Come si articola secondo Schopenhauer il cammino di salvezza che l’uomo deve percorrere per liberarsi dal dolore, dalla tirannia dei bisogni e dall’egoismo connessi alla volontà di vivere?

Secondo Schopenhauer la vita è sostanzialmente dolore al di là di qualsiasi ingannevole apparenza. L’unica risposta al dolore del mondo è la liberazione dalla stessa volontà di vivere che si articola in tre momenti: l’arte, la morale e l’ascesi. L’arte intesa come contemplazione disinteressata delle idee, cioè delle forme pure delle cose, è catartica in quanto l’uomo, contemplando le idee, diviene da individuo naturale sottoposto ai bisogni e desideri della volontà, un puro soggetto conoscitivo elevato al di sopra della volontà e del dolore. La morale, come impegno a favore del prossimo, tenta di superare l’egoismo e la lotta perenne tra gli individui e si concretizza nelle virtù di giustizia, carità e pietà. La contemplazione estetica e la morale però hanno una funzione liberatrice parziale e temporanea. La totale liberazione dalla volontà di vivere si ha con l’ascesi: l’individuo cessa di volere la vita, il desiderio di godere e il volere stesso astenendosi dal piacere attraverso la castità e l’umiltà. Entrando in uno stato di grazia l’estasi si conclude con il nirvana, con l’esperienza cioè del nulla, della negazione del mondo stesso e della nozione di io.

 

In riferimento alla critica radicale che F. Nietzsche sviluppa nei confronti del pensiero occidentale, attivando le forme metodologiche della genealogia, quale significato assume la metafora della “morte di Dio” ed il necessario annuncio della “trasmutazione di tutti i valori”?

La morte di Dio è l’espressione con cui Nietzsche indica il venir meno di tutte le certezze assolute di cui l’uomo nel corso dei secoli si è avvalso per superare la paura nei confronti della verità del vivere, per dare un senso e un ordine rassicurante alla vita, esorcizzando il flusso caotico e irrazionale delle cose. Per Nietzsche, la credenza in Dio rappresenta una fuga dalla vita, la sua morte invece segna la nascita del superuomo, l’accettazione conscia della vita e la fedeltà al mondo. Il superamento di Dio segna nella filosofia nietzschiana il superamento di tutto il pensiero occidentale che tende a fuggire dalla vita nella sua forma originaria e a credere in quei valori fondati sulla rinuncia che impoveriscono l’uomo. Per questo è necessaria una vera e propria trasmutazione dei valori: i falsi valori della morale tradizionale e del cristianesimo, nati da una necessità di sopravvivenza, devono essere sostituiti dai valori vitali, cioè da tutte quelle passioni che dicono sì alla vita ed indirizzano l’uomo verso l’esaltazione di sé, anziché verso l’abbandono e la rinuncia. Tutto ciò, non deve però essere confuso con un ottimismo estetizzante, Nietzsche è consapevole della crudeltà dell’esistenza, ma è fermo nel proporre un accoglimento della vita con tutti i suoi contrari.

 

Spiega che cosa intende Nietzsche con “morale dei signori” e “morale degli schiavi”

Il significato di “morale dei signori” e “morale degli schiavi” in Nietzsche è da ricercare nella critica radicale che egli rivolge alla morale tradizionale e soprattutto al cristianesimo che, esaltando i valori anti-vitali della rinuncia e dell’abnegazione, invece di nobilitare l’uomo, lo degradano. Delineando la genealogia della morale, il filosofo sostiene che essa non ha nulla di trascendentale ma che invece deriva completamente dalle autorità sociali che educano gli uomini: i valori etici sono solo il risultato di determinate scelte di utilità sociale per il mantenimento delle forme di dominio umano. Ma, continua N, se nel mondo classico la morale poteva essere chiamata “dei signori” perché rifacendosi ad un’aristocrazia cavalleresca sosteneva i valori vitali che esaltano l’accettazione della vita, successivamente con il cristianesimo essa diviene “morale degli schiavi” perché ispirata ai valori anti-vitali che tendono alla fuga dalla vita. Per questo è necessaria una trasmutazione dei valori anti-vitali perché l’uomo accetti se stesso come creatura terrestre e corporea, libero dalle convenzionali e consolatorie menzogne.

 

Quale differenza c’è tra tempo spazializzato e tempo della coscienza per Bergson?

Per tempo spazializzato Bergson intende il tempo della scienza, astratto ed esteriore, in cui gli istanti sono distinti l’uno dall’altro secondo un criterio quantitativo e ogni momento può essere ripetuto un numero indefinito di volte. Mentre, egli delinea il tempo della coscienza come qualcosa di concreto ed interiore in cui gli istanti sono irripetibili e si differenziano secondo un criterio sia quantitativo che qualitativo anche se non sono completamente distinti perché essi si sommano e compenetrano l’uno nell’altro. Inoltre, se il tempo spazializzato può essere paragonato ad una collana di perle uguali e distinte, il tempo della coscienza richiama un gomitolo di filo o una valanga che muta e cresce e quindi esso si identifica con la durata. Nella vita spirituale ogni momento pur risultando da tutti i momenti precedenti, è nuovo rispetto ad essi. Per Bergson infatti, la vita spirituale è autocreazione e libertà e non si può ritenere che ogni azione sia determinata necessariamente da una causa esteriore ad essa. Questa esteriorizzazione o spazializzazione è propria della concezione di tempo della scienza che non può essere applicato alla vita spirituale della coscienza che invece si riferisce ad un processo di mutamento unico e continuo.

Definire in che senso per Heidegger la storia ha dimensione esistenziale

Per spiegare come la storia abbia valenza esistenziale in H bisogna ricordare come egli definisce l’ Essere. H afferma che l’uomo è un essere nel mondo e come tale assume la forma del prendersi cura, sia in riferimento alle cose che gli occorrono, sia nei confronti degli altri uomini con cui si relaziona. Quindi, la Cura è la struttura fondamentale dell’esistenza. In questa prospettiva la temporalità costituisce il senso unitario della Cura, in quanto essa rappresenta: il futuro, quando si riferisce a ciò che serve per progettare il mondo in base all’ utilità e alle esigenze dell’ uomo; il passato, quando si rifà alla condizione emotiva di uomo come essere “gettato” nel mondo tra gli altri esseri di pari livello; il presente, quando rappresenta la caduta dell’essere dell’uomo a livello delle cose del mondo. Di conseguenza, l’Essere è il tempo e la storicità risulta dalla ripetizione consapevole delle possibilità d’essere tramandate dal passato. Proprio in ciò risiede la dimensione esistenziale della storia. Inoltre, la storia per H è determinata da parziali svelamenti e nascondimenti dell’essere che determinano le sue varie epoche.

Perché il pessimismo è la conclusione filosofica di Schopenhauer?

Schopenhauer individua l’essenza di tutte le cose e del mondo, ossia la cosa in sé, il noumeno, nella volontà di vivere intesa come brama, impulso prepotente e irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. La volontà di vivere assume un carattere infinito perché essendo oltre il tempo non ha né inizio né fine. Ora, il volere porta l’uomo a desiderare continuamente, ad essere in tensione per la mancanza di qualcosa che vorrebbe avere, quindi, porta inevitabilmente alla sofferenza che nessun appagamento può placare. Infatti, anche se l’appagamento può dare fine ad uno stato di tensione, esso dura per breve tempo ed è vano in quanto, non solo ogni desiderio appagato porta necessariamente alla nascita di almeno un nuovo desiderio, ma, nel breve momento in cui viene meno il desiderio si cade in una situazione altrettanto negativa al dolore, la noia. Qui risiede il pessimismo schopenhaueriano: secondo il filosofo la vita è dolore per essenza, è un pendolo che oscilla tra dolore e noia.

Quale significato attribuisce Marx al concetto di alienazione, quale Sartre?

Marx intendeva con alienazione la condizione storica del lavoratore inserito in una società capitalistica che si trova scisso e sottomesso ai prodotti e alla sua stessa attività e così alienato dalla condizione propria di uomo nel mondo. Per Sartre la possibilità dell’alienazione risiede nel rischio che l’uomo possa divenire succube dei prodotti stessi della sua attività. Ciò può avvenire sia nei rapporti che l’uomo ha con la natura che con gli altri uomini. Nel primo caso, in sintonia con Marx, egli afferma che l’uomo oggettivato con il lavoro in una società capitalistica e industriale diviene alienato rispetto ai prodotti e al senso umano stesso del lavoro. Nel secondo caso, Sartre afferma che con l’istituzionalizzazione del gruppo sociale si rischia l’alienazione, in quanto gli individui spogliati della loro individualità e della libera mediazione con gli altri divengono estranei l’uno dall’altro e alla reale comunità. In questo caso si nota la critica al materialismo marxista che tende al settarismo e all’eliminazione della soggettività.

Secondo Schopenhauer “il mondo è l’inferno” e al contrario di Leibniz, è il peggiore dei mondi possibili

Questa concezione del mondo come il peggiore dei mondi possibili, si colloca nel pessimismo cosmico di Schopenhauer. Il filosofo partendo dall’assunto che la radice noumenica dell’uomo e dell’universo sia la volontà di vivere intesa come forza prepotente e irrazionale che spinge l’uomo a desiderare e agire, giunge alla conclusione che la vita è essenzialmente dolore in quanto l’uomo, concentrato a soddisfare le sue brame, è destinato ad essere stretto nella morsa del dolore, tra insoddisfazione e noia. Questo dolore, non riguarda solo l’uomo ma ogni creatura del mondo, perché il male è il principio a fondamento del mondo stesso. Infatti, il mondo è costituito da esseri tormentati e angosciati che lottano e soffrono incessantemente per la propria autoconservazione, tanto che S, indicandolo come il peggiore dei mondi possibili, lo paragona all’inferno di Dante. Per questo S critica le precedenti forme di ottimismo cosmico che interpretano il mondo come un organismo perfetto perché governato da un Dio o una ragione immanente, proprio come Leibniz che sulla base della perfezione suprema di Dio poneva l’armonia, l’ordine e la perfezione del mondo.

Cosa è per Marx l’alienazione?

Marx delinea il concetto di alienazione rifacendosi a Feuerbach il quale aveva identificato tale concetto con l’uomo religioso, l’uomo scisso, ossia sottomesso ad una potenza esterna da lui stesso posta che lo estranea dalla propria realtà. Così, M intende per alienazione la situazione storica dell’operaio inserito nella società capitalistica a causa della proprietà privata. La scissione di tale individuo è riferita a ben quattro aspetti. Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività in quanto egli produce un oggetto che non gli appartiene e rispetto alla sua stessa attività che ha la forma di un lavoro costrittivo in cui egli è solo uno strumento di fini estranei. Inoltre il lavoratore è alienato rispetto al suo stesso genere umano perché gli viene impedita l’unica condizione in grado di innalzarlo sugli animali, cioè quella di un lavoro libero e creativo, ed infine rispetto al prossimo perché il rapporto negativo con il capitalista lo porta ad avere un rapporto conflittuale con l’umanità in genere. La dis-alienazione può avvenire secondo il filosofo solo con il superamento della proprietà privata e con l’avvento del comunismo.

Come arriva Freud al concetto di sublimazione?

S. Freud dopo aver individuato nella sessualità e nella famiglia il centro dei conflitti, sulla base dei quali si costituisce l’Io e aver posto in esse il principio della formazione della civiltà e della sua storia, giunse a sostenere che la stessa civiltà non potrebbe esistere senza una costante limitazione delle energie sessuali che miri ad indirizzarle verso mete diverse dalla sessualità, a vantaggio dell’armonia comune. Infatti, le pulsioni sessuali oltre ad essere estremamente potenti, hanno la caratteristica di riuscire a spostare la meta senza ridurre la propria intensità. La necessaria trasformazione delle pulsioni sessuali costituisce il processo che Freud chiama di “sublimazione”, da cui sono dipendenti in generale il lavoro inteso come attività accettata dalla società e, in particolare, la creazione artistica e l’attività intellettuale.

Qual è il punto fondamentale dei “Discorsi sulla Nazione Tedesca” di Fichte?

I discorsi sulla nazione tedesca di Fichte risalgono al 1807 un periodo prossimo alla battaglia di Jena e all’occupazione prussiana da parte di Napoleone. Il tema fondamentale dei Discorsi è l’educazione in senso nazionalistico, anche se nell’opera il filosofo tratta anche di scienza politica, filosofia della storia, pensiero religioso e morale. Secondo F il mondo moderno necessita di una nuova pedagogia al servizio del popolo, ma solo il popolo tedesco è in grado di promuovere la nuova forma pedagogica, perché è l’unico tra i popoli rimasto integro e puro senza alcuna contaminazione con altre stirpi. Il popolo tedesco è il popolo per eccellenza e la sua lingua rimasta intatta ne costituisce la prova fondamentale. Proprio in queste affermazioni risiede il carattere nazionalistico della pedagogia da egli promossa. La nazione tedesca costituisce una patria organica che va oltre le barriere politiche, è l’unica in grado di realizzare l’umanità tra gli uomini e per questo costituisce il modello e la guida per tutte le altre nazioni.

Quale valenza attribuisce Hegel alla storia?

Hegel sulla base della Ragione assoluta, attribuisce una razionalità alla storia, pur ammettendo che ad un intelletto finito, cioè all’individuo che la giudica in base ai suoi motivi personali, essa può apparire un insieme di eventi contingenti e irrazionali. Secondo il filosofo la storia ha un fine ed è quello di rendere possibile la realizzazione dello spirito del mondo, che giungendo al sapere di ciò che esso è in realtà, si oggettiva in un mondo esistente. Infatti, lo spirito del mondo si identifica con gli spiriti dei popoli che si succedono nella storia. Quindi, con la storia si realizza la libertà dello spirito del mondo che trova il suo più alto stadio con la costituzione dello Stato etico cristiano-germanico in cui tutti gli uomini sono coscienti di essere liberi e in cui si riconosce loro una comune dignità.

Qual è la differenza per Kierkegaard tra stadio estetico e stadio etico?

Kierkegaard afferma che l’uomo dispone di fondamentali possibilità cioè, può scegliere tra tre alternative dell’esistenza. Questi stadi sono: la vita estetica, la vita etica e quella religiosa. Gli stadi non possono hegelianamente fondersi in una sintesi dialettica come fossero stadi di un unico sviluppo ma tra di essi vi è una rottura totale, ogni alternativa esclude l’altra. Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell’attimo, di colui che rifiuta la ripetitività e ogni tipo di vincolo durevole nel tempo ma, all’insegna dell’avventura, esalta tutte le nuove emozioni. Questo stadio di gioia e di ebbrezza intellettuale continue, è destinato alla noia e al fallimento esistenziale perché l’esteta che finisce per rinunciare alla propria identità, avverte il vuoto della propria esistenza senza centro né senso. Mentre, nello stadio etico l’uomo assume la responsabilità della propria libertà e all’insegna della continuità rimane fedele ad un modello universale di comportamento. Anche se la vita etica è ad un piano superiore rispetto a quella estetica, in quanto l’uomo etico riesce a cogliere il senso di sé, anche essa è destinata al fallimento. Due stadi, uno tendente all’avventura, l’altro al rigore ma comunque destinati al fallimento.

Quale funzione attribuisce Freud all’Io in quell’organizzazione spaziale dell’apparato psichico definita comunemente “seconda topica”?

La “seconda topica” è un luogo, o regno, della psiche umana. Al suo interno, Sigmund Freud (1856-1939) individua tre elementi: l’Es (o Id), l’Io ed il Superio (o Superego). L’Es rappresenta le pulsioni e le energie caotiche, mentre il Superio le strutture sociali dominanti e i doveri morali. L’Io funge da intermediario e da terreno di confine, e questa collocazione non agevola la sua espressione, anzi la incastra tra l’irrazionalità e la convenzionalità. L’ Io rappresenta la personalità cosciente lacerata dal conflitto psichico: è servitore di due padroni, o tre se si considera anche il mondo esterno alle cui norme è collegato tramite il Superio. La sua funzione di collegamento, mediazione e organizzazione è precaria e schiacciata dagli altri elementi della psiche e, perciò, degenera spesso in angoscia: reale, morale e nevrotica. Nel tentativo di ubbidire al “principio di realtà” della morale e della civiltà e, al contempo, al “principio di piacere” della passione pulsionale e della somaticità, è immerso in una lotta continuativa che sfocia spesso nel senso di colpa.

Spiega in che modo Kant fondi filosoficamente la possibilità del meccanicismo

Immanuel Kant (1724-1804) fonda la possibilità del meccanicismo per spiegare il rapporto tra la scienza e la metafisica. Egli intende il rapporto tra il soggetto e l’oggetto (e in particolare tra l’uomo di scienza e i suoi oggetti di studio) come basato, da un lato, sull’esperienza soggettiva del mondo e, dall’altro, sulle limitazioni naturali dell’esperienza soggettiva. In questo contesto, non gli risulta possibile che si affermino tesi scientifiche senza tenere conto della conoscenza delle cause e degli effetti del mondo fenomenico. La catena meccanica che lega gli oggetti è un aspetto necessario della conoscenza scientifica. Al contempo, però, non è possibile evitare di pensare alle “finalità” delle relazioni meccaniche, anche se ciò avviene tramite procedimenti razionali e soltanto regolativi e non conclusivi. Il meccanicismo, quindi, è necessario ma non sufficiente perché il soggetto condiziona la conoscenza dell’oggetto con le proprie categorie analitiche e, in virtù della propria esperienza, lega con l’Intelligenza i dati fisici della natura all’interno di un giudizio universale (o “determinante”). Il meccanicismo è possibile come costruzione dei dati che compongono il giudizio non universale (o “riflettente”) privo delle formulazioni unificanti e generali sul mondo e sugli organismi viventi che, invece, in quanto tali rimandano a qualcosa di ulteriore e universale come l’etica.

Spiega brevemente il diverso modo di intendere lo spazio in Newton e Kant

Isaac Newton (1642-1727) è un sostenitore del metodo induttivo. Egli ritiene che l’elaborazione dei dati si deve sottomettere all’osservazione degli effetti e non alla formulazione delle molteplici ipotesi (“hypothesis non fingo”). Con questo approccio concepisce lo spazio in due modi: assoluto e relativo. Lo spazio assoluto è senza relazioni verso gli oggetti, è sempre uguale ed immobile. Lo spazio relativo, invece, è mobile e misurabile rispetto alle posizioni occupate dai corpi. In ogni caso, comunque, lo spazio è indipendente dallo scienziato che lo misura e, quindi, prescinde dall’esperienza. Come nel caso della “legge di gravitazione universale”, le sue tesi sono sviluppate sulle evidenze empiriche. Immanuel Kant (1724-1804), invece, ritiene che lo spazio sia una categoria dell’elaborazione razionale utilizzata dal soggetto per comprendere la realtà. La posizione occupata dagli oggetti materiali ed esterni è il presupposto della sensibilità e dell’esperienza che caratterizzano gli oggetti come oggetti della conoscenza soggettiva. La differenza principale tra i due modi di intendere lo spazio è la concezione dell’“apriori”: con la rivoluzione copernicana, Kant conferisce il primato alle condizioni razionali del soggetto o dei soggetti che interiorizzano l’oggetto. Egli è, al contrario di Newton, un sostenitore del metodo deduttivo.

Elenca i tre stadi esistenziali del pensiero di Kierkegaard descrivendone i caratteri generali

Secondo Soren Kierkegaard (1813-1855), l’uomo può scegliere di vivere in uno stadio esistenziale estetico, etico oppure religioso. Il passaggio dall’uno all’altro non si realizza spontaneamente, ma tramite un salto. Nello stadio estetico si trova il seduttore che rincorre il piacere, il desiderio e il godimento senza preoccuparsi delle conseguenze. Egli non si impegna in nessuna attività che non sia la ricerca dell’eccezionalità e della novità. Rappresentazione di quest’uomo è il Don Giovanni di Mozart che rifugge dalla noia e insegue la sensualità. Il vivere nell’immediatezza e nella fugacità, però, lo conduce alla coscienza della vanità e dell’inconsistenza e, quindi, alla disperazione. Nello stadio etico, invece, si trova l’uomo che canalizza la disperazione nel sentimento del dovere verso le istituzioni quali il matrimonio, la famiglia, la professione e lo Stato. Quest’uomo ama la ripetizione e sceglie ogni volta di servire ciò che ritiene il Bene universale. Rappresentazione di quest’uomo è il Consigliere dello Stato oppure il marito che, però, identificando il Bene con la propria vita commette il peccato di non vedere i propri limiti, legati alla dimensione umana, ed è obbligato al pentimento. Nello stadio religioso, infatti, si trova l’uomo che concepisce il vero dovere assoluto. Egli obbedisce al comando divino e, sull’esempio di Abramo, domina l’etica: la scelta di essere un “cavaliere della fede” è un rischio, ma è il solo modo per avvicinarsi a Dio e realizzare la Sua volontà.

Elenca le vie di liberazione dal dolore proposte da Schopenhauer

Le vie di liberazione dal dolore proposte da Arthur Schopenauer (1788-1860) ne “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione” sono tre: l’esperienza estetica, l’esperienza morale e l’esperienza ascetica. Queste sono le vie da seguire per annullare, in modo graduale, la volontà e, con essa, il dolore. La volontà, infatti, è il motivo del dolore che scaturisce dal continuo desiderio umano di soddisfazione: il bisogno e l’interesse portano gli uomini a vivere in una condizione di cieca lotta per l’esistenza e, quindi, di sofferenza. In questo contesto, l’esperienza estetica, e cioè l’arte, è il primo tentativo con cui l’uomo si dedica alla contemplazione del bello e si allontana dai motivi che lo spingono alla lotta contro il mondo. Quest’esperienza, tuttavia, è temporanea e limitata. Così come lo è l’esperienza morale: il secondo tentativo per capovolgere il rapporto conflittuale con il mondo è riconoscere il prossimo come “fine in sé”, ma ciò implica la compassione che non conduce alla liberazione dal dolore, ma finisce per amplificarlo. L’esperienza ascetica, infine, è il modo con cui l’uomo diventa occhio disinteressato sul mondo. La pura contemplazione è la via per distaccarsi dalla realtà, annullare la volontà e trasformarla in “nolontà”. Contemplare l’idealità significa vedere la vita mondana come Nulla e, dunque, quietare sia il desiderio che la sofferenza.

Cosa rappresentano per Nietzsche i valori etici?

Secondo Friedrich Nietzsche (1844-1900) i valori etici rappresentano il “razionalismo socratico” e la sua pretesa di stabilire un’identità tra l’ordine, la legge e la verità. La civiltà contemporanea fondata sull’etica è figlia dell’inganno umano sulla possibilità di definire, in maniera assoluta, il Bene ed il Male. Nessun dio, infatti, può dare all’uomo le necessarie certezze sull’essenza umana, e nessuna legge e nessun ordine possono incarnare la verità. La pretesa di stabilire quale sia, e quale debba essere, il senso della vita si dimostra, in questo modo, una negazione della vita stessa ed il frutto di un “risentimento” del più debole sul più forte. Perciò Nietzsche propone una “trasvalutazione dei valori”, la trasformazione delle regole tradizionali ereditate dalla civiltà greco-occidentale e la riscoperta della vita umana immersa nella dinamica quotidiana e individuale dell’“eterno ritorno dell’uguale”. I valori dell’etica e della morale sono intesi, dunque, come disvalori e rappresentano la sottomissione negativa del dionisiaco all’apollineo.

In che senso il pensiero di Hegel è dialettico? Come si sviluppa?

Il pensiero di G. W. Friedrich Hegel (1170-1831) è dialettico perché è fondato sulla legge della dialettica. Questa rappresenta, al contempo, sia il modo in cui opera la ragione umana e sia il modo in cui funziona la realtà. Secondo Hegel, infatti, tutto ciò che è razionale, è reale (e viceversa) ed entrambe queste dimensioni dello spirito sono mosse dalla dialettica. Il pensiero di Hegel segue la struttura triadica del rapporto dialettico tra la tesi, l’antitesi e la sintesi. La contraddizione e l’opposizione da parte dell’antitesi costituisce la prima negazione che viene successivamente superata dalla sintesi che ingloba, come negazione della negazione, sia la tesi che l’antitesi all’interno di una nuova proposizione. Tesi, antitesi e sintesi sono, inoltre, una triade rappresentativa del procedimento utilizzato da Hegel, per esempio, nella “Fenomenologia dello Spirito”: ogni sezione dell’opera è composta di tre parti interne che ripropongono, in particolare, la dialettica presente tra l’idea, la natura e lo spirito nello sviluppo della coscienza e della sua esperienza nel mondo. Nel pensiero di Hegel, infatti, lo Spirito è il principio unitario della realtà il cui sviluppo sintetizza continuamente, e in modo progressivamente più avanzato e completo, il rapporto conoscitivo e dialettico tra l’idea e la natura.

Il pensiero di Kant è stato definito come “filosofia del limite” o “criticismo”. Spiega le ragioni di queste definizioni

Il pensiero di Immanuel Kant (1724-1804) è stato definito “filosofia del limite” o “criticismo” per la sua critica della ragione umana. Un problema emblematico del criticismo kantiano è la possibilità della conoscenza e della certezza di Dio. La possibilità che l’uomo possa conoscere ciò che va al di là della propria esperienza, rappresenta un limite delle facoltà razionali e non è superabile. L’unica soluzione è assecondare la finalità razionale dell’uomo e spingersi in ipotesi metafisiche senza pretendere che esse, però, siano effettivamente una dimostrazione di verità. In generale, Kant utilizza lo stesso metodo per definire il procedimento con cui la ragione si relazione alla scienza. L’intelletto che unisce i risultati imprescindibili dell’esperienza può, in definitiva, raccogliere i dati in modo regolativo e mai, del tutto, conclusivo. Anche l’oggettività, in questo contesto, è il frutto di un accordo e di una condivisione temporanea tra soggetti, intelletti scientifici e relativi “giudizi sintetici a priori” e, pertanto, non è l’espressione di una verità eterna. La filosofia kantiana del limite, dunque, è tale perché incentrata sulla critica delle facoltà della ragione soggettiva e, di qui, la definizione di criticismo è relativa alla costante operazione di revisione e completamento della validità della conoscenza così come indicata da Kant, in modo emblematico, nelle opere: “Critica della Ragione Pura”, “Critica della Ragion Pratica” e “Critica del Giudizio”.

Vivere in società significa condurre necessariamente un’esistenza alienata? Commentate questa frase e argomentate il vostro giudizio facendo ricorso ad almeno due degli autori studiati

Nella storia della filosofia, il tema dell’alienazione è congiunto a quello dell’esistenzialismo. Ciò che si mette in risalto è il rapporto tra l’individuo e la società e, in particolare, tra l’essenza umana e il mondo esterno. A tal proposito, si considerano due approcci contemporanei, ma differenti e contrastanti. Uno è quello espresso dalla filosofia di Soren Kierkeegard (1813-1855) e l’altro dalla filosofia di Karl Marx (1818-1883). Secondo Kierkeegard, l’esistenza umana è alienata perché priva di una vera libertà di scelta, compensata solo da una possibile vita religiosa e dal rapporto con Dio. L’angoscia che deriva dall’impossibilità di raggiungere il completo soddisfacimento dei bisogni esistenziali porta l’uomo a fare un salto psicologico al di là della normale esistenza quotidiana. L’eccezionalità dell’individuo, in questo modo, è recuperata nella dimensione della fede. Secondo Marx, invece, l’esistenza umana è alienata perché proiettata in oggetti esterni. Nel modo di produzione capitalistico, ad esempio, il lavoro umano è oggettivato nel suo prodotto, che diventa merce di scambio. Nella società borghese, al contempo, si riproduce anche una dinamica di estraniazione tra l’individuo e lo Stato, tra l’essenza umana e le leggi. Il capovolgimento di questa relazione, però, non è la rivalsa individuale o la chiusura, ma l’emancipazione collettiva. Come si nota, dunque, Kierkegaard propone un movimento “in verticale”, mentre Marx “in orizzontale”.

Le caratteristiche generali della concezione dello stato di Hegel

G. W. Friedrich Hegel (1170-1831) individua tre momenti dello sviluppo dello Stato: la sua costituzione, il diritto statale esterno e la storia universale. La costituzione dello Stato rappresenta la realizzazione oggettiva dell’individuo in una cornice universale. Attraverso le Istituzioni l’interesse dell’individuo si esplica nell’interesse dello Stato. La figura rappresentativa di questa coincidenza tra la funzione privata e quella statale è il burocrate. Il senso del dovere è la caratteristica principale su cui si fonda l’unità tra popolo e sovranità. Ogni Stato rappresenta un “Dio in terra” e non può riconoscere nessun altro mezzo di relazione esterna che non sia la guerra. La virtù e la ragione di uno Stato si afferma, contemporaneamente, come vittoria bellica e come superiorità storica rispetto agli altri Stati. Da Cesare a Napoleone, lo Stato ha rappresentato il soggetto collettivo dello spirito del mondo e la massima sintesi tra diritto e moralità, su cui è fondata l’eticità, e tra famiglia e società civile. Nello Stato, inteso come organismo vivente, ogni precedente momento dello spirito trova una nuova sistematizzazione collettiva e, allo stesso modo, ogni forma dell’organizzazione umana trova un ulteriore sviluppo storico.

Il concetto di “noumeno” in Kant

Il concetto di “noumeno” è la base della teoria della conoscenza elaborata da Immanuel Kant (1724-1804). Noumeno, dal greco νοούμενoν, significa “ciò che è pensato” e si distingue da “fenomeno” che, invece, significa “ciò che appare”. Nella teoria kantiana è possibile conoscere il “fenomeno”, ma non il “noumeno”. Grazie all’esperienza sensibile possiamo raccogliere i dati di ciò che vediamo e di cui abbiamo una certezza sensibile, e grazie all’intelletto possiamo ordinare e regolare questi risultati sotto forma di giudizi. Ciò che, invece, non è possibile fare è andare al di là dell’esperienza ed è qui che si colloca il “noumeno”, “la cosa in sé”. Oltre l’involucro dell’apparenza ogni cosa ha una sua essenza sconosciuta a chi ne è esterno. Ciò vale sia tra l’uomo e la natura, sia tra l’uomo e la sua ragione: infatti neanche l’idea stessa, che viene utilizzata per ordinare la conoscenza, può essere effettivamente conosciuta dall’uomo. E’ possibile soltanto “pensare” a come le cose sono in sé. Come per l’idea di “anima”, di “mondo” e di “dio” non si può ottenere una dimostrazione che non sia metafisica e frutto dei limiti della ragione di fronte a ciò di cui non può avere esperienza. Il concetto di “noumeno”, dunque, rappresenta la differenza tra ciò che l’uomo crede, oppure sa, riguardo ad una cosa e ciò che, realmente, la cosa è. L’impenetrabilità del “noumeno” rimanda all’infinito come impossibilità di stabilire la verità una volta per tutte.

Il pensiero di Fichte in “I fondamenti della dottrina della scienza”

“I fondamenti dell’intera dottrina della scienza” è un’opera di Johann G. Fichte (1762-1814) pubblicata in diverse edizioni tra il 1794 ed il 1812. Il filosofo fonda la conoscenza scientifica della realtà a partire dalla logica con cui ogni uomo entra in relazione con il mondo. La logica è la manifestazione dell’Io che pensa. Secondo l’idealismo fichtiano, l’Io è il fondamento della conoscenza proprio perché con la logica concepisce l’unità, tra soggetto ed oggetto, su cui si basa la certezza della “cosa in sé”, che sarebbe se stesso. L’Io, però, con la logica può conoscere se stesso, ma non, allo stesso modo, la realtà esterna. Il dualismo tra l’Io e il Non-io, perciò, è la condizione inevitabile per fondare ogni tipo di rapporto conoscitivo con il mondo. L’Io, infatti, nel momento in cui pensa se stesso, pensa anche a ciò che gli è opposto, il Non-Io, e che si trova al di fuori di sé. La conoscenza delle cose, dunque, comincia come riconoscimento di qualcosa che è al di fuori del proprio Io. Ficthe, a tal proprosito, usa tre principi per spiegare questo procedimento: l’ “Io pone se stesso”; l’ “Io pone il Non-io” e l’ “Io oppone ad un io divisibile, un non-io divisibile”. Tra Io e Non-io c’è un rapporto pratico: non si tratta di entità fisse e immobili, ma di un reciproco condizionamento in cui l’Io si appropria della cosa e supera la sua estraneità ripetendo questo processo infinite volte.

Secondo Hegel, l’idea si spiega dialetticamente. Descrivi i tre momenti attraverso i quali essa si sviluppa

G. W. F. Hegel (1770-1831) espone il movimento dialettico dello sviluppo dell’Idea raccogliendolo in tre momenti che corrispondono alla Logica (pensiero nella sua forma puramente attiva e pensante); alla Filosofia della Natura (studio della fisicità del mondo in cui si trova l’Idea) e alla Filosofia dello Spirito (studio dell’Uomo in cui si uniscono pensiero e fisicità). In questo contesto, lo sviluppo dell’Idea è spiegato dalla triade dialettica di Tesi, Antitesi e Sintesi. L’idea o il pensiero è la tesi: il punto di partenza che trova nella Natura la sua Antitesi (il suo opposto). Tra l’Idea e la Natura vi è un rapporto di esteriorità e contrapposizione perché la Natura è fatta di elementi fisici e corporei che stanno al di fuori dell’Idea. L’Idea, quindi, supera questa negazione e trova una sintesi nell’Uomo che è, insieme, pensiero e corpo, Idea e Natura. L’Uomo è la rappresentazione della Natura che ha acquisito consapevolezza di sé. In questo modo, lo sviluppo dell’Idea è anche lo sviluppo dello Spirito, implicito sia nell’Idea e sia nella Natura (Inizio e Fine sono unificati) e frutto della contraddizione, tra lo Spirito soggettivo (Idea) e lo Spirito oggettivo (Natura), che dà luogo allo Spirito assoluto (Uomo). Lo Spirito assoluto, infatti, rappresenta il momento in cui l’Uomo coglie il suo essere parte del genere umano e, quindi, la sua collocazione nel mondo. Diventando Spirito assoluto, dunque, l’Idea approda alla libertà cosciente, all’ “essere per sé” dell’Uomo ed alla sintesi dei momenti precedenti.

Perché Nietzsche critica la morale cristiana?

Friedrich Nietzsche (1844-1900) critica la morale cristiana perché è fondata sulla “negazione della vita”. Il cristianesimo è una religione che mantiene gli uomini nel “senso di colpa” per le azioni che, in realtà, sono espressione della vita. Con la repressione della sessualità e dell’attaccamento alla realtà mondana, il cristianesimo vieta all’uomo di vivere e lo obbliga a proiettare in un altro mondo i propri desideri. Il risultato della morale cristiana è l’ “addomesticamento totale” dell’uomo. Il prete, in particolare, è la figura che domina sui veri valori. Egli reprime la vera natura umana e gli oppone modelli che, in realtà, sono “contro-natura”. Il prete si scaglia contro il vizio, mentre rappresenta l’essere vizioso, per eccellenza, che con la “castità” disprezza la vita. Inoltre, come già accadeva presso i greci e i romani, la ricerca della verità aveva dato grandi risultati che, invece, il cristianesimo ha negato ed ha imposto al loro posto l’obbedienza alle virtù teologali: fede, speranza e carità. Così la fede ha ucciso la ragione e mietuto il più grande numero di vittime. Nietzsche, dunque, critica la morale cristiana perché è l’espressione di secoli di “addestramento mentale” e propone l’arrivo di un Anticristo che le ponga fine e faccia vincere un rinnovato “amor fati” (amore dell’uomo per la sua vita e per il suo destino).

Come si rende possibile in “Così parlò Zaratustra” il passaggio dall’uomo all’oltreuomo? Cosa simboleggiano le tre metamorfosi?

Nell’opera “Così parlò Zarathustra” Friedrich Nietzsche (1844-1900) presenta il profeta che annuncia la “morte di dio” e la nascita dell’ “oltreuomo”. Il profeta Zarathustra incita gli uomini ad abbandonare la tradizione religiosa ed a rifiutare, in particolare, i valori ereditati dal cristianesimo. Il passaggio dall’uomo all’oltreuomo è possibile grazie alla creazione di nuovi valori, e alla rinnovata volontà di potenza, con cui gli uomini accettano la sofferenza e sfidano direttamente le difficoltà dell’esistenza terrena: non ripongono più speranze nell’aldilà perché non hanno più paura di vivere. Per rappresentare questo passaggio, Nietzsche utilizza le tre metamorfosi dello spirito dell’uomo: “cammello”, “leone” e “fanciullo”. Il cammello è lo spirito obbediente, servo e, piegato sulle proprie ginocchia, porta su di sé i tormenti del mondo: risponde al comando “tu devi!”. Il leone è lo spirito potente e ribelle che si libera dalla morale imposta: non teme di combattere e di affermare il significato della proposizione “io voglio!”. Il fanciullo è lo spirito che dà le nuove leggi e che, finalmente, abbraccia la vita: rappresenta il momento in cui si afferma l’essenza libera e “danzante” dell’ “io sono”. Il fanciullo è la realizzazione del nuovo inizio e, al contempo, è l’innocenza del rinnovato rapporto tra l’uomo e la vita.

Analizza il concetto di “eterno ritorno” in Nietzsche

Il concetto di “eterno ritorno” è espresso da Friedrich Nietzsche (1844-1900) per criticare la falsa morale greco-occidentale dominante. E’ un concetto paradossale che svela il carattere negativo della dottrina del “tempo lineare” e afferma la possibilità che l’uomo viva la propria esistenza secondo “amor fati”. Come, in “Così parlo Zarathustra”, il “pastore” può mordere il serpente (il tempo) per non essere soffocato, allo stesso modo l’uomo può spezzare lo scorrere lineare del tempo e dominare la propria vita. Così, inoltre, l’ “oltreuomo” può annullare il carattere soffocante dei valori morali tradizionali, abbracciare una nuova immagine del mondo ed affermare il proprio attaccamento alla realtà. Vivere l’“eterno ritorno” è possibile per chi non teme la continua ripetizione di una vita perché essa viene pienamente vissuta: è la concretizzazione del “nichilismo attivo” che ribalta a proprio favore la materialità dell’esistenza e il fatto che le composizioni meccaniche della materia si esauriscono e l’uomo è destinato a vivere, infinte volte, in simili scenari, punti di arrivo e di partenza: ciò che accade è il “ritorno” di ciò che è già accaduto e così sarà per ciò che accadrà. La sola differenza è affidata al modo con cui ogni individuo riesce a diventare l’artefice e il protagonista di questa verità.

 

Quali sono le due possibilità che si delineano di fronte alla morte di Dio, secondo Nietzsche?

Secondo Friedrich Nietzsche (1844-1900) la crisi dei valori morali tradizionali ha gettato in disgrazia le false promesse oltremondane e, perciò, ha decretato la morte del dio dietro cui esse si nascondevano. L’imperfezione del mondo e la volontà umana che generano lotta, distruzione e sofferenza sono le cause della crisi morale e della morte di dio, di fronte a cui l’uomo ha due possibilità: o sceglie di rifugiarsi in altri scenari ideali ed ascetici oppure affronta la vita per quello che è. E’ possibile disconoscere questo mondo, dichiararsi estranei e ricercare vie di fuga contemplative e religiose. In questo modo la vita viene rifiutata con l’aiuto di costruzioni anche filosofiche che, però, rendono gli uomini “esangui” come nel caso della morale dei “cristiani”. In alternativa, è possibile “leggere” il mondo in maniera diversa, scoprire la vitalità con cui con la distruzione e il dolore si genera nuova vita e adeguarsi a questa realtà, viverla appieno. Così la volontà si trasforma nella liberazione delle energie vitali e dionisiache con cui l’uomo si appropria dell’esistenza e smette di fuggire e illudersi.

 

Quale ruolo ha il passato nella teoria dell’eterno ritorno per Nietzsche?

Nella teoria dell’eterno ritorno di Friedrich Nietzsche (1844-1900) il passato ha un ruolo fondamentale. Il passato è la storia delle cose già accadute che continuano ad accadere nel presente e che accadranno nel futuro. L’antichità contiene in sé i momenti che preannunciano la crisi della morale e la morte di dio così come si realizza nella contemporaneità di Nietzsche. In particolare, il mondo greco è il luogo in cui si è affermato il primato dell’apollineo sul dionisiaco che è la causa della negazione cristiana della vita. Il mondo greco è, al contempo, anche il luogo originario delle grandi opere dell’uomo. Il ruolo del passato è quello di rappresentare il patrimonio in cui ricercare ciò che è utile alla vita ed alla sua valorizzazione. Nietzsche, a tal proposito, individua tre tipi di storiografia: critica, monumentale e antiquaria. La storiografia “critica” può aiutare nella correzione degli errori già commessi, quella “monumentale” a conoscere le grandi azioni e, infine, quella “antiquaria” a dare importanza al culto della storia. Tutte possono essere utili o dannose perché nel passato si possono ritrovare aspetti oscuri o illuminanti per l’uomo contemporaneo e, soprattutto, per la riscoperta dei valori. Il passato è la realtà umana da cui non bisogna ricavare una verità assoluta, bensì i motivi per rafforzare il legame eterno che c’è tra l’uomo, la natura e la vita.

 

Spiega i caratteri delle istanze della psiche: Es, Io e Super-io, evidenziando inoltre la difficile funzione mediatrice dell’Io

Sigmund Freud (1856-1939) colloca l’Es (o Id), l’Io ed il Super-io (o Super-Ego) all’interno di una zona della psiche denominata “seconda topica”. L’istanza dell’Es è pulsionale: rappresenta l’insieme delle energie caotiche che spingono la psiche alla ricerca della soddisfazione degli impulsi. L’istanza del Super-Io, invece, è morale: rappresenta l’insieme dei doveri sociali e convenzionali su cui è basata una determinata civiltà. L’istanza dell’Io, infine, è cosciente: rappresenta la personalità individuale che media tra i propri impulsi irrazionali e i propri doveri morali. In questo contesto, l’Io è lacerato dalla sua posizione intermedia ed esce spesso sconfitto da questo conflitto psichico che, infatti, genera “angoscia”. Questa è “reale”, in quanto frutto delle difficoltà nelle relazioni con il mondo esterno; “morale”, in quanto frutto delle difficoltà nelle relazioni con le leggi assorbite dal Super-Io; e “nevrotica”, in quanto frutto delle difficoltà nelle relazioni con le spinte pulsionali dell’Es. La difficile funzione mediatrice dell’Io si manifesta, inoltre, come senso di colpa

 

Schopenhauer pone nella volontà di vivere l’essenza stessa dell’universo. Sostiene, però, anche che la vita è dolore. C’è contraddizione tra le due affermazioni? Come possiamo liberarci dal dolore?

Secondo Arthur Schopenauer (1788-1860) la volontà è il motivo che muove l’esistenza dell’uomo e dell’universo e che, al contempo, genera dolore perché spinge gli uomini alla lotta ed alla distruzione reciproca. Tra la volontà cieca e il dolore, quindi, non c’è una vera e propria contraddizione, ma un rapporto di causa ed effetto. In questo contesto, l’uomo può intraprendere un’esperienza estetica e di contemplazione del bello per distaccarsi dalla sua volontà e, quindi, dal dolore, sebbene questa sia un’esperienza limitata nel tempo: l’arte, infatti, offre soltanto una via di fuga parziale. Allo stesso modo, è parziale anche l’esperienza morale con cui l’uomo può sospendere lo stato di lotta contro l’altro e stringere legami di unione e sostegno. Questa esperienza finisce per amplificare il dolore e la sofferenza tramite l’attivazione della reciproca “compassione”. Soltanto attraverso l’esperienza ascetica e, quindi, l’annullamento della volontà è possibile liberarsi completamente dal dolore. L’obiettivo di quest’esperienza è contemplare il mondo come “idealità”. In questo modo l’uomo giunge alla “nolontà” e si distacca dal dolore perché comprende ed annulla il motivo che lo genera.

 

165. La storia in Marx

Karl Marx (1818-1883) concepisce la storia come un movimento dialettico mosso dalla vita materiale del genere umano. La storia è storia del modo di produzione e degli antagonismi che esso genera. Secondo il celebre incipit del “Manifesto del Partito Comunista” del 1848, “la storia di ogni società esistita sino a questo momento è storia delle lotte tra classi”: ciò significa che il movimento storico è animato dal conflitto e, in questo senso, è dialettico e, cioè, nega e supera le fasi precedenti. Un esempio di questa concezione è il passaggio realizzatosi dalla società feudale alla società borghese in cui sono entrati in azione meccanismi di ricomposizione delle classi sociali e di lotta da cui sono scaturiti nuovi rapporti sociali. La storia e il suo movimento, quindi, sono fondamentali nella teoria secondo cui Marx prevede il superamento della società borghese nella società comunista come prodotto di nuovi antagonismi che alla lotta tra il signore feudale contro il mercante borghese vede sostituirsi la lotta tra la nuova borghesia e il proletariato moderno. La concezione marxiana della storia è un’evoluzione della concezione della logica della dialettica hegeliana e usa le negazioni per descrivere i processi materiali della vita produttiva umana nel suo lungo percorso dalla fase preistorica, in cui vigeva una forma di “comunismo primitivo”, alla forma compiutamente storica, in cui dallo scontro tra le classi nascerà una nuova forma di “comunismo maturo”.

 

La scienza secondo Popper

Karl Popper (1902-1994) critica le teorie scientifiche basate sull’osservazione e predispone un nuovo principio metodologico basato sulla “falsificabilità”. La scienza non è un’attività che porta a certezze inconfutabili o ad asserzioni assolutamente vere, ma trae la propria giustificazione dalla possibilità di essere confutata. In particolare, la scienza è il frutto di constatazioni e verifiche empiriche di teorie e ipotesi che, alla prova dei fatti, si dimostrano relativamente vere oppure false. Popper critica il metodo dell’induzione, sia essa per enumerazione che per eliminazione: ogni osservazione fatta per dimostrare una teoria scientifica non può arrivare a considerazioni generali se non in maniera limitata. Le prove empiriche non potranno essere totali e considerare effettivamente tutti i possibili aspetti particolari e, proprio per questo motivo, ogni osservazione non potrà eliminare una volta per tutte le possibili confutazioni. Da ciò ne consegue che la scienza è continuamente esposta alla falsificazione e, proprio in questo modo, si può dire che essa è scienza: alla ricerca della verità, subentra la ricerca della giustificazione.

 

Cosa intende Decroly con il termine attività globalizzatrice?

Con il termine “attività globalizzatrice”, Ovide Decroly (1871-1932) intende l’attività con cui il bambino acquisisce conoscenze nuove sotto lo stimolo degli interessi più immediati quali nutrirsi, ripararsi, proteggersi dalle intemperie e difendersi dai pericoli. Tali interessi attivano i processi dell’apprendimento come attività complementare. Il bambino impara a leggere ed a scrivere, cioè, non solo in modo fine a se stesso, ma grazie all’attivazione complementare di altre attività sensoriali e percettive. In questo modo, Decroly rappresenta l’ “attività globalizzatrice” come procedimento complessivo, frutto di un metodo globale che unisce ed interseca le emozioni e gli interessi più immediati con l’apprendimento e la crescita. Dal punto di vista pedagogico e formativo, ciò comporta la possibilità di poter stimolare il bambino a processi sperimentali di attivazione “quantitativa” utili anche allo sviluppo di maggiori opportunità di lavoro comune basato su una nuova logica unitaria.

 

Tra i capisaldi della filosofia hegeliana viene indicata l’identità tra razionale e reale, qual è il significato della formula di Hegel?

Il significato della formula di G. W. F. Hegel (1770-1831) “tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale” si riferisce al processo dialettico con cui il soggetto della conoscenza si appropria dell’oggetto, allo stesso modo con cui l’uomo fa la propria storia, superando l’opposizione e la contraddizione tra la ragione e la natura. La sintesi della formula hegeliana si trova nello sviluppo dello Spirito che rappresenta la razionalità della storia: tutto ciò che esiste è visto come prodotto della ragione umana e, al contempo, la ragione stessa è espressione di ciò che è reale ed esistente. Il collegamento tra la razionalità umana e la realtà delle cose è stabilito dal rapporto logico che ingloba tutto l’universo nella forma dello Spirito della storia. Ciò significa che nulla di ciò che accade è frutto di una pura accidentalità, ma è l’espressione di una logica. L’identità tra razionale e reale, dunque, significa l’identità tra pensiero ed essere e, al contempo, l’identità tra l’uomo ed il suo mondo. Quest’ultima identità può essere interpretata come appropriazione umana del mondo, in senso attivo e rivoluzionario, oppure come giustificazione della superiorità del mondo esistente in quanto giusto e provvidenziale.

 

In “La gaia scienza” il personaggio dell’”uomo folle” annuncia la “morte di Dio”. Cosa intende Nietzsche con questa espressione?

Friedrich Nietzsche (1844-1900) in “La Gaia Scienza” fa annunciare all’ “uomo folle” la “morte di dio” in pieno giorno quando gli uomini sono tutti concentrati nelle loro attività al mercato. L’ “uomo folle” accende una lanterna che rappresenta la luce con cui intende cercare il dio smarrito che poi dichiara morto, ucciso dagli uomini. La morte di dio non è che l’espressione dei valori della civiltà greco-occidentale basati sulla negazione degli istinti vitali e naturali e sull’affermazione dell’ascetismo e del distacco dalla realtà umana. Nella scienza si rispecchia questo antico procedimento della negazione della vita che sin dai tempi di Platone oppone la ricerca della verità alla ricerca della felicità. La verità è l’oggetto specifico della scienza che, in questo contesto, rappresenta la massima espressione della repressione dell’uomo ingabbiato nel raziocinio. La scienza, anzi, è l’espressione della sostituzione del dionisiaco con l’apollineo, della divinità naturale con la nuova divinità corrispondente all’assoluta verità. Questa scienza che pone la verità come espressione di dio, ha fallito ed al suo posto hanno trionfato, secondo l’ “uomo folle”, l’errore e la menzogna. Piuttosto che ricercare ciò che è utile alla vita dell’uomo, la scienza è diventata una fede cieca e metafisica in qualcosa di non pienamente umano. A questo scenario, Nietzsche oppone la scoperta della “gaia scienza” che sostituisce la leggerezza della danza alla presunta superiorità del raziocinio.

 

La concezione dell’Arte e del genio artistico in Schelling e in Comte

F. W. J. Schelling (1775-1854) concepisce l’arte come l’espressione dell’unità originaria tra l’uomo e la natura. Con la riflessione filosofica, l’uomo ha separato la propria razionalità dal suo contesto naturale che, con l’arte, invece, si riunificano e si oggettivano come unità tra ideale e reale. L’opera d’arte è la combinazione della forza, che sfugge alla riflessione, e della conoscenza del mondo, in cui l’artista è immerso. In questo contesto, il genio artistico realizza sia la parte inconscia e involontaria dell’uomo, sia quella cosciente e volontaria. L’arte, in Schelling, è l’atto con cui la materia vivente del principio Assoluto e l’identità organica tra uomo e natura assumono una forma unitaria. August Comte (1798-1857), invece, ritiene che l’unità tra l’uomo e la natura sia stata indagata secondo tre gradi conoscitivi di cui la scienza positiva, e non l’arte, è l’espressione più compiuta perché supera lo stadio teologico e lo stadio metafisico e approda alla scoperta delle leggi effettive. L’approccio positivo e scientifico di Comte tende demistificare la concezione romantica e artistica e a negare che la conoscenza della natura sia legata all’espressione del principio Assoluto.

 

Il concetto di Natura secondo Schelling

In F. W. J. Schelling (1775-1854) il concetto di Natura rappresenta l’identità organica di spirito e materia. L’uomo e la natura non sono concepiti come elementi esterni, ma come parti di uno stesso mondo naturale. Questo mondo non è solo il frutto di relazioni tra causa ed effetto, ma anche della razionalità di cui l’uomo è un elemento interno ed integrante. Nel mondo naturale si trovano unite l’intelligenza e la materia, e questa identità rappresenta il principio Assoluto per cui l’io e il non-io, il soggetto e l’oggetto, la ragione umana e le cose sono un’unica realtà originaria. Il mondo naturale, in quest’ottica, non è una materia inerte, bensì un organismo vivente all’interno del quale l’uomo afferma la propria libertà. Il concetto di Natura, secondo Schelling, rappresenta l’Identità spirituale ed autocosciente, l’unico soggetto conoscitivo e attivo, fatto di attività involontarie e volontarie. L’armonia prestabilita tra la razionalità conoscitiva e pratica dell’uomo, e il suo contesto naturale esprime l’unità ontologica ed assoluta del mondo.

 

A partire da Freud l’equazione “psiche = coscienza” non è più sostenibile, perché?

L’equazione psiche=coscienza non è più sostenibile dopo gli studi di Sigmund Freud (1856-1939) perché egli porta alla luce i meccanismi dell’inconscio e l’influenza della vita pulsionale sull’individuo. La coscienza non è più concepibile come l’espressione di una razionalità pura e di un soggetto dominante, ma si scopre essere il prodotto di un continuo conflitto interiore tra diverse regioni della psiche (prima e seconda topica). La coscienza è, secondo Freud, dilaniata nel suo tentativo di rimuovere e resistere alle pulsioni dell’inconscio e dell’Es e di adattarsi alle leggi ed alle norme della civiltà. In questo senso, si vede che la struttura psichica complessa dell’individuo sovradetermina le sue aspirazioni coscienti e, perciò, la comprensione della vita individuale diventa oggetto di una ricerca che va aldilà della coscienza e ne indaga le resistenze e le patologie. Si scopre così la dinamica psichica sottesa alla civiltà ed al “disagio” che la caratterizza, sotto forma di angoscia, nevrosi e isteria sia a livello individuale che collettivo.

 

Quale posto occupa la sociologia nella gerarchie delle scienze secondo Comte? Qual è il compito di questa scienza?

Nella teoria di August Comte (1798-1857) la conoscenza umana attraversa tre stadi: teologico, metafisico e scientifico. Nello stadio teologico si ha una conoscenza fittizia del mondo per cui si associano le cause prima e la natura intima del mondo ad agenti soprannaturali. Nello stadio metafisico si sistematizza e si conferisce un’unità all’attività di questi agenti soprannaturali. Solo nello stadio scientifico si realizza, in modo positivo, il legame tra la ragione e l’esperienza e si supera la dimensione astratta della conoscenza. La sociologia, in questo contesto, è la “scienza nuova” con cui si rinuncia all’assoluto e si approda allo stadio più completo della conoscenza dei fenomeni sociali. La sociologia è il corrispettivo della fisica: è la “fisica sociale” tramite cui è possibile prevedere le tendenze e le evoluzioni che caratterizzano la storia delle società e il concatenamento tra i diversi fenomeni. La sociologia ha, infatti, il compito di osservare il legame tra l’ordine “statico” e il progresso “dinamico” ed offrire una base scientifica, utile soprattutto all’arte politica. Questa, grazie alle “leggi effettive” scoperte dalla sociologia, può individuare i mezzi e i fini da imprimere alla propria azione.

 

Perché secondo Schopenahuer il dolore è uno stato positivo e universale della realtà e il piacere uno stato negativo?

Secondo Arthur Schopenahuer (1788-1860) la realtà è mossa da una volontà cieca che spinge gli uomini ad una lotta continua e distruttiva per soddisfare i propri interessi vitali. Il dolore rappresenta l’esito di questa lotta e, al contempo, lo stato in cui si può diventare consapevoli della volontà che lo ha prodotto. Il dolore, in questo contesto, è uno stato positivo perché consente all’uomo di ripugnare la volontà, approdare alla contemplazione distaccata dell’idealità del mondo e raggiungere la “nolontà”, ovvero l’annullamento della volontà. Il piacere (o il benessere), invece, è uno stato negativo perché è conforme alla volontà e asseconda la forza cieca che porta l’uomo, ripetutamente e senza soluzione, al dolore. Il piacere spinge l’esistenza umana verso la sofferenza, in quanto legato alla ricerca della soddisfazione del benessere e della volontà naturale, mentre il dolore porta ad una possibile liberazione, in quanto successivo alla ricerca del piacere e, quindi, più vicino alla consapevolezza razionale e alle esperienze liberatorie di tipo estetico, morale oppure ascetico.

 

Spiega in cosa consiste la terapia psicoanalitica

Indissolubilmente legata al nome del suo padre fondatore Freud, la psicoanalisi (detta anche psicologia abissale o del profondo), nata come metodo per curare alcuni disturbi psichici, ha finito per assumere un ruolo filosofico generale, una volta intesa come teoria dell’interpretazione dell’inconscio: avendo infatti notato che la carica emotiva legata ad alcune reazioni isteriche originate da traumi rimossi, veniva “liquidata” dal superamento delle amnesie circa fatti spiacevoli della vita personale dei pazienti, Freud ideò una terapia in grado di sondare a questo scopo i recessi della mente umana. Il primo passo consisteva nel far rilassare l’assistito e lasciarlo parlare seguendo il corso dei propri pensieri, notando delle connessioni (le “associazioni libere”) tra le parole da lui pronunciate e il materiale rimosso che si voleva far emergere, verso cui sono sempre e comunque inconsciamente orientati i discorsi spontanei del soggetto. Il secondo passo consisteva nell’instaurare una solidarietà tra l’azione dell’analista e le risposte del paziente, sfruttando il fenomeno del transfert: la traslazione, o il trasferimento, sulla persona del medico, di pulsioni emozionali positive o negative provate durante l’infanzia dal paziente verso le figure genitoriali. Il tutto, corroborato all’interpretazione dei sogni e di lapsus, errori o dimenticanze, contribuiva a fornire porte di accesso alle forze della personalità che si agitano al di sotto del livello cosciente.

 

Il principio di falsificazionismo di K. R. Popper

Il criterio di falsificabilità, secondo il quale una teoria è scientifica solo nella misura in cui è suscettibile di venir smentita dall’esperienza, è alla base del pensiero epistemologico popperiano, nell’orizzonte della ricerca di una linea di demarcazione fondamentale tra scienza e non-scienza. Questo principio emerge in contrapposizione al principale assioma filosofico neopositivista, che aveva proposto un principio di verificabilità universale che determinasse, in base al raffronto sperimentale, la validità di ogni teoria. Secondo Popper, invece, il verificazionismo non è che un’utopia, vista l’impossibilità oggettiva di realizzarlo: mentre infatti le conseguenze di una ipotesi scientifica possono essere infinite, il numero di controlli effettivi della medesima sarà sempre finito. Dunque, la validità di un principio non è racchiusa nella sua verificabilità logica, quanto nella possibilità di renderla disponibile alla falsificazione empirica. La differenza sostanziale tra i due criteri si basa, secondo Popper, sulla asimmetria tra verificabilità o falsificabilità: avendo la conoscenza umana mai a che vedere con verità assolute, ma sempre con ipotesi e congetture, è facile capire come miliardi di conferme non renderanno mai del tutto certa una teoria, mentre basterà un solo fatto negativo per mettere in dubbio una legge universale.

 

Le critiche di Lakatos al falsificazionismo di Popper

Pur apprezzando la matrice teorica epistemologica e filosofica generale (sostanzialmente razionalistica) di Popper, Lakatos prende le distanze dal falsificazionismo, maturando posizioni alternative che si incarneranno nella proposta teorica della metodologia dei “programmi di ricerca” scientifici. Secondo Lakatos la scientificità di una teoria non dipende dalla sua falsificabilità, innanzitutto perché essa non è affatto semplice da confutare: non saranno soltanto pochi esperimenti a far sì che essa venga messa in dubbio (gli scienziati parlano di anomalie, difficilmente di confutazioni), inoltre non esistono confutazioni a sé stanti, ma è necessaria una teoria migliore. Il concetto di “programma di ricerca” porta infatti a considerare la scienza non come una singola ipotesi o teoria, ma un insieme di esse, che consistono in un nucleo (la parte di programma più tenacemente difesa da chi lo condivide) e una “cintura protettiva” di ipotesi ausiliarie, verso cui deviare le eventuali obiezioni. Il programma di ricerca, che deve tendere alla previsione di fatti nuovi (e non alla spiegazione di fatti già noti), può in questo senso avere successo (sostenendo l’urto dei controlli) oppure cedere, e venire archiviato in favore di un nuovo programma. Solo in questo senso la scienza sarà matura e avrà un vero e proprio potere euristico.

 

L’anarchismo metodologico di Feyerabend

Sullo sfondo di interessi filosofici e politici estremamente radicali, le posizioni epistemologiche di Feyerabend, partendo da un rifiuto dell’empirismo e del razionalismo, e della tradizione neopositivistica in ogni sua accezione, pervengono ad un anarchismo metodologico, programmatico, che lo porterà a dissolvere sia la scienza che la ragione stessa. Secondo il pensatore, infatti, le strutture istituzionali in cui la scienza si è incorporata (in tutti gli stati moderni la scienza è presentata come la forma più alta di attività razionale e lo strumento più efficace per il perfezionamento sociale), costituiscono un freno sia per la conoscenza che per la democrazia; bisogna dunque ridimensionarne il peso nella società, tenendo presente che essa è soltanto una delle attività umane dirette a costruire visioni del mondo, al pari dell’arte, della metafisica, del mito. L’anarchismo, professato apertamente nel volume del 1975, “Contro il Metodo”, combatte l’idea che ci siano principi immutabili come guida dell’attività scientifica, perché, proprio la pratica sperimentale dimostrerebbe che tutte le norme possono essere violate se le circostanze lo richiedono, visto che in ogni attività, purché conduca al progresso del genere umano, “anything goes”, tutto va bene. Chi ricerca è dunque autorizzato a confrontare tra di loro tutti i tipi di teorie (senza le quali non esisterebbero nemmeno i fatti di cui esse discutono), e tutte le deviazioni “irrazionali” nei procedimenti non possono che essere produttive: infatti senza una frequente rinuncia alla ragione non c’è conoscenza, senza caos non c’è progresso.

 

Estetica e religione in Kierkegaard

Leitmotiv del pensiero kierkegaardiano è lo sforzo costante di chiarire le possibilità esistenziali che si offrono all’uomo, ovvero gli stadi o momenti della vita che costituiscono le alternative dell’esistenza tra cui egli è condotto a scegliere. La prima che viene affrontata nella raccolta di scritti “Aut-Aut” è appunto la “vita estetica”, l’immediatezza di chi vive nell’attimo, fuggevolmente, poeticamente (ovvero nel contempo di immaginazione e riflessione), alla continua ricerca dell’interessante, del degno di essere vissuto solo perché degno di essere raccontato, in una continua ebbrezza intellettuale. L’esteta è incapace e si rifiuta di scegliere chi essere, perché la ripetizione di un qualsiasi dettaglio esistentivo creerebbe monotonia e richiederebbe lo sforzo di affrontare e sostenere la responsabilità di un’identità: ecco perché chi vive in questo modo finisce per “morire la morte”, contrarre la “malattia mortale” ed essere in definitiva disperato, ovvero qualcuno che non sa rapportarsi con se stesso. Urta contro l’impossibilità fondamentale di non essere mai nulla di definitivo, perché anche se lo rifiuta, non può rompere il rapporto con la sua stessa essenza; e se al contrario, volesse eticamente diventare se stesso, gli risulterebbe impossibile, essendo finito, essere autosufficiente. Soltanto nella vita religiosa, nella fede, l’uomo, pur volendo essere se stesso, non si illude sulla sua insufficienza e si pone in un corretto rapporto con la potenza che l’ha posto, cioè riconosce la sua dipendenza da Dio, unico faro nell’angoscia divorante della possibilità, proprio perché tutto gli è possibile.
La concezione della natura in Schelling
Secondo Schelling la natura ha vita, razionalità e valore in sé, nel senso che deve avere un principio che la spieghi. Alla base del sistema naturale sono l’attrazione e la repulsione, così che la natura agisce attraverso la lotta di forze opposte. Il conflitto costituisce il dualismo; l’unificazione delle forze è la polarità della natura; quindi la natura è un tutto vivente. La vita è pertanto “l’universale respiro della natura”. Il principio e le leggi che producono le determinazioni o le limitazioni sono nella natura stessa che è autonoma e autarchica. La natura ha carattere divino e negli “Aforismi” il filosofo la identifica con Dio.

 

Kant esclude che la cosmologia razionale possa mai essere una scienza. In quale parte della Critica della Ragion Pura affronta il problema? Quali sono gli errori inevitabili che la ragione commette? Cosa differenzia un’ipotesi scientifica da una dimostrazione metafisica?

Il problema della cosmologia razionale è affrontato da Kant nella Dialettica trascendentale.
Di fronte alla cosmologia razionale la ragione commette l’errore di non saper scegliere. Infatti se vuole conoscere il mondo come totalità, emergono le antinomie che Kant individua come quattro. La prima è quella fra finità e infinità; la seconda sulla divisibilità del mondo che può essere finita e infinita; la terza sul rapporto causalità-libertà (libero arbitrio e determinismo); la quarta fra contingenza e necessità. Se la ragione non sceglie, si attua un processo dialettico; se sceglie, non lo fa su basi scientifiche ma emotive.
Mentre un’ipotesi scientifica poggia sulle intuizioni di spazio e tempo (aritmetica e geometria sono in grado di fissare anticipatamente proprietà riscontrabili nell’ordine fattuale delle cose), la dimostrazione metafisica consiste nel trasformare le esigenze di globalità, di mondo e di Dio in altrettante realtà quando noi non abbiamo mai contatti con la cosa in sé (noumeno) ma con la realtà del fenomeno.

 

Definisci l’alienazione per Hegel, Feuerbach e Marx

Secondo Hegel l’alienazione, in quanto fase dello sviluppo dello Spirito ha valore sia negativo sia positivo. È il momento in cui lo Spirito si estrania da se stesso, si oggettiva e proietta fuori di sé e diviene natura. Questa oggettivazione dello Spirito,che si manifesta come natura, ha per Hegel senso negativo. L’alienazione è positiva, invece, quando lo Spirito, successivamente, ritorna in sé nella consapevolezza dell’essersi perso nella Natura. È quindi una visione sintetica e una tappa successiva del divenire.
Feuerbach, esponente della sinistra hegeliana, vede nell’alienazione il proiettarsi delle qualità positive dell’uomo (amore, ragione e volontà) in un mistico “oltre”, identificato con Dio. Ne consegue che questo “oltre” porta l’uomo all’alienazione di sé perché allontana da se stesso le caratteristiche proprie dell’umano per sottomettersi ad una volontà superiore.
Marx amplia il concetto di alienazione di Feuerbach in quanto, partendo da un’analisi di economia-politica intravede un’alienazione economica che è alla base di tutti gli altri tipi di alienazione. Per effetto della concezione dialettica e materialistica della storia, divisione del lavoro e proprietà privata, il filosofo individua nel proletariato il destinatario della alienazione, in quanto esso subisce un processo che lo strania da ciò che compie a tal punto che si aliena da se stesso.