In tempi di lotte per parità di diritti e quote rosa è ancora difficile immaginare figure femminili in ambito ingegneristico. Questo nonostante la facoltà abbia visto un exploit di iscrizioni nell’ultimo decennio e lo spettro di specializzazioni sia divenuto così vasto da ricoprire interessi che vanno ben al di là del genere di appartenenza.
Come riporta una recente pubblicazione della tedesca TradeMachines, solo il 13% degli ingegneri americani è donna. Se guardiamo agli Stati Uniti come la terra delle opportunità, dove grandi aziende possono nascere nel garage di casa, fa strano pensare che ci sia una predominanza di genere tanto marcata in una delle aree cruciali per lo sviluppo del paese. Ancora più strano se si pensa ai dati relativi all’Italia, che, stando agli ultimi studi dell’Eurostat, presenta una percentuale del 33% di laureate in ingegneria (ben 7 punti al di sopra della media europea). A cosa è dovuta una tale disparità? Siamo davvero ancora ancorati a retaggi culturali che vedono la figura dell’ingegnere una prerogativa strettamente maschile?

Per capire il problema si potrebbe andare a ritroso nella carriera scolastica e cercare di capire in quale momento le studentesse smettono di sentirsi parte dell’ambiente STEM. Se si considerano ancora gli Stati Uniti, il grande discrimine nasce negli anni degli studi liceali, con una preponderanza da parte delle ragazze per materie più legate al sociale quando si accingono ad iscriversi all’università. Una delle teorie a supporto di questi dati punta il dito contro pregiudizi culturali, molto spesso manifestati indirettamente all’interno dell’ambito scolastico. Non appena le studentesse assimilano questi schemi sociali sentono il bisogno di provare le proprie competenze scientifiche molto più della loro controparte maschile. La paura di non risultare all’altezza le porta a spendere molte più energie nella preparazione per test scientifici, risultando in una situazione di stress che si ripercuote poi sul risultato ottenuto.

A fronte di queste teorie Aronson & Steele attorno al 1995 effettuarono una serie di studi, confrontando i risultati nei test scientifici in ambienti diversi (in parole povere in classi miste o di sole ragazze). I risultati portarono alla luce quanto le studentesse fossero influenzate dal paragone con i loro colleghi di sesso maschile, inficiando la percentuale di risposte giuste ottenute. Queste osservazioni portarono alla formulazione di quella che ormai è conosciuta come “minaccia dello stereotipo”: la paura di confermare pregiudizi negativi su un determinato gruppo. Paradossalmente, la paura di confermare lo stereotipo, secondo cui le ragazze non sono portate per le scienze, metteva le studentesse in una situazione di stress tale da avere effetto sulle loro performance.

Questo studio ha subito varie critiche negli anni, molte delle quali puntano l’attenzione sulla necessità da parte delle donne di prendersi cura della famiglia ad un certo punto della loro vita, spesso anche solo prendendosi una pausa legata alla maternità. Queste critiche sono però state smontate dagli stessi dati: solo il 2,3% delle donne ingegnere ha lasciato la professione per occuparsi della famiglia (dati US). Le ragione risiedono maggiormente nell’ostilità presente negli ambienti di lavoro ad una effettiva integrazione femminile, quasi a ribadire che il recente “caso Uber” non sia un episodio isolato.

Dati alla mano, le percentuali di ragazze iscritte a facoltà STEM sta salendo negli ultimi anni (in Italia è raddoppiata in un decennio). Questo recupero è però lento e potrebbe protarsi per decenni. È comunque un segnale positivo e di crescita che fa ben sperare per il futuro. Integrare una cultura di parità di genere in quest’area non si traduce solo in un pari riconoscimento di competenze: il vantaggio sta anche nell’incentivare lo sviluppo di menti brillanti che travalicano qualsiasi insensata differenza di sesso. Una grande mente è di beneficio al settore, quale che sia il genere di appartenenza. Con questi presupposti dovremmo guardare al futuro delle donne in ingegneria.

Infografica a cura di TradeMachines.

 

Commenti

commenti