno luce in un mondo opaco, caratterizzato soprattutto dal male. Quando ci innamoriamo, ci sentiamo al centro del mondo e facciamo di tutto pur di ottenere la felicità che riscontriamo quando siamo con la persona amata. L’amore, quindi, nell’incontro dei nostri desideri e di quelli dell’amato, non è altro che fare delle cose per rendere felici noi stessi. La vita quotidiana abbandona la sua routine perché si cerca sempre di fare qualcosa di nuovo per colpire l’attenzione di chi ci sta accanto. Certo, l’innamoramento può far perdere tutto (ed essere, quindi, inferno) o conquistare tutto (e diventare paradiso). Io sono del parere che conviene sempre rischiare per amore. Se siamo convinti che la persona che ci sta affianco può veramente renderci felici, vale la pena mettere in gioco tutto pur di arrivare a godere appieno di questa gioia.

L’amore come rimedio alla cattiveria umana

Destinazione: rivista rosa

Viviamo, ormai, in un mondo fatto soprattutto di cattiverie. Se accendiamo la televisione, infatti, ci vengono sempre date notizie di stragi, morti e uccisioni. Anche se camminiamo per il nostro paese e ascoltiamo i discorsi degli amici, ci rendiamo conto che, nello sfogo, parliamo di persone che ci hanno fatto del male. Siamo, quindi, portati a perdere la speranza e a comportarci come gli altri si comportano con noi. Per non essere preda della cattiveria, però, dovremmo pensare che esiste l’amore. Esso, infatti, è un sentimento capace di ridarci speranza e vita poiché ci fa uscire dalla routine quotidiana. Come afferma Alberoni in Innamoramento e amore, ciò che facciamo per la persona amata appaga soprattutto noi stessi. Per attirare l’attenzione dell’altro, facciamo sempre cose nuove. E, se riusciamo a far combaciare i nostri desideri con quelli della nostra amata metà, possiamo vivere felicemente. In questo caso, l’amore diventa paradiso. Ma l’amore, purtroppo, non è sempre rose e fiori. Per esso si può anche soffrire terribilmente. Questo accade quando non si riesce a far colpo su chi ci piace o quando due persone, che sono state insieme per tanti anni, si lasciano. Questo tipo di dolore viene espresso emblematicamente da Cardarelli nella poesia intitolata Distacco. Il poeta afferma che ormai per lui la vita è diventata un inutile peso. Ha lasciato, infatti, la donna che amava e che per lui era diventata «più che una sposa». L’amore può provocare sofferenza anche perché può diventare peccaminoso. Ciò avviene, ad esempio, fra una coppia di amanti. Essi non possono amarsi liberamente, ma possono farlo di nascosto. Le conseguenze, però, possono portare addirittura alla morte. È il caso di Paolo e Francesca, i due amanti ricordati da Dante nel quinto canto dell’Inferno. Francesca è sposata con Gianciotto, fratello di Paolo. Quest’ultimo, però, viene accecato da un forte amore verso la cognata. Anche lei non riesce a resistere a questo sentimento e i due consumano la loro passione. La loro relazione, però, viene scoperta da Gianciotto che, sentitosi tradito, li uccide. L’amore, in questo caso, è anche una passione travolgente. Perciò nell’inferno i due amanti sono condannati a essere sospinti in eterno da una tremenda burrasca che non si arresta mai. L’amore può essere anche contrario di morte. Questo contrasto viene messo in evidenza da Leopardi in Amore e morte. Il poeta dice che la sorte è stata generata proprio da questi due elementi. Amore, però, produce felicità e, quindi, molti fanciulli lo perseguono, mentre Morte provoca solo dolore. Per amore si è disposti a tutto. Il poeta Gozzano, ad esempio, in La signorina Felicita ovvero la felicità, sostiene che sarebbe disposto a lasciare la letteratura per la sua amata. Il poeta, infatti, è compiaciuto perché ha attirato l’attenzione di Felicita che fa di tutto pur di rendersi bella ai suoi occhi. L’amore, inoltre, può trasportare chi lo prova in un’altra dimensione. Siamo molto felici, infatti, quando pensiamo alla persona amata e la nostra fantasia inizia ad immaginare quanti bei momenti potremmo passare quando abbiamo il nostro amato vicino. È questa la sensazione che emerge dal dipinto di Chagall, La passeggiata. La donna, infatti, è raffigurata mentre vola leggera e gioiosa in aria sostenuta per mano dal suo amato. L’amore, quindi, è l’unico sentimento in grado di far superare le difficoltà. I problemi della vita sembrano essere più leggeri quando si affrontano con la persona amata affianco. Inoltre, l’amore ci fa superare i difetti degli altri. Infatti, si è disposti ad accettare tutto della persona amata. È quindi un amore incondizionato, cieco. Questa visione dell’amore è ben rappresentata da Magritte nel dipinto Gli amanti. Le due persone che si baciano, infatti, sono raffigurate col volto coperto. Non importa, quindi, come sia l’altro, se bello o brutto, ma l’importante è il sentimento che si prova verso di lui. L’amore, dunque, è l’unico sentimento che ci può permettere di diventare persone migliori non inclini alla cattiveria.

La forza dell’amore

Amore, odio, passione. Destinazione: rivista rosa

Guardando il quadro di Klimt “Il bacio” mi è venuto in mente che si dice spesso che un bacio è un apostrofo rosa tra le parole “ti amo”. Ma quanti significati può avere un bacio? Esso può essere simbolo di amore (si pensi al bacio tra una coppia di fidanzati), di passione (come nel caso di una coppia di amanti) o di odio e tradimento (come nel caso di Giuda). Anche l’amore, come il bacio, può avere diverse accezioni. Può essere inteso in senso stretto (nel caso di una coppia di coniugi o di un figlio verso i genitori) oppure in modo più superficiale. In quest’ultimo caso è passione. Ma amore è anche contrario di odio o può procedere pari passo con esso. La letteratura offre esempi di questi tipi di amore. Manzoni, ne “I promessi sposi”, presenta la vicenda di Gertrude, ragazza costretta dalla sua famiglia a farsi suora nonostante abbia il desiderio di sposarsi come tutte le sue compagne. Questo porta la donna ad avere una doppia personalità e a provare sentimenti contrastanti: ama nel peccato Egidio, invidia chi può amare liberamente e odia la consorella che la scopre a punto tale da farla uccidere. Il desiderio di amare e sentirsi amata porta di conseguenza Gertrude a detestare e a provare gelosia verso tutto ciò che la circonda. Semplice passione è anche quella provata da Emilio, protagonista del romanzo “Senilità” di Svevo, verso Angelina. L’uomo possiede la sua amante, ma alla fine avverte un senso di vuoto. Fisicamente è soddisfatto, ma dentro di sé non percepisce più l’istinto e l’entusiasmo che aveva provato prima di giacere con la donna. In questo caso, dunque, si tratta di un amore superficiale, ma anche di un sentimento che va di pari passo con l’odio: Emilio, infatti, possiede una donna che non ama, ma odia. Infine, guardandola illuminata dalla luna, pensa che non starà più con lei. Amore puro è invece quello di Ettore e Andromaca. I due sono rappresentati da De Chirico nell’omonimo quadro. Troia sta per essere distrutta e Ettore lascia momentaneamente la battaglia perché vuole rivedere per un’ultima volta la sua famiglia. Andromaca è in lacrime: prega Ettore di rimanere con lei in nome dell’amore che li lega. L’uomo, però, non può accontentarla: deve continuare a combattere per la patria e per l’onore. Ma il motivo principale che lo spinge verso una morte sicura è l’amore: l’uomo non vuole vedere la propria donna prigioniera, preferisce ricordarla viva e libera tra le mura di Troia e vuole che si dica che lei è stata la moglie di quel famoso Ettore caduto in battaglia. Io penso che l’amore sia anche un sentimento in grado di superare il tempo. L’esempio può essere quello di Giorgio Aurispa, protagonista de “Il trionfo della morte” di D’Annunzio. Egli ama Ippolita e inizia una relazione con lei. È, però, costretto ad allontanarsi. Quando ritorna, Giorgio è cambiato. Riprende insoddisfatto la sua relazione ed è ossessionato dall’idea della morte a punto tale da decidere di uccidersi con la sua donna gettandosi da una scogliera. Solo in questo modo i due rimarranno per sempre insieme. Nella parola “amore”, dunque, sono racchiusi diversi concetti: passione, odio, eternità.

La rivoluzione della comunicazione

Da Gutenberg al libro elettronico: modi e strumenti della comunicazione. Destinazione: giornale scolastico

Nei secoli precedenti, la cultura non era a disposizione di tutti. Pochi, infatti, erano coloro che sapevano leggere e scrivere e che potevano permettersi di comprare un libro. Inoltre, sul mercato, esistevano pochi volumi a disposizione degli intellettuali. Questo perché non esisteva ancora la stampa. I libri, infatti, venivano ricopiati a mano nei monasteri dagli amanuensi. Essi erano veri e propri scrivani che curavano la trascrizione e la trasmissione dei testi. Le copie dei libri, quindi, erano molto limitate e la diffusione della cultura era molto lenta. La situazione cambiò radicalmente nella seconda metà del Quattrocento. Fu in questo periodo che Gutenberg riuscì a stampare libri grazie all’invenzione dei caratteri mobili. Insomma, Gutenberg fu il precursore della stampa moderna. Come ricorda Sartori in Homo videns, l’invenzione della stampa costituì un enorme salto tecnologico. Il primo libro ad essere stampato e diffuso, tra il 1452 e il 1455, fu la Bibbia. Di essa ne furono stampate duecento copie. La straordinarietà dell’evento fu che «quelle duecento copie erano ristampabili» e, quindi, potevano arrivare a più persone. Di conseguenza, con la stampa la cultura diventava accessibile a tutti proprio perché permetteva la diffusione delle opere in un tempo minore rispetto a quanto potevano fare i semplici amanuensi. Sartori continua affermando che da allora il progresso della comunicazione fu veloce. Tra Settecento e Ottocento, infatti, cominciarono ad essere stampati giornali tutti i giorni (i primi quotidiani). Seguirono le invenzioni del telegrafo e del telefono che permettevano di ridurre la distanza fra chi comunicava. Era possibile, infatti, il contatto fra persone molto distanti tra loro. Lo sviluppo tecnologico in campo delle comunicazioni non si arrestò. Passando per la nascita delle radio, si arrivò, nella metà del Novecento, all’invenzione della televisione. Si trattava di un mezzo che offriva ad un pubblico vasto di spettatori «cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza». La differenza tra la radio e la televisione era appunto questa: la prima parlava, la seconda faceva vedere. La voce della televisione, cioè, serviva semplicemente per commentare le immagini che scorrevano davanti agli occhi. Con la tv, quindi, assumono più importanza le immagini rispetto alle parole. Questo, a detta di Sartori, ha riportato l’uomo alla sua condizione primordiale: egli, cioè, si limita a vedere come l’animale. La differenza tra uomo e animale è, appunto, l’utilizzo della voce e, dunque, essa era più marcata quando si dava maggiore importanza al suono che alla vista. Anche Marigliano si sofferma sulla rilevanza della voce. In Nuovo manuale di didattica multimediale, infatti, afferma che l’uomo ha sempre avuto il desiderio di «catturare, riprodurre, trasmettere a distanza i suoni delle voci e delle cose» e ci è riuscito. Il mondo, con la stampa di Gutenberg, era in silenzio; ha cominciato a parlare facendo ascoltare la sua voce grazie al successivo sviluppo tecnologico. Oggi il progresso ha fatto ancora passi in avanti. Il computer ha rivoluzionato completamente la nostra vita. Grazie ad internet, infatti, oggi la comunicazione è diventata velocissima. Le notizie sono sempre aggiornate, minuto per minuto, e provengono anche dalle parti più lontane del mondo. Di conseguenza, anche il diffondersi della cultura è cambiato. Come afferma Simonelli in Tuttoscienze del 23 febbraio 2000, si è passati dal semplice libro di carta all’e-book cioè al libro elettronico. Questo può essere scaricato e letto su qualsiasi dispositivo elettronico in grado di decifrare i dati presenti in rete. Dunque, «addio carta, addio biblioteche con chilometri di scaffali dal pavimento al soffitto». L’e-book costituisce un’altra importantissima invenzione che permetterà una diffusione della cultura sempre più veloce. Molte più persone, grazie prima a Gutenberg e all’e-book dopo, possono avvicinarsi alla cultura. E questo è un grande vantaggio per l’umanità che può continuare a studiare e a investire risorse affinché si progredisca ancora.

Etica dello sport e interessi economici

Nell’ultimo periodo il valore dello sport ha assunto caratteri diversi, intrecciandosi anche con gli interessi economici. Spiega se esiste ancora un’eticità nello sport e di che natura è il suo rapporto con la società attuale.

“Ai Tindaridi ospitali e a Elena bella di riccioli voglio piacere, onorando Agrigento famosa ed ergendo per Terone ad inno olimpionico, il fiore di cavalli dai piedi instancabili …”. I versi appartengono all’Olimpica di Pindaro dedicata a Terone di Agrigento, un atleta che partecipò alla corsa dei carri durante le Olimpiadi. Gli atleti dell’antica Grecia traevano la loro felicità per la vittoria da una corona di alloro e dall’esaltazione della poesia, che avrebbe mantenuto il ricordo tra i posteri. Negli ultimi anni lo sport ha subito una sorta di evoluzione, mutando il rapporto tra atleta e società. Infatti, fino a poco tempo fa, gli atleti fondavano la propria educazione sportiva sul rispetto delle regole, sul modo corretto di condurre il gioco, e soprattutto senza avere interessi economici. Successivamente però è entrato in scena il ruolo politico nelle vittorie sportive. Infatti, soprattutto riguardo le Olimpiadi, i Paesi si sono accorti che vincere le gare dava un immenso prestigio e un’immagine positiva delle capacità organizzative e scientifiche della nazione. E insieme a ciò, anche gli interessi economici e le sponsorizzazioni sono diventati sempre più frequenti. Nelle olimpiadi la gara atletica ormai sembra quasi un fatto marginale, mentre sono in primo piano le esigenze di commercio. Ad esempio, si sponsorizzano anche i minimi dettagli dell’abbigliamento e degli accessori degli atleti, come occhiali, orologi, scarpe e vestiti. Gli orari delle competizioni vengono decisi poi in base alle esigenze televisive. Anche i campioni hanno i loro interessi economici, e partecipano agli incontri sportivi richiedendo remunerazione che vanno dai 100.000 ai 180.000 dollari per ogni evento. E’ per ragioni economiche e politiche che nello sport si vuole vincere a tutti i costi, non per puro amore di ciò che si sta facendo o desiderio di gloria, e spesso ci si spinge oltre i propri limiti naturali. Facendo tutto questo, si rinnegano i principi fondamentali dell’etica sportiva e dell’atleta stesso, che un tempo si spingeva oltre solo per vedere fin dove poteva arrivare con le sole proprie capacità. Oggi lo sport, purtroppo, non vive in un ambiente sincero e incontaminato, non c’è più uguaglianza e trasparenza. E’ circondato da gente furba, e ogni risultato raggiunto da una squadra o da un atleta è seguito dal dubbio se sia stato ottenuto con mezzi puliti o no. Un problema presente nel mondo degli atleti è quello del doping, nato negli anni Cinquanta nell’ambito del ciclismo. All’epoca esistevano le cosiddette “bombe”, prodotti a base di simpamina, che azzeravano la sensazione di stanchezza nel ciclista, senza altri effetti. Successivamente è avvenuto un vero e proprio boom del doping, utilizzando in modo illegale prodotti farmaceutici ufficiali e facendo degli esperimenti per scoprire sostanze capaci di aumentare il rendimento muscolare e favorire la concentrazione mentale. Nello sport non ci sono limiti insormontabili per l’uomo, basta fare sacrifici e allenarsi, avere delle doti fisiche, fare una corretta alimentazione. Per esempio, Bob Hines, vincitore dei 100 metri alle olimpiadi di Tokio, non utilizzando alcun tipo di sostanze ha dimostrato di essere un grande modello di potenza fisica. E vi saranno sempre miglioramenti nelle prestazioni fisiche dei futuri atleti, grazie anche alle nuove tecnologie e all’elasticità delle piste sintetiche. Inoltre la frontiera tra cura medica e doping non è poi così netta, soprattutto riguardo la quantità degli apporti farmacologici. Alcune sostanze prese nelle giuste dosi hanno effetti curativi, ma in dosi sbagliate ed eccessive possono avere conseguenze molto gravo. Per esempio gli anabolizzanti, che hanno delle specifiche indicazioni mediche, vengono assunti in modo esagerato dai culturisti, con effetti molto pericolosi. L’emotrasfusione è un’altra tecnica adottata nello sport. Si preleva un litro di sangue all’atleta alcuni mesi prima della stagione sportiva, che sarà poi iniettato prima delle gare. In questo modo la capacità organica dell’uomo passa da cinque litri di sangue a sei. Poco tempo fa questo stratagemma era lecito, ma dopo aver scoperto gli effetti dannosi che può provocare è stata vietata. Le competizioni sportive non avvengono più tra persone uguali. Per poter gareggiare servono molti soldi, investiti in cure mediche, studi scientifici e ricerche tecnologiche. Dunque, solo chi ha un potere economico molto alto alle spalle ha la possibilità di vincere. Si continua costantemente a cercare e creare nuove sostanze dopanti, e a capo dello sport vi sono società ricche e privilegiate, mentre quelle povere sono costrette a vendere i propri atleti alle società delle nazioni occidentali, in modo che possano avere un allenamento adeguato. Oggi dunque lo sport non insegna più ad essere uguali, ma la disuguaglianza, a partire dai genitori che riversano sui figli i propri desideri di vittoria, per arrivare agli organizzatori degli eventi, ai responsabili delle società, costantemente speranzosi di ottenere sovvenzioni. I giovani sportivi vogliono sempre imitare i campioni del loro campo d’interesse, ma se questi assumono doping offrono sicuramente un pessimo esempio da seguire, aggravato dal fatto che l’ambiente in cui vivono non condanna questa pratica, ma la giustifica. L’educazione allo sport va impressa già nell’ambito scolastico, e probabilmente con le nuove facoltà specifiche di scienze motorie, questo potrebbe realizzarsi già nei prossimi anni.