Il bullismo come piaga sociale

Destinazione: rivista scolastica

Molto spesso telegiornali e quotidiani riportano terribili notizie di violenze tra i giovani. Anche questi ultimi, infatti, non sono immuni dall’esercitare terribili forme di aggressività. Un esempio è costituito dallo sconsiderato gesto attuato da quattro ragazzini in una scuola torinese contro un loro compagno down. Essi, secondo quanto riportato da Marina Corradi in un articolo pubblicato da Avvenire il 14-11-2006 intitolato Quella meschina prodezza esibita su Internet, hanno cominciato a picchiare il malcapitato tra le risa generali degli altri ragazzi. È questa una forma di bullismo. Si tratta di ragazzi che, per far mostra di sé, sfogano il loro violento istinto sui coetanei. Il bullismo riguarda sia i maschi che le femmine. È un gruppo che accoglie fra i suoi membri chi non vuole sentirsi escluso dagli altri. È una forma di violenza non solo fisica, ma anche psicologica. Alberoni, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 3-12-2006 intitolato Il bullismo si elimina in una scuola competitiva, definisce “bulli” coloro che si riuniscono intorno a un capo e fanno tutto ciò che lui comanda loro di fare, anche e soprattutto atti violenti. Si tratta di ragazzi sprezzanti e arroganti, che schiavizzano il più debole. La maggior parte delle volte non si rendono conto dei loro gesti. Infatti, nel caso del ragazzo down picchiato a Torino, i bulli, per esaltare la loro bravata, hanno girato un video mentre maltrattavano il loro compagno e lo hanno diffuso su internet. Questo senza rendersi conto che avrebbero potuto essere riconosciuti più facilmente. Soprattutto, però, non si sono curati del fatto che il video poteva essere guardato anche dai loro genitori e insegnanti. Il bullismo, purtroppo, è un fenomeno in aumento soprattutto nelle scuole. Raffaello Masci, in un articolo pubblicato da La Stampa il 17-11-2006 intitolato Nonnismo a scuola per 8 studenti su 10, riporta i preoccupanti dati di questo tipo di violenza. Egli afferma che le percentuali del bullismo maschile sono ormai simili a quelli del bullismo femminile. Ne sono vittima la maggior parte degli studenti, che, nel migliore dei casi, vengono minacciati verbalmente o addirittura picchiati. Siccome gli atti di bullismo non sempre vengono denunciati, i bulli si sentono in diritto di continuare nel loro comportamento errato. Infatti il 56% dei ragazzi intervistati sostiene che «nella vita è molto meglio essere furbi e svegli, piuttosto che disciplinati e diligenti». I bulli non se la prendono solo con i loro coetanei. Molto spesso la loro azione si rivolge anche contro la struttura scolastica. Lo stesso Masci riporta che molte scuole sono state allagate, incendiate, infestate da insetti o topi, bombardate o derubate. Nel peggiore dei casi, nelle scuole si è arrivato anche a spacciare droga e fumo. Questo comportamento, secondo quanto riportato da Ruggero Guarini in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 3-12-2006 intitolato La crisi d’autorità in classe è figlia del ’68, era tipico anche degli anni ’60. È questo il periodo delle rivolte giovanili. Anche in quest’epoca, i ragazzi potevano scacciare i professori dalle scuole trasformandole, così, in luoghi accessibili a tutti in cui si giocava a carte, si beveva e si fumavano gli spinelli. Cosa fare per arginare questo fenomeno? Secondo Alberoni, e anche secondo il mio parere, è inutile denunciare semplicemente il bullo. Questi, infatti, si vanta del richiamo ricevuto e, quasi sicuramente, compirà altri atti di violenza. Non è neanche utile isolarlo dalla società per non fargli avere il sostegno degli altri, in quanto per lui potrebbe dannoso. Si ricorda, infatti, che molte volte il bullo attua la sua violenza perché non viene fermato da nessuno, anzi chi assiste alla violenza spesso lo applaude o lo sostiene nel compimento della violenza stessa. Emblematiche, dunque, appaiono alcune punizioni quali inserire il bullo in un centro di assistenza per fargli capire che bisogna aiutare il più debole e non sopprimerlo. Per arginare questo terribile fenomeno è innanzitutto indispensabile imparare a voler bene, proprio come afferma Davide Rondoni in un articolo pubblicato da Il tempo il 15-11-2006 intitolato Scuola, ipocrita chi si scandalizza. È necessario altresì che le istituzioni scolastiche non tacciano quando si manifestano questi problemi, ma li denuncino ai genitori. Questi dovrebbero essere i primi a condannare severamente i propri figli. Ma, per debellare definitivamente questo problema, concordo con quanto proposto da Alberoni: bisogna tenere il ragazzo occupato nella sua giornata, non solo facendolo andare a scuola, ma anche a teatro, a sport o in palestra. Qui si sentirà messo a confronto con gli altri. Le sue energie saranno spese per fare il suo compito (studiare, giocare o suonare) meglio dei suoi compagni. Si tratta di una sana competizione costruttiva che aiuta il ragazzo a migliorare le sue capacità e, soprattutto, il suo comportamento.

Il bullismo, la forma di violenza più diffusa tra i giovani

La violenza, nelle sue diverse forme, oggi, purtroppo si sta dilagando sempre di più. Sono in aumento i casi di omicidio, di risse, scontri verbali… Fino a poco tempo fa sembrava che a esercitare la violenza fossero solo gli adulti. Invece, purtroppo, negli ultimi tempi la violenza riguarda anche i più giovani (sia maschi che femmine), che sfogano la loro rabbia o il loro disappunto prendendosela con i coetanei più deboli. È questo l’enorme problema del bullismo. Il giornalista Francesco Alberoni, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 3-12-2006 intitolato Il bullismo si elimina in una scuola competitiva, spiega che «fra i ragazzi si sono sempre formati gruppi che mirano al potere, a imporsi sulla massa degli altri. Di solito si raccolgono attorno a un capo particolarmente intraprendente o arrogante o violento. È questo il bullo». I membri che ruotano attorno al bullo si sentono autorizzati a essere arroganti e sprezzanti e a schiavizzare il più debole. I dati di questo terribile fenomeno sono disarmanti. A riportarne le preoccupanti cifre è Raffaello Masci, in un articolo pubblicato da La Stampa il 17-11-2006 intitolato Nonnismo a scuola per 8 studenti su 10. Il giornalista afferma che ben il 78% dei ragazzi che frequentano le scuole elementari e medie sono state vittima della prevaricazione dei loro coetanei, avvenuta anche tramite minacce verbali o risse. Nella maggior parte dei casi, questi comportamenti restano impuniti, tant’è che il 56% dei ragazzi intervistati afferma che «nella vita è molto meglio essere furbi e svegli, piuttosto che disciplinati e diligenti». Questo tipo di comportamento viene utilizzato sempre più spesso e si manifesta soprattutto all’interno delle scuole. Perché? Proprio come affermato da Masci, la maggior parte delle volte questi ragazzi rimangono impuniti. Nell’atto delle loro violenza, i ragazzi spettatori di tali gesti non fanno niente per aiutare il più debole e nemmeno gli insegnanti sono in grado di punirli giustamente denunciando, quando necessario, l’accaduto ai genitori. Ecco che i bulli si sentono ancora più autorizzati a mettere in pratica il loro errato comportamento ai danni del più debole. Emblematico è quanto avvenuto nel caso di un ragazzo torinese down picchiato dai bulli. In base a quanto riporta Marina Corradi, in un articolo pubblicato da Avvenire il 14-11-2006 intitolato Quella meschina prodezza esibita su Internet, gli aggressori di questo ragazzo, per far mostra della loro bravata, hanno addirittura pubblicato il video della violenza su internet. Non hanno avuto paura di poter essere riconosciuti e non hanno nemmeno temuto la reazione o il giudizio dei genitori e degli insegnanti. Quel che ancora appare sconcertante è che, nel video in questione, vi sono anche altri venti alunni che, invece di intervenire per fermare la violenza, hanno cominciato a ridere, legittimando ancor di più quanto si stava compiendo. Gli stessi bulli non hanno preso coscienza di quanto avevano appena compiuto. Infatti hanno affermato che l’avevano fatto per gioco. I comportamenti dei bulli non si ripercuotono solo sui loro compagni, ma anche sull’istituzione scolastica. È capitato, infatti, che molte scuole sono state allagate, incendiate, infestate da insetti o topi, bombardate o derubate. Nel peggiore dei casi, nelle scuole si è arrivato anche a spacciare droga e fumo. Ruggero Guarini, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 3-12-2006 intitolato La crisi d’autorità in classe è figlia del ’68, afferma che i giovani che compiono questi atti hanno preso esempio da quanto precedentemente attuato dai loro padri nel ’68. Anche in questo periodo, infatti, ci sono state contestazioni giovanili e atti di superiorità all’interno delle scuole. I professori non potevano nulla contro quanto attuato dai giovani ribelli che, con i loro comportamenti, avevano trasformato la scuola in una fiera e in un bazar. Cosa fare, dunque, per arginare questo fenomeno? Sono d’accordo con quanto affermato da Alberoni nell’articolo sopra citato. Il bullo non va ammonito, perché si fa vanto del richiamo verbale; non va nemmeno espulso, perché dal punto di vista sociale potrebbe essere dannoso. Vanno, invece, puntiti come hanno fatto alcuni magistrati: li hanno mandati a lavorare presso strutture sociali che hanno insegnato al bullo che bisogna aiutare il più debole e non avere la meglio su di lui. Concordo anche con Davide Rondoni che, in un articolo pubblicato da Il tempo il 15-11-2006 intitolato Scuola, ipocrita chi si scandalizza, afferma che « Occorre voler bene. Cioè occorre, per sé e per i propri figli, desiderare la libertà. Quella vera, che fa amare con ardore e tenerezza la vita».

L’uomo e la felicità

Destinazione: settimanale di attualità

Camminando per le strade dei nostri paesi, si può notare che ci sono persone sorridenti e altre che, invece, sono immerse nei loro pensieri. Si potrebbe dire, a occhio e croce, che le prime sono felici mentre le seconde stanno attraversando particolari periodi della loro vita. Ma che cos’è la felicità? Cosa permette all’uomo di essere felice? Secondo me, la felicità è l’elemento fondamentale che permette all’uomo di godere appieno di tutti i momenti della sua vita. Il concetto di felicità è riconosciuto anche dalla politica. Si trova, infatti, nelle carte fondamentali dei singoli stati. Nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, ad esempio, si afferma che tutti gli uomini sono uguali e che hanno alcuni diritti inalienabili, come la Vita, la Libertà e il raggiungimento della Felicità. Anche nell’articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana viene detto che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge a prescindere dalla loro razza, sesso, lingua, religione. Viene altresì affermato che la Repubblica deve garantire il pieno sviluppo della persona umana eliminando gli ostacoli che lo limitano. Secondo me, è giusto ciò che esprime la nostra Costituzione. Un uomo, infatti, per essere felice, deve potersi realizzare avendo una famiglia e un lavoro dignitoso. Questo, però, sembra che oggi si stia dimenticando. Infatti stiamo attraversando un periodo di forte crisi e i tagli nel mondo del lavoro sono sempre di più. Questo limita fortemente la libertà soprattutto di noi giovani in quanto non possiamo progettare un futuro certo e dignitoso. Quindi rimaniamo più a lungo nelle case dei nostri genitori e ci creiamo una famiglia sempre più tardi. E così la nostra libertà è fortemente limitata. Bauman, ne L’arte della vita, ha ragione quando afferma che «sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale […] di qualsiasi immagine composita della felicità». Infatti più l’uomo si sente insicuro e più è infelice e limita le sue possibilità di raggiungere il pieno soddisfacimento di sé. Maggioni e Pellizzari, in un articolo pubblicato da La stampa il 12/05/2003 intitolato Alti e bassi dell’economia della felicità, affermano che oggi gli uomini si dichiarano insoddisfatti in base a quello che realmente possono ottenere. Oggi si è più felici di venti anni fa, ma non ce ne accorgiamo perché «le nostre aspettative sono cambiate, migliorate, e desideriamo sempre di più». Secondo i due giornalisti, però, i dati di questa ricerca non sarebbero veri perché la felicità di persone nate nello stesso anno non cresce significativamente nel tempo e perché il numero di depressi e suicidi è simile a quello degli uomini che si dichiarano soddisfatti. Naturalmente l’uomo, per essere felice, non deve stare da solo. Zamagni, in Avarizia. La passione dell’avere, dice giustamente che per essere felici bisogna essere almeno in due. L’avaro, dunque, non riesce ad essere felice perché è tirchio innanzitutto con se stesso e perché con il suo comportamento non riesce a creare dei legami. Secondo me, l’uomo, per essere felice, deve essere prima di tutto sereno con se stesso e poi lottare e sconfiggere gli ostacoli che gli impediscono di raggiungere la propria felicità.

L’arte della musica

Musica per tutti, tra arte e industria. Destinazione: rivista scolastica

Nel mondo d’oggi, soprattutto fra i più giovani, la musica è molto ascoltata. Dappertutto risuonano note musicali grazie alla radio o ai CD. Oggi è possibile ascoltare musica anche tramite gli mp3 o grazie a nuovi apparecchi elettronici di ultima generazione. Le persone ascoltano musica molto volentieri. Essa, infatti, aiuta a distrarsi dai problemi e a rilassarsi dalla solita routine quotidiana. La musica ha carattere internazionale: è in grado di parlare a tutti e in tutte le lingue. In quanto tale, ha anche le sue manifestazioni seguite a livello mondiale. Un grande appuntamento per gli appassionati di musica è sicuramente l’Mtv Europe Music Awards. Esso si svolge ogni anno in Svezia, a Stoccolma, e premia i cantanti che hanno ottenuto le maggiori vendite nel corso dell’anno. In quest’occasione, gli interpreti cantano il loro successo, corredato anche da suggestive coreografie e scenografie. È il caso, ad esempio, di Madonna, Eminem e Ricky Martin, premiati nel 2000 per essere stati rispettivamente miglior artista femminile e dance, miglior artista hip hop e miglior artista maschile. Secondo quanto riportato da un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 17 novembre 2000 intitolato Oscar della musica. Eminem. Come Madonna, la show girl americana cantò il suo successo “Music” con l’aiuto di due ballerini e tre musicisti; Eminem interpretò il suo successo con una scenografia quasi fantascientifica, caratterizzata, fra l’altro, da alcune sfere color latte ripiene di acqua; anche Ricky Martin, insieme a quaranta ballerini, seppe utilizzare sapientemente la scenografia adoperata dal suo collega, facendo addirittura esplodere alcune di quelle sfere mentre cantava la sua “She bangs”. A livello nazionale, un importante appuntamento con la musica italiana è la manifestazione canora che si svolge ogni anno a Sanremo. Come affermato dal giornalista Grasso in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 27 febbraio 2001 intitolato Umano troppo umano: si celebra l’innocuo rito della sintonia nazionale, questa manifestazione canora può diventare anche lo specchio del Paese. Purtroppo, però, col tempo è divenuto un fenomeno mediatico e puramente commerciale. Il giornalista lo definisce «un Censis tradotto in canzoni, un Istat in rima baciata, un Osservatorio di dati orecchiabili», in quanto la maggior parte delle volte non è la qualità della canzone che conta, ma l’ottenere quanti più ascolti è possibile. Afferma sarcasticamente Grasso che «bisogna guardare Sanremo perché sugli altri canali, inspiegabilmente, non c’è mai nulla da guardare». Gli artisti possono anche trovarsi riuniti tutti insieme a celebrare delle importanti ricorrenze. È il caso, ad esempio, del galà dell’anniversario di Verdi. Come riportato da un articolo pubblicato dal Corriere della Sera l’11 marzo 2001 intitolato L’evento: con le star della lirica un viaggio nella vita di Verdi, alcune star hanno ripercorso le tappe della vita del famoso musicista sfilando, recitando e leggendo appunti. L’evento è stato seguito da ottanta televisioni ed è stato anche prodotto un dvd, un VHS e una versione per internet. Infatti, internet oggi è diventato il mezzo più rapido per la diffusione delle canzoni. Bisogna, però, far attenzione a utilizzare questo tipo di mezzo, in quanto esso può ledere i diritti degli autori che compongono le canzoni. Questo è quanto spiegato da un articolo pubblicato da Il Sole 24 ore del 4 marzo 2001 intitolato I due volti di Internet, pericoli e opportunità. Con internet, la musica ha corso il rischio di essere scaricata illegalmente. Oggi, fortunatamente, esiste una normativa che regola i diritti d’autore e permette l’acquisto legale della musica on line. Se la musica fosse stata scaricata in modo illegale, ci sarebbero stati seri pericoli che essa non potesse più essere prodotta, in quanto sarebbero venuti a mancare i giusti guadagni reinvestiti, poi, nella creazione di nuovi pezzi. Sono del parere che la musica sia vita: essa rispecchia il nostro modo di vita, ci aiuta, ci fa comunicare tra noi. È per questo utile ascoltarla e soprattutto salvaguardarla per far sì che continui sempre ad essere compagna di viaggio nel nostro difficile cammino della vita.

La pubblicità oltre a presentare i vantaggi del proprio prodotto, spesso inganna e mostra una verità

Sembrerà forse un paradosso, eppure la prima esperienza traumatica per un essere vivente è la nascita stessa. Quando un uomo viene al mondo, involontariamente si distacca dall’ambiente che fino ad allora l’ha ospitato. Ha così inizio la sua vita e, dunque, il processo di crescita fisica, psichica e personale: di anno in anno l’età aumenta e, insieme ad essa, si arricchisce il bagaglio di conoscenze acquisite e di vicende vissute. Nel corso dell’esistenza una persona è chiamata spesso a separarsi da un qualcuno o da un qualcosa per svariati motivi: a tre anni ci si divide dall’ambiente familiare e si entra in contatto col mondo scolastico, a diciannove anni si lascia, sempre più frequentemente, ormai, la propria città per trasferirsi altrove e continuare gli studi, a trent’anni, chi ha già una famiglia, si sposta nella speranza di trovare un’occupazione per provvedere al mantenimento dei figli. Dispiacere e malinconia sono i compagni di viaggio meno desiderati ma, allo stesso tempo, più presenti quando ci si imbatte in una realtà molto differente da quella in cui ci si trovava. Superati i primi momenti di disagio e smarrimento, il trascorrere dei giorni porta l’uomo ad abituarsi alla nuova situazione e, contemporaneamente, ad imparare a gestire se stesso, senza contare sull’aiuto altrui. La storia e la letteratura sono forzieri di numerosi esempi di personaggi che per cause diverse hanno avuto il coraggio e le difficoltà che un distacco comporta: è quanto stato fatto dal celebre poeta latino Catullo, recatosi in Oriente sulla tomba del fratello per portare delle “povere offerte agli dei sotterranei” o s’intraprende un nuovo cammino per rinunciare a un certo “se stesso” per scommettere su un futuro “se stesso” totalmente ipotetico, secondo quanto afferma lo scrittore brasiliano Julio Monteiro Martius. Quest’ultima tesi evoca in me il ricordo di un poema epico tramandato dai popoli mesopotamici, “L’epopea di Gilgamesh”, che narra la storia di un eroe, Gilgamesh, appunto, disposto a fronteggiare qualsiasi pericolo pur di ottenere e d’ingerire la pianta che gli avrebbe conferito il dono della giovinezza eterna. Il protagonista del racconto cresce, superando le diverse prove incontrate durante il suo viaggio e, una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, grazie alla sua maturazione e al suo arricchimento personale, comprende da sé che è impossibile possedere quanto auspicato. Il viaggio, non solo nel significato primigenio del termine ma anche nel suo senso figurato, è quindi metafora di crescita personale, di sviluppo culturale, di conquista di autonomia e di raggiungimento della saggezza. Nel 1300 Dante Alighieri si ritrova “per una selva oscura” poiché “la diritta via” aveva smarrito e volendo ritornare sui suoi passi, intraprende un percorso spirituale, immaginando di attraversare i tre regni d’oltretomba. Il poeta ha al suo fianco una guida, Virgilio, “maestro di bello stile”, che l’accompagna per i giorni infernali e per i cerchi del purgatorio dove avviene, poi, l’incontro con l’amata e tanto lodata Beatrice. Sarà proprio quest’ultima a ricondurre lo sventurato sulla strada della fede, compartecipando al fruttuoso percorso di crescita personale dell’autore. Bisogna prendere in esame anche il caso in cui si è costretti da una forza esterna ad abbandonare i propri affetti e a rinunciare a tutto ciò a cui si era particolarmente legati: è questa la storia della giovane Lucia, protagonista femminile de “I promessi Sposi” che, minacciata dalla volgarità e dalla violenza di Don Rodrigo, deve fuggire furtivamente e repentinamente dalla città natia. “Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”, recita la fanciulla tra le silenziose lacrime, nel freddo della notte, sottolineando quanto sia straziante lasciare il luogo in cui si è vissuti. Adempiendo al suo grave destino, Lucia dà prova di grande maturità. È come se la ragazza fosse stata obbligata ad un triste esilio, come nel “vero storico” è accaduto a tantissimi uomini, tra cui Seneca, che nel 41 a.C. viene allontanato da Roma in quanto è accusato di aver preso parte all’adulterio di Giulia Livilla, figlia di Claudio, ed è mandato nella “selvaggia e malvagia Corsica”. La stessa sorte, ma per motivi politici, spetta secoli dopo al romanziere francese Victor Hugo, condannato a vivere per diversi anni nelle isole anglo-normande di Jersey e Guernesay. Dalla sofferenza e dalla riflessione, i due autori appartenenti ad epoche lontanissime tra loro, hanno partorito delle opere straordinarie, divenute dei veri e propri capolavori: “Epistualae morales ad Lucilium” lo stoico, “Les Miserables” il francese. Scrivere e meditare sono azioni proprie di una crescita personale nata da una separazione. L’esperienza di distacco più atroce è, senza dubbio, la morte, motivo di sgomento per gli uomini. “Se sono arrivata a destinazione? Fortunatamente no. Solo nel momento della mia morte potrò dire di esserci arrivata. E anche allora penso che inizierò un nuovo viaggio, una nuova emigrazione” è quanto la scrittrice brasiliana Christiana de Caldas Brito, in un’intervista alla rivista “Leggere-donna”. È un luogo comune pensare alla morte come ad un tragitto ultimo che conduce l’uomo, secondo quanto è scritto nella Bibbia, ad una nuova vita, migliore di quella terrena. Al contrario, il poeta americano Walt Withman, nella raccolta “Foglie d’erba”, parla della morte come “dell’inizio di un tutto”: paradossalmente, da questo punto di vista, la fine dell’esistenza coincide con l’inizio di una nuova crescita. Ancora, la separazione è motivata, talvolta, anche da scelte personali e dal bisogno di vivere nuove avventure, giorno dopo giorno: è la vicenda di Sam e Dean, protagonisti del manifesto della beat generation, “On the road” di Jack Kerouac, che attraversano l’America in macchina, imparando dalla strada e, sicuramente, da avventure divertenti. Crescere vuol dire conoscere, interiorizzare morali estrapolate da molteplici avvenimenti, non solo da allontanamenti necessari e dolorosi ma anche da partenze volute e positive.

Gli inganni della pubblicità

La pubblicità oltre a presentare i vantaggi del proprio prodotto, spesso inganna e mostra una verità diversa da come è realmente. Le imprese vantano la loro disponibilità verso i clienti, e sottolineano la loro attenzione nei confronti dei bisogni della gente e nella salvaguardia dell’ambiente. Invece parecchie fabbriche sfruttano i lavoratori, inquinano la natura e imbrogliano i consumatori.

Come disse Luiss Bassat, “la pubblicità è l’arte di convincere i consumatori”. Attraverso infatti la presentazione di un prodotto, evidenziando le caratteristiche positive e i vantaggi che se ne traggono, si cerca di convincere la gente ad acquistare quella determinata cosa. La pubblicità ricava forza e valore in base al destinatario, deve insomma essere creata apposta per lui, cercando di dare informazioni esaustive, e nello stesso tempo deve anche intrattenere, in modo da catturare l’attenzione e ispirare fiducia. Alcune pubblicità danno informazioni essenziali riguardo le caratteristiche del prodotto, altre dimostrano come funziona e in cosa è diverso rispetto agli altri simili. Altre invece si concentrano sulle interviste a persone che hanno utilizzano quel determinato marchio, altre ancora sulla qualità del messaggio, che divertendo e rendendosi interessante attira il pubblico, e l’informazione risulta gradevole. Molti messaggi pubblicitari però si concentrano talmente tanto su questo aspetto che trascurano l’informazione sulle caratteristiche del prodotto. Una pubblicità fatta bene, e che ispira fiducia, non deve deludere le aspettative del consumatore. Se infatti, incuriosita dal messaggio pubblicitario, una persona decide di comprare quel tipo di merce, se ne rimane soddisfatta continuerà ad usufruire di quella determinata marca, altrimenti sposterà l’attenzione su altro. Inoltre non deve ingannare, ingigantendo risultati, innalzando le aspettative e quindi deludendo: sono le tipiche pubblicità che “promettono ma non mantengono”. Non solo, spesso alcune informazioni rilevanti sono riportate in modo marginale, con caratteri a stampa piccolissimi. Ciò avviene, per esempio, nei messaggi pubblicitari delle compagnie telefoniche, le quali mettono in primo piano un prezzo stracciato che colpisce l’occhio dello spettatore, e sotto in piccolo viene precisato che ci sono anche il costo dell’attivazione, gli scatti alla risposta, e l’obbligo di mantenere l’abbonamento per un determinato numero di anni. Alcune pubblicità garantiscono risultati miracolosi, per esempio quelle che riguardano pillole dimagranti, attrezzi che con pochi sforzi regaleranno un fisico sodo e una pancia piatta, cosmetici in grado di eliminare definitivamente rughe e cicatrici. Altre pubblicità ingannano sul prezzo, dicendo che un prodotto in precedenza aveva un elevato costo, e solo per un giorno o per i primi cento che telefoneranno il prezzo sarà addirittura dimezzato. Molti messaggi ingannano omettendo i rischi e i pericoli di un prodotto; è importante che si precisino gli effetti collaterali, e si spieghi il corretto utilizzo, in modo da evitare conseguenze anche gravi. Per esempio, è successo che una pubblicità di bustine per lavaggio intimo non è stata molto chiara sul modo di somministrazione, e alcune donne hanno disciolto il prodotto in un bicchiere d’acqua e l’hanno ingerito, finendo in ospedale. Aziende famose poi, pubblicizzando le loro merci con uno sfondo di famiglie felici e natura incontaminata, in realtà non rispettano né l’uomo né l’ambiente. Alcune marche pur di guadagnare sfruttano gli operai, in particolare donne e bambini, finanziano guerre, e utilizzano sostanze chimiche dannose per la natura. Un marchio di bibite in Colombia sfrutta i lavoratori con orari pesantissimi e salari ridotti al minimo. In Pakistan, una marca sportiva sfrutta bambini per cucire a mano i palloni, mentre in Vietnam i bambini vengono utilizzati per cucire magliette e costruire le sorprese presenti in alcune uova di Pasqua. Ci sono anche aziende che maltrattano gli animali destinati al macello, sottoponendoli a continue gravidanze e riempiendoli di medicinali e antibiotici. Gli animali subiscono una morte indegna, tra sporcizia, frustate, sofferenza e lunga agonia prima di essere uccisi definitivamente. Una famosa multinazionale alimentare, che si avvale di una grande campagna pubblicitaria, e che fornisce alimenti gratuiti agli ospedali del Terzo Mondo, in realtà nasconde illeciti finanziari, inganni politici, appoggio di regimi dittatoriali. Distrugge inoltre grandi aree di foresta per far spazio alle piantagioni di caffè e cacao, nelle quali si utilizzano pesticidi pericolosi e proibiti nei paesi industrializzati. Una potente impresa che produce frutta è coinvolta in intrighi internazionali e scioperi repressi con la violenza; usa grandissime quantità di insetticidi e pesticidi e impone prezzi bassissimi alle aziende agricole da cui si rifornisce. I dipendenti percepiscono salari miseri e non hanno assistenza medica. Cerchiamo dunque di stare attenti a come e a cosa compriamo. Molte pubblicità sono ingannevoli e sfruttano la debolezza del consumatore, altre invece nascondono aziende spregiudicate il cui scopo è solo il guadagno, percepito con qualsiasi mezzo.

L’amore e i giovani

Il tema dell’amore occupa ampio spazio nella letteratura, nel cinema, nella musica e, ai giorni nostri, nei programmi televisivi, negli incontri in discoteca, nella pubblicità, persino nei social network. Esponi come nel mondo attuale l’amore viene interpretato e vissuto dai giovani, soprattutto attraverso gli esempi che percepiscono ogni giorno, ed elabora un tuo pensiero a proposito.

“Alcuni dicono che la cosa più bella sulla nera terra sia un esercito di cavalieri, altri di fanti altri di navi, io invece quello di cui uno è innamorato”. La semplicità di questi versi di Saffo, poetessa greca del VI sec. a.C., ci fa comprendere come la visione dell’amore si sia evoluta nel tempo, perdendo negli ultimi tempi la spontaneità e la freschezza di una volta. Grandi poeti, scrittori, artisti hanno celebrato in maniera diversa questo sentimento. Virgilio, poeta latino dell’età augustea, ha dedicato tutto il IV libro dell’Eneide ai dubbi e tormenti amorosi della regina Didone, alla felicità per i sentimenti corrisposti da parte di Enea, al dolore per l’abbandono dell’amante. Per non parlare di poeti come Dante e Petrarca, che celebravano la donna amata e il loro sentimento era appagato anche solo con un sorriso o un semplice sguardo. Sentimenti puri vengono descritti nelle opere di Shakespeare, nei romanzi di Jane Austen, di Dumas, di Lawrence,Tolstoj. Anche l’arte è piena di esempi: “il bacio” di Klimt, “Amore e Psiche” di Canova, “il bacio” di Hayez. Numerose storie d’amore vengono proiettate nelle sale cinematografiche, ricordiamo la struggente vicenda del film “Nuovo cinema paradiso”, quella drammatica e difficile in “Titanic”, le complicate relazioni attuali di “Manuale d’amore” e “L’ultimo bacio”. La vicenda amorosa inoltre, anche se non è il tema principale del romanzo o del film, tuttavia spesso fa da sfondo alla trama principale. Anche la musica ha come soggetto l’amore, e nelle canzoni troviamo storie difficili, amori impossibili, dichiarazioni, tradimenti, vicende a lieto fine, richieste di perdono e molte altre sfaccettature dell’amore. Le varie forme artistiche descrivono quindi i diversi aspetti di questo sentimento, e ogni artista dà una sua interpretazione personale in base alle proprie esperienze o al tipo di amore che vuole delineare. L’amore è anche al centro di programmi televisivi, ma spesso il suo valore viene banalizzato e finalizzato ad altri scopi. Molti di noi ricorderanno “Il gioco delle coppie” in cui un concorrente, separato da una parete dai propri corteggiatori, dopo una serie di domande alla fine sceglieva chi lo aveva colpito per la voce e le risposte date. Quanti si saranno commossi guardando “Stranamore” e avranno esultato di fronte alla riconciliazione di due persone. Oggi però la situazione è abbastanza diversa, e i modelli che i giovani seguono sono, tante volte, persone che sfruttano i sentimenti per diventare popolari e ricchi. Basta dare un rapido sguardo ai Reality show: storie che nascono in pochissimi giorni, gente che si giura amore eterno dopo pochissime parole scambiate, ma che poi si insulta e cambia subito partner. Lo stesso esempio negativo si trova nei talk show, in cui gente dice di partecipare per trovare la persona con cui condividere la propria esistenza, ma che in realtà sfrutta tutte le tecniche di conquista, parole e gesti, solo per apparire in televisione. Il sentimento perde il suo valore originario, diventa un mezzo per ottenere qualcos’altro. Gli esempi negativi sono anche i gossip sui vip, colti spesso in atteggiamenti e comportamenti che danno una visione sbagliata di come deve essere vissuto l’amore, con la loro velocità nel passare da un partner all’altro, i tradimenti narrati come se fossero azioni di cui vantarsi, figli vittime di tutto questo trambusto. Di conseguenza la gioventù di oggi è tartassata da questi modelli e a volte ne viene influenzata. Ci sono ragazzi che si atteggiano a grandi tronisti, ma con i quali non ci si può scambiare una parola, poiché non hanno argomenti su cui discutere. Troviamo ragazze che si vendono pur di comprare borse e scarpe firmate uguali ai personaggi televisivi, per apparire più belle ed essere ammirate. Ma l’aspetto esteriore e l’atteggiarsi a uomini e donne di mondo non serve: questo produce solamente storie brevi, senza significato, vuote, e consumate velocemente senza il minimo trasporto, che spesso iniziano nelle discoteche e locali notturni, dove con la musica alta non si possono fare grandi discorsi e conoscenze, e che finiscono negli stessi luoghi in cui sono cominciate. Un altro problema è l’incapacità di esternare i propri sentimenti nel modo più naturale possibile, faccia a faccia. Non servono anelli tempestati di diamanti, cene a lume di candela né un violino di sottofondo. Basterebbero solamente due parole dette guardandosi negli occhi. Il modo più diffuso per dichiararsi oggi, invece, è l’sms o addirittura un messaggio scritto su Facebook. Magari la persona che interessa la si incontra tutti i giorni, ma pochi hanno il coraggio di parlare a voce. Forse perché di fronte a un rifiuto il messaggio può serbare l’orgoglio ferito, forse perché un messaggio è più semplice e non richiede un grande sforzo per chi magari è troppo timido. Ma come ci si fidanza per sms, così ci si lascia. Sarà anche emozionante ricevere un sms con una dichiarazione o con dei complimenti, ma è veramente terribile leggere un “non ti amo più” in un modo così gelido. Questo significa non prendersi la responsabilità delle proprie azioni e delle proprie parole, e la conseguenza che queste hanno sull’altra persona. Tali atteggiamenti potrebbero ripresentarsi anche in altre circostanze, più serie, e potremmo avere un futuro popolato da gente senza sentimento, coraggio e ideali fermi.

La funzione della musica nell’epoca contemporanea

La musica — diceva Aristotele (filosofo greco del IV sec. a.C.) — non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per la ricreazione, il sollievo e il riposo dallo sforzo. Il candidato si soffermi sulla funzione, sugli scopi e sugli usi della musica nella società contemporanea. Se lo ritiene opportuno, può fare riferimento anche a sue personali esperienze di pratica e/o di ascolto musicale.

La musica è sempre esistita nella storia dell’umanità. Quando l’uomo non aveva ancora calcato il suolo terrestre e il nostro pianeta era appena nato, la musica era già insita nella natura: il canto degli uccelli, il susseguirsi regolare e continuo del giorno e della notte, la grande armonia dell’universo che governava ogni cosa. Già gli uomini primitivi usavano la musica come rimedio ad alcune malattie: essi, infatti, avevano capito che la musica influiva sul comportamento di un individuo, rendendolo più forte o indebolendolo. Questo ruolo terapeutico della musica è riconosciuto anche oggi. Molte malattie, infatti, sono curate con l’ausilio della musica. Ma anche chi non è affetto da malattie può godere del beneficio delle note musicali. La musica, infatti, può essere usata anche a scopo di divertimento e di relax. Si pensi, ad esempio, che una persona, per distrarsi dai problemi e per staccarsi dal “tran-tran” quotidiano, si reca al concerto del suo cantante preferito oppure accende la radio o ascolta un CD. Il suono delle note lo aiuta a distrarsi e a recuperare le forze per affrontare al meglio la propria quotidianità. La musica può anche infondere coraggio a chi si sente triste o esaltare un momento di particolare gioia. Molto spesso la persona malinconica si rispecchia nelle note che ascolta e da esse trae lo stimolo a reagire e a soffocare la tristezza, mentre chi è felice canta a squarciagola quei pezzi musicali che più si addicono alla contentezza provata. La musica, quindi, può risolvere i problemi che ci troviamo quotidianamente ad affrontare oppure sottolineare la felicità che si sente dentro. E senza chiedere nulla in cambio. Diventa, quindi, nostra amica, confidente sicura e ottimo consigliere. Ma la musica può essere anche l’espressione di sentimenti e di comportamenti comuni. In questo caso esalta l’appartenenza di un singolo all’interno di uno specifico gruppo sociale. Nascono, così, gli inni patriottici. Si pensi al momento della nascita della nostra amata Italia: persone appartenenti a diversi stati politici si sentirono maggiormente uniti e pronti a combattere per la nascita di un’unica nazione non solo perché accomunati da un’unica bandiera, ma anche perché esaltati dalle splendide note composte dal giovane Mameli che invitava tutti a risvegliarsi per giungere finalmente alla tanto attesa unità nazionale. Quale emozione allora suscita l’ascolto del proprio inno in importanti occasioni quali, ad esempio, particolari manifestazioni nazionali o in occasione di giochi a livello mondiale. La musica può anche ricordare eventi tragici avvenuti in una particolare regione. L’esempio è dato dal gruppo di importanti musicisti italiani che composero una splendida canzone intitolata Domani nel periodo successivo al tremendo terremoto che colpì l’Abruzzo. Questa canzone fu composta non solo per ricordare quanto era successo in Abruzzo, ma anche per raccogliere fondi da destinare alla ricostruzione delle zone colpite dal sisma. In questo caso, la musica è anche esempio di solidarietà, in quanto i proventi non hanno arricchito i cantanti, ma sono stati utilizzati proprio per aiutare la popolazione abruzzese. La musica è legata anche alla vita del singolo individuo o di una coppia. Può diventare, infatti, una deliziosa colonna sonora che fa da sfondo a una storia d’amore. Ascoltando le note della sua canzone, una coppia ripercorre le tappe fondamentali della propria storia, dal primo bacio fino al matrimonio, alla nascita di un figlio… Anche numerosi cantanti compongono delle canzoni in occasione della nascita dei loro figli per ricordare per sempre l’emozione provata in uno dei momenti più belli della loro vita. Inoltre la musica è anche utile per l’educazione. Si pensi alle numerose canzoncine che i genitori cantano ai loro pargoletti. Tramite queste filastrocche, i bambini possono imparare numerose cose che poi saranno utili per la loro crescita. La musica, dunque, è un linguaggio che può arrivare a tutti e parlare anche al nostro posto. Oggi la musica invade ogni spazio e si diffonde sempre più grazie all’utilizzo di nuove tecnologie. Si è passati, infatti, dal vecchio disco al moderno mp3: la musica, cioè, oggi si scarica da internet e si può portarla ovunque grazie all’utilizzo di oggetti tecnologici sempre più leggeri e meno ingombranti. Secondo me, non si può immaginare una vita senza musica: ci sarebbe un’esistenza piatta, senza colori e senza emozioni. È, quindi, un insostituibile bene prezioso che deve essere tutelato nel miglior modo possibile.

La pena di morte

A nessuno, neanche allo Stato, è consentito di togliere la vita: è questo il principio morale che anima il movimento crescente di tutti coloro che, da parti diverse e talora contrapposte, chiedono la abolizione della condanna a morte ancor oggi vigente in paesi del mondo civile. Affronta la questione proposta, soffermandoti sulla situazione attuale e accenna, con riflessioni personali, alle ragioni addotte sia a sostegno che contro la pena capitale.

La pena di morte è un’istituzione presente in tutti gli ordinamenti del mondo antico, tanto che la sua validità è sostenuta persino da alcuni passi del Vecchio e del Nuovo testamento della Bibbia, almeno fino all’avvento della predicazione di Gesù. Quest’ultimo, infatti, condanna pubblicamente – nel caso dell’adultera – la pratica della lapidazione punitiva. L’opportunità che un potere abbia o meno il diritto di sottrarre la vita a un cittadino, è una questione molto spinosa, anche in considerazione del fatto che la prima vera abolizione “di fatto” e non “di diritto” della pena di morte, risale appena alla seconda metà del 1400, per opera della Repubblica di S. Marino. Da tempo immemorabile, dunque, si scontrano le ragioni a favore e contro questa pratica che, sostanzialmente, legalizza il diritto di sopprimere la vita altrui concedendo in particolare allo Stato tale possibilità. Le motivazioni addotte dai difensori di questa pratica sono di tipo sociale, morale e persino economico. La pena di morte, infatti, almeno secondo i suoi sostenitori, avrebbe l’indiscusso premio di costituire un esempio efficace contro la diffusione della violenza dilagante nella nostra società Gli omicidi commessi a scopo di rapina, o quelli realizzati in ambito familiare al fine di affermare un diritto sull’altro, così come quelli commessi da individui psichicamente instabili (i cosiddetti “serial killer”) verrebbero limitati dalla presenza di tale castigo, che indurrebbe gli assassini – a qualsiasi titolo – a trattenersi per non incorrere nella pena capitale. In tal caso, la pena di morte, quale punizione esemplare, rivestirebbe un valore “sociale” a salvaguardia dei più deboli. La considerazione dell’inefficacia del sistema carcerario, poi – anche nella forma più spinta dell’ergastolo – rafforzerebbe la visione della necessità di tale castigo. Motivazioni sociali, quindi, contigue a quelle economiche che valutano come un costo eccessivo oltre che inutile, quello del mantenimento in vita dei detenuti macchiatisi di delitti così efferati. Motivazioni morali, infine, che guarderebbero ai parenti delle vittime come a soggetti da risarcire in maniera “definitiva” con quella medesima morte riservata a chi ha loro sottratto una persona cara. Allo stesso tempo, altrettanto valide e fondate, sono le ragioni dei cosiddetti “abolizionisti”, i quali spesso sfruttano le ragioni dei sostenitori rivoltandole a proprio favore. Il pensatore italiano Cesare Beccaria per primo, per esempio, sostenne che «la pena di morte, rendendo meno sacro e intoccabile il valore della vita, incoraggerebbe, più che inibire, gli istinti omicidi». Accanto a questo tipo di considerazioni ne esistono molte altre, altrettanto valide. Prima di ogni altra, la dimostrazione statistica della inefficacia della pena di morte come deterrente: nei paesi dove essa è applicata non esiste alcuna diminuzione costante dei delitti a essa assoggettati. Proseguendo l’analisi dal punto di vista sociale, poi, gli abolizionisti osservano che la enorme durata dei procedimenti giudiziari vanifica l’effetto di “esempio alla collettività” in quanto la sentenza è quasi sempre emessa in una data lontanissima dal momento in cui il delitto è stato commesso, a quel punto, fra il generale disinteresse. Inoltre, questa caratteristica della durata dei processi influenza anche la sfera economica della validità della pena, giacché procedure così lunghe costano tanto quanto se non più, rispetto a lunghi periodi di detenzione. In questo caso, la pena capitale sarebbe ridotta a semplice vendetta esercitata dallo Stato per conto di terzi. Quello che però più interessa agli abolizionisti, forse, è la sottolineatura della inumanità della procedura applicata (indipendentemente dalla modalità della esecuzione) e, soprattutto, la pericolosità dell’irreversibilità della pena. Dalla esecuzione capitale, inutile dirlo, non si torna indietro, e qualora il presunto colpevole venisse identificato come innocente dopo l’esecuzione medesima, ci sarebbe davvero poco da fare. Accanto a queste considerazioni, poi, ne esistono altre di carattere più “filosofico”. Una prima è quella che valuta la pena capitale come impedimento a una riabilitazione del colpevole, riabilitazione o reinserimento nella società, che sarebbe da realizzare invece per mezzo di una pena alternativa, anche se rigorosa. In ultimo, ma non per ultima, la valutazione di incoerenza che investe lo stato di diritto allorché considera legittima come punizione dell’omicidio un analogo omicidio che resta impunito come prevedono le leggi che il medesimo stato promulga. Il diritto che uno stato avrebbe, insomma, a togliere la vita a un cittadino (e quindi a un facente parte della comunità che lui stesso costituisce), rappresenta un tema molto spinoso, e che prevede analisi approfondite e dagli sviluppi delicati. In chiusura di questo breve dibattito, va comunque sottolineata la storica risoluzione Onu – arrivata al termine di una lunghissima campagna portata avanti da Amnesty International, dal partito radicale transnazionale, e dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”, che stabilisce la necessità di una moratoria universale della pena di morte, con una sospensione internazionale delle pene radicali.

I giovani nella società contemporanea

Per una serie di ragioni (difficoltà a trovare lavoro, maggiori disponibilità economiche delle famiglie, invecchiamento generale della popolazione), i giovani di oggi tendono a protrarre la loro condizione adolescenziale e a ritardare l’ingresso nell’età adulta. D’altro canto, la più diffusa democrazia nella società e nella famiglia, la valorizzazione della condizione giovanile anche nella produzione di beni e nell’offerta di consumi, atteggiamenti educativi meno autoritari, fanno si che i giovani richiedano autonomia e libertà di scelte. Come valuti, anche in relazione alla tua personale esperienza, questa contraddittoria situazione?

Filosofi, medici e letterati, fin dall’antichità, hanno dedicato ricerche e scritti allo studio dei mutamenti fisici, psicologici e sessuali dell’uomo, dando origine ad una periodizzazione dell’esistenza. Generalmente, si è soliti definire “adolescenza” la fascia d’età compresa tra i dodici e i venticinque anni. E’ in questo tempo che un individuo è chiamato a fare delle scelte importanti, ad assumersi le prime “piccole” responsabilità, ad uscire dal nucleo familiare e a conoscere da sé la vera realtà del mondo. Fino a quando si è bambini si gode, giustamente, della protezione dei proprio genitori che svolgono il difficile compito di preparare alla vita, di educare. Parlando di modelli e atteggiamenti educativi, impelagarsi in un confronto tra società contemporanea e società “passata” diventa inevitabile: attualmente a piccoli e ad adulti è concessa maggiore libertà, più autonomia. Fino a circa sessant’anni fa, i giovani non avevano alcun diritto di esprimere la propria opinione in merito a delle questioni riguardanti la sfera familiare, il mondo della scuola e, talvolta anche il “pianeta-lavoro”. In famiglia ogni decisione spettava al cosiddetto “uomo di casa”, il padre autoritario-capofamiglia; a scuola la legge era dettata dal maestro che, osservava i suoi alunni da una cattedra posta su un piano rialzato e, senza alcun riscontro in seguito, bacchettava, spesso, le loro mani con una riga in legno; sul posto di lavoro non ci si poteva permettere alcun rifiuto, alcuna ribellione, altrimenti si rischiava il licenziamento. Indubbiamente la situazione odierna è ben diversa e ciò emerge analizzando, nuovamente, i diversi ambiti già esaminati: a casa si ritiene opportuno mettere a conoscenza i ragazzi di ogni fatto-scelta e di chiedere loro un proprio giudizio; la dimensione scolastica post-’68 è fin troppo libera d’agire, quasi allo sbaraglio; il campo del lavoro rappresenta, invece, un enigma di difficile risoluzione. A che età, oggi, s’inizia a parlare di fascia adulta? Un tempo si diventava tali nel momento in cui si lasciava la casa d’infanzia per andare ad abitare altrove con il nucleo familiare formatosi. Ora si ritarda anche il fatidico traguardo del matrimonio, poiché non tutti hanno le possibilità economiche, innanzitutto, organizzare un ricevimento sfarzoso e sontuoso (così come molti desiderano) e, in seguito, per poter assicurare una somma di denaro mensile utile all’acquisto di una casa e al mantenimento della nuova famiglia. Generazione di “mammoni” la nostra o, ancor meglio, di “bamboccioni”, volendo ricorrere ad espressioni utilizzate da autorità politiche. E’ piuttosto facile per Padoa-Schioppa emettere una tale sentenza, dato che il suo “salario” ammonta a circa venti-venticinquemila euro al mese. Un ragazzo appena maturato o laureato potrebbe spiegare, o forse ricordare, al ministro quanto oggi trovare un lavoro risulti un’ardua impresa. Non è raro leggere di “donzelle” e “fanciulli” che, pur di mettere in tasca qualche euro, accettano lavori poco piacevoli, nonostante anni trascorsi sulle “sudate carte” e ottimi voti alle spalle. Si pensa che per un giovane attuale abitare a trentacinque-quarant’anni con mamma e papà e, puntualmente far affidamento sulle loro disponibilità economiche, sia piacevole e di poco importanza e non ci si sofferma a considerare l’ipotesi che tutto ciò è un’umiliazione, una sconfitta. Un paradosso questo mondo moderno, questo Terzo Millennio tanto atteso: i regimi dittatoriali son venuti meno (o quasi) e, quindi, teoricamente, ognuno di noi ha un’autonomia “conquistata”, “guadagnata”, “ereditata” da insurrezioni passate ma non può servirsene o almeno, non a pieno (chiaramente sempre rispettando diritti, doveri e leggi esistenti). A cosa giova al cittadino adolescente la libertà quando poi essa non può avere vasti campi d’applicazione? Perché studiare per portare avanti il “sogno nel cassetto” e non vederlo realizzato a causa di un mondo ricco e super tecnologico che, antiticamente, non riesce a soddisfare ogni esigenza? E’ l’ordine di leggi che regola il mondo ad essere errato, oggi. “Si stava meglio quando si stava peggio” probabilmente: buona parte della popolazione poteva contare su una modesta paga mensile, non si rifiutavano le proposte di lavoro di mestieri ora considerati spiccioli e miserevoli, ci si accontentava, forse, perché il regime di vita era differente. Adesso, soprattutto a partire dal 1° gennaio 2002, data che segna l’entrata in vigore della moneta europea, la vita è più costosa e diverse tentazioni quali abiti da capogiro, abbonamenti a televisioni satellitari per poter seguire da casa propria partite calcistiche e film, serate in discoteca, cellulari e computer all’ultimo grido, intrappolano l’uomo, conducendolo nell’abisso del “verde”. Solo dopo aver esaminato obiettivamente quanto offre oggi il pianeta Terra i giovani possono essere condannati o, magari, assolti. Facendo parte della categoria, personalmente mi astengo dal giudicare.

L’urbanizzazione: tra nostalgia del borgo e cambiamenti sociali

«L’industrializzazione ha distrutto il villaggio, e l’uomo, che viveva in comunità, è diventato folla solitaria nelle megalopoli. La televisione ha ricostruito il «villaggio globale», ma non c’è il dialogo corale al quale tutti partecipavano nel borgo attorno al castello o alla pieve. Ed è cosa molto diversa guardare i fatti del mondo passivamente, o partecipare ai fatti della comunità.» G. TAMBURRANO, Il cittadino e il potere, in “In nome del Padre”, Bari, 1983 Discuti l’affermazione citata, precisando se, a tuo avviso, in essa possa ravvisarsi un senso di “nostalgia” per il passato o l’esigenza, nella società contemporanea, di intessere un dialogo meno formale con la comunità circostante.

“… Là dove c’era l’erba ora c’è una città, e quella casa in mezzo al verde dove sarà…se andiamo avanti così chissà come si farà …”. Così cantava Celentano negli anni Sessanta, quando ancora fuori dalle grandi città come Milano si respirava aria pura e i rapporti umani erano semplici e sinceri. Non c’erano i grandi centri commerciali provvisti di scale mobili e tutte le ultime comodità, ma c’era il panificio, la drogheria, il fruttivendolo, “u verichinaru” che in Calabria vendeva detersivi. Fare la spesa richiedeva sicuramente molto più tempo rispetto ai giorni nostri, ma di certo tra venditore e cliente si instaurava una confidenza che non può essere minimamente paragonata al freddo bip del bancomat. Dopo il pranzo, le donne, sbrigate le faccende di casa, potevano tranquillamente prendere il caffè e chiacchierare con la vicina, mentre i bambini giocavano all’aperto e imparavano a interagire e comunicare fra di loro. Sviluppavano la fantasia, non c’erano molti giochi costruiti in fabbrica da poter utilizzare. Imparavano a conoscere la natura, gli animali, rinforzavano le difese immunitarie. Oggi invece la situazione è molto diversa: le signore che abitano nello stesso condominio si conoscono solo per nome, e se una di loro vuole chiacchierare chiama l’amica sul cellulare. I bambini e i ragazzi pochi anni fa stavano perennemente davanti alla televisione, ma questa adesso è diventata solo un sottofondo ai giochi della playstation, nintendo wii e internet. Mentre prima uscendo si incrociavano sguardi e sorrisi della gente, ora qualcuno ha la testa china sul cellulare, intento a mandare un messaggio, un altro, mentre aspetta alla fermata dell’autobus, ascolta musica dal suo Ipod, un altro ancora chatta dal suo Iphone con persone che probabilmente non ha mai visto in vita sua. L’industrializzazione e il progresso di certo hanno i loro vantaggi. Più gente ha la possibilità di lavorare, Paesi che prima sembravano irraggiungibili adesso sono diventate mete per il fine settimana, se una persona è lontana possiamo vederla e parlarci attraverso una videochiamata. Non dimentichiamo le conquiste importanti: sono state trovate le cure per malattie prima mortali, e i disabili possono condurre una vita abbastanza normale. Attraverso la televisione molta gente che prima era analfabeta ha iniziato ad acquisire almeno conoscenze minime, l’informazione ora viaggia più velocemente e possiamo recepirla in tempo reale. Attraverso macchinari e rivoluzioni nel campo dell’agricoltura e allevamento, è aumentata la produzione di cibo e di conseguenza è diminuita la mortalità. Mentre prima la donna era schiava delle faccende di casa, doveva lavare i piatti e i panni a mano, strofinare in ginocchio il pavimento, adesso con lavatrice, lavastoviglie, aspirapolvere e vaporella tutto risulta più facile. Ma se le condizioni di vita sono migliorate, i rapporti interpersonali hanno perso l’intensità caratteristica di un tempo. Innanzitutto il problema principale è la perdita del dialogo, riscontrabile soprattutto fra i giovanissimi. I mezzi di comunicazione più diffusi sono gli sms, le chat, i social network. Il risultato è una generazione che non sa parlare, che non sa comunicare se non tramite parole abbreviate e grammaticalmente scorrette. Inoltre un messaggio scritto è freddo, non provoca l’emozione di una parola detta guardandosi negli occhi. Non si sa se la persona dall’altro lato dello schermo sia sincera, se abbia scritto per rabbia, per scherzo, o stia dicendo un mare di bugie. Una lettera scritta con la propria calligrafia produce una sensazione diversa, più profonda, in chi legge rispetto a un’email in “Times New Roman”, uguale a migliaia di altre. Quanto poi erano più spontanee le fotografie di una volta, sviluppate dal rullino? Non c’era la possibilità di rifare una foto anche cento volte per raggiungere l’effetto desiderato, ma le fotografie erano poche e significative. Quanto è rilassante leggere un libro vero, sfogliando le pagine immersi nel profumo dei fogli stampati, invece di accecarsi di fronte a un Ipad? Dall’affermazione di Tamburrano sono passati quasi trent’anni, e se già a quei tempi l’uomo era spettatore passivo dei fatti che guardava alla televisione, oggi lo è ancora di più. Certo, ora tutto è più facile e più comodo, ed è giusto che si vada avanti col progresso. Ma bisognerebbe non farsi troppo travolgere dalla tecnologia e non dipendere dagli oggetti elettronici, a discapito dei sentimenti e delle emozioni.

Il neocolonialismo e l’immigrazione nell’Europa di oggi

La fine del colonialismo moderno e l’avvento del neocolonialismo tra le cause del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi europei. Illustra le conseguenze della colonizzazione nel cosiddetto Terzo Mondo, soffermandoti sulle ragioni degli imponenti flussi di immigrati nell’odierna Europa e sui nuovi scenari che si aprono nei rapporti tra i popoli.

Tra la fine del colonialismo e l’affermazione dell’indipendenza nazionale nei paesi del Terzo Mondo, la politica ha raggiunto risultati positivi, mentre l’evoluzione economica e sociale ha riscontrato vari problemi. L’incremento demografico è stato rapidissimo, e in sessant’anni la popolazione è raddoppiata e in alcuni casi triplicata. Questo fatto è dovuto al miglioramento dell’alimentazione e delle condizioni igieniche, con una conseguente diminuzione della mortalità soprattutto infantile. La trasformazione sul piano economico ha portato all’abbandono dell’agricoltura tradizionale, e a una crescente urbanizzazione che ha toccato livelli esorbitanti. Già dagli anni Cinquanta ci si pose il problema di come si sarebbe potuta sfamare tutta quella popolazione, e se poteva essere avviato uno sviluppo economico paragonabile a quello dei Paesi più avanzati. Verso gli anni Sessanta poi la distanza tra Paesi sviluppati e sottosviluppati cresceva sempre di più, perché nei Paesi sviluppati si stava verificando un boom economico, mentre la situazione economica dei Paesi sottosviluppati non riusciva a stare dietro all’aumento della popolazione. Inoltre, gran parte delle ricchezze presente sul loro territorio, come i prodotti minerari e agricoli, era indirizzata ai Paesi ricchi. Dunque l’economia delle zone più povere era orientata a produrre beni destinati all’esportazione, senza però incrementare la produzione a uso interno. Inoltre la maggior parte di quei prodotti era nelle mani di società straniere, e spesso i prezzi erano stabiliti da chi comprava, dunque chi vendeva non aveva l’opportunità di fare grossi guadagni. Le ricchezze di queste zone non venivano valorizzate, e i lavoratori locali percepivano salari miseri. Per tutta questa serie di cause, gli anni Sessanta videro nascere l’emergenza per l’insufficienza di cibo in questi Paesi. Molti politici e studiosi reputarono questa situazione una forma di neocolonialismo, una nuova politica coloniale che consisteva in un controllo di natura economica. Esso veniva esercitato attraverso l’ispezione delle proprietà e delle risorse economiche, le quali venivano completamente sfruttate e di conseguenza i Paesi sottosviluppati non avevano modo di rendersi indipendenti. Durante gli anni Sessanta ci furono molti movimenti nazionalisti che si opponevano al neocolonialismo, e sostenevano che l’indipendenza politica non era sufficiente a liberarsi dal potere delle potenze coloniali, ma serviva un’indipendenza economica raggiungibile con il rifiuto del capitalismo. Infatti il passaggio all’indipendenza di questi paesi (Cuba, Indocina, Medio Oriente) fu seguito da movimenti rivoluzionari e successive tendenze di natura socialista. Ma con la diffusione delle idee socialiste nel Terzo Mondo rese ancora più aspra la reazione anticomunista da parte dei governi del mondo occidentale capitalistico, soprattutto degli Stati Uniti. E i governi occidentali si preoccupavano più di assicurarsi una fedeltà politica piuttosto che favorire lo sviluppo economico. Tuttavia, anche per alcuni paesi sottosviluppati si aprirono nuovi orizzonti che permisero di avere un’adeguata disponibilità di cibo. Per prima cosa ci fu la “rivoluzione verde”, una sorprendente trasformazione nel campo dell’agricoltura che aumentò la produzione alimentare intorno agli anni Settanta. Si introdussero varietà di cereali selezionati geneticamente, si ampliarono le terre coltivate e si usarono intensivamente i fertilizzanti. La nuova agricoltura moderna favorì l’urbanizzazione e la crescita di attività industriali, come avvenne in Messico, India, Pakistan e Filippine. In questo modo si facilitarono anche gli scambi esterni con una crescente valorizzazione delle ricchezze di queste zone. Nel 1960 fu istituita l’Opec, con la quale questi Paesi potevano contrattare prezzi più alti per la loro unica ricchezza, il petrolio, e questa politica sarà determinante nei rapporti tra Paesi avanzati e arretrati negli anni Settanta. Ma tutte queste trasformazioni non risolsero il complessivo problema del sottosviluppo, ma determinarono una grossa differenza tra paesi che riuscirono a accrescere l’economia e altri in cui la situazione rimase preoccupante. Alcuni Paesi asiatici riuscirono ad emergere dal sottosviluppo, come Cina e Giappone, insieme a stati del Sud America (Messico, Brasile, Argentina) e Nord Africa (Egitto, Tunisia), i quali costituirono un nuovo gruppo, i paesi di recente industrializzazione. L’area del Terzo mondo si è ristretta, e addirittura molti paesi non solo sono rimasti fuori, ma dopo il forte aumento del petrolio hanno peggiorato la loro situazione (Africa equatoriale e sub sahariana, America centrale), poiché non disponevano di risorse minerarie e agricole quindi non potevano arricchirsi esportando i loro prodotti, e neanche comprarle. Di conseguenza questi stati del “Quarto mondo” tuttora versano in condizioni di estrema povertà senza soluzione, se non gli aiuti di organizzazioni internazionali. La povertà di questi Paesi ha prodotto un consistente flusso migratorio nei vari stati dell’Europa. Molti immigrati, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta offrivano un’imponente manodopera ai Paesi europei, e cercavano dunque un lavoro stabile e benessere, sfuggendo guerre e carestie. Se da un lato ci sono elementi positivi, come l’innalzamento del tasso di natalità che in molti paesi europei è bassissimo, dall’altro l’immigrazione porta anche problemi come la crescente disoccupazione, l’emarginazione degli stranieri e la xenofobia.

L’artigianato italiano tra innovazione e tradizione

Campagne e paesi d’Italia recano ancora le tracce di antichi mestieri che la produzione industriale non ha soppiantato del tutto e le botteghe artigiane continuano ad essere luoghi di saperi e di culture ai quali l’opinione pubblica guarda con rinnovato interesse. Contemporaneamente, anche il mondo dell’artigiano è stato investito dalla innovazione tecnologica che ne sta modificando contorni e profilo. Rifletti sulle caratteristiche dell’artigianato oggi e sulla importanza sociale, storica ed economica che esso ha avuto e che in prospettiva può avere per il nostro Paese.

L’Italia da sempre è un Paese ricchissimo di forme diverse di artigianato, dalla lavorazione del vetro a quella del legno, dalla ceramica ai metalli. Troviamo anche chi tesse cestini, chi lavora la pietra, chi realizza gioielli, chi lavora il sughero. Tutte queste forme di artigianato costituiscono una vera e propria ricchezza per il nostro Paese, che spesso viene sottovalutata e ignorata, soprattutto da chi vive in pieno il consumismo e la mondanità. Ma chi vive in campagna, i pastori, i contadini, chi abita nei piccoli paesi, ancora usufruisce di questi prodotti, trovandoli necessari per la vita di ogni giorno. I prodotti artigianali sono apprezzati dalla gente colta, che vede in essi la prova tangibile di una grande tradizione, e dai turisti, che li portano a casa come ricordo di una vacanza. E in effetti le bancarelle e botteghe artigiane sono una parte indispensabile del turismo italiano, insieme a un meraviglioso sfondo naturale e un grande patrimonio artistico e culturale. Ogni regione possiede una sua speciale attività che risale a tradizioni antichissime, e che viene tramandata di padre in figlio, con grande creatività e originalità. L’artigiano è depositario di antiche idee, tradizioni, valori e tecniche professionali. Percorrendo le vie dei paesi d’Italia veniamo spesso colpiti da rumori, aromi caratteristici del luogo e provenienti da piccole botteghe. Famose in tutto il mondo sono le vetrerie di Murano, la quale vanta un tradizione antichissima: le vetrerie sono attestate già dalla fine del 1200, e i mastri vetrai erano gli unici artigiani che potevano sposare donne patrizie. A Squillace, in provincia di Catanzaro, sopravvive ancora l’arte della ceramica artistica e della lavorazione della terracotta. Percorrendo le strade del paese sono molte le botteghe d’arte con preziose ceramiche e manufatti rustici tipici della zona. Inoltre l’istituto d’arte forma numerosi giovani in questo campo. A Venezia molteplici sono le botteghe che realizzano maschere e costumi degli antichi veneziani. L’uso della maschera a Venezia è attestato già nel 1200, e nell’arco di tutti questi secoli molte volte il suo utilizzo è stato proibito, perché alcuni mascherati risolvevano affari sporchi e portavano avanti relazioni extraconiugali. Il 1700 fu il periodo d’oro delle botteghe di maschere le quali divennero famose in tutta Europa. A Napoli esistono ancora botteghe in cui si creano mandolini, Cremona è famosa in tutto il mondo per i suoi violini, Fabriano per la produzione di carta. Negli ultimi anni l’artigianato locale è stato rivalutato e molte produzioni fino a poco tempo fa sconosciute, sono state prese in considerazione non sono per l’importanza artistica e culturale, ma anche per un fattore economico e occupazionale. Molti mestieri potrebbero finire dimenticati, perché sono pochi coloro che hanno fatto una vera e propria gavetta e hanno acquisito esperienza in questo campo, e pochi sono i giovani che desiderano imparare. Accanto all’artigianato puro delle origini oggi assistiamo all’espansione di un nuovo tipo di artigianato, quello di consumo, che produce oggetti in serie da inserire subito nel mercato. Ma il vero prodotto artigianale è tipico del luogo in cui è sempre stato lavorato e il quale vanta una lunga tradizione, e perciò lo si trova soltanto in questi posti. Inoltre molto spesso, chi per eredità possiede un laboratorio artigianale, si ritrova solamente a dover montare pezzi che non ha costruito da solo, perché incapace, e il prodotto finale non sarà del tutto originale. D’altra parte l’attuale contesto economico che tende a globalizzare il mercato pare che releghi in un piccolo spazio il lavoro artigianale. Nonostante ciò, il lavoro artigianale ha saputo adattarsi ai cambiamenti, procurandosi nuovi strumenti e macchinari, e cercando di trovare il punto di forza nella qualità e nella ricercatezza.

La politica estera italiana tra ONU, Patto Atlantico e UE

O.N.U., Patto Atlantico, Unione Europea: tre grandi organizzazioni internazionali di cui l’Italia è Stato membro. Inquadra il profilo storico di queste tre Organizzazioni e illustra gli indirizzi di politica estera su cui, per ciascuna di esse, si è fondata la scelta dell’Italia di farne parte.

L’ONU, il Patto Atlantico e l’Unione Europea sono tre organizzazioni diverse sia storicamente che per quanto riguarda l’estensione geografica. L’ONU nacque dalla trasformazione dell’alleanza delle Nazioni Unite, che si formò in seguito alla Dichiarazione delle ventisei nazioni del 1942. Durante la conferenza di San Francisco del 1945 fu istituita in modo formale sostituendo la società delle nazioni. Nel 1952 la sede ufficiale dell’organizzazione divenne New York. L’organizzazione è composta da un Consiglio di sicurezza, e dall’Assemblea generale che si riunisce ogni anno ed è costituita da tutti gli stati membri, durante la quale si discutono determinate questioni. Vi è inoltre un Segretario generale che coordina le varie attività. Scopi dell’organizzazione sono il mantenimento della pace nel mondo, la salvaguardia dei diritti umani, ma anche l’istruzione e la sanità consentiti a tutti, e il commercio internazionale. Accanto all’ONU ci sono delle istituzioni autonome che provvedono a questioni specifiche, come l’Unicef, l’Unesco, la Fao. Per quanto riguarda l’ambito giudiziario, esiste la Corte internazionale dell’Aia che si occupa dei processi per i crimini internazionali contro l’umanità. Nata dunque per mantenere la pace nel mondo, questo scopo però fu compromesso durante la guerra fredda, e l’Onu divenne più che altro sede di scontro fra le due superpotenze che voleva perseguire i loro interessi riguardo la politica estera. Nel 1948, su proposta degli Stati Uniti, fu approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che sosteneva l’uguaglianza di tutti i popoli che devono avere gli stessi diritti. In generale l’influenza degli Stati Uniti nell’ONU è molto pregnante, anche perché essi costituiscono la principale fonte finanziaria dell’organizzazione. Nel 1950 poi gli Stati Uniti proposero al Consiglio di sicurezza di condannare l’attacco della Corea nel Nord in Corea del Sud, e l’esercito americano intervenne nel Paese. Ma questo fatto e l’insuccesso in Congo nel 1961 provocò sfiducia nei confronti dell’ONU e della sua capacità di mantenere la pace, tanto che fu completamente ignorata nella conferenza di Ginevra nel 1954 e in quella di Parigi nel 1973. Nonostante ciò si stabilirono importanti principi come la condanna della segregazione razziale e dell’apartheid. Per mantenere la pace internazionale si istituirono delle unità non combattenti, i “caschi blu”, i quali dovevano controllare l’osservanza dei patti stabiliti dal consenso delle nazioni interessate. Quando nel 1990 crollò l’URSS, questa fu sostituita nel Consiglio dalla Russia. Allora si cercò di proporre un intervento più efficace nei conflitti locali, ma sempre guidati dagli interessi internazionali dell’USA, che selezionarono i conflitti intervenendo nella Guerra del Golfo, in Bosnia e in Kosovo. L’Italia fa parte dell’ONU da più di cinquant’anni, ed ha avuto un ruolo primario nella politica estera, assumendo un serio impegno riguardo la realizzazione delle iniziative dell’organizzazione, come la tutela ambientale, la democrazia e i diritti umani. Ha svolto un grande lavoro per concretizzare le riforme che servivano a rilanciare le Nazioni Unite e a cercare di essere più efficaci nella risoluzione dei problemi. Il nostro Paese inoltre dà grandi contributi alle attività dell’Organizzazione, come per esempio al bilancio delle operazioni di pace. Nel 1998 a Roma fu ospitata la Conferenza internazionale che promosse il Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità, e l’Italia è stata tra coloro che si sono impegnati di più per istituire il Tribunale. Dato il suo ruolo di spicco, l’Italia è stata fra i Paesi più votati durante le elezioni dell’ONU. Nel 1965 l’Italia, con Amintore Fanfani, ha esercitato la Presidenza dell’Assemblea Generale. Inoltre è stata sei volte membro del Consiglio di sicurezza e sette volte membro del Consiglio Economico e Sociale. Infine, con il suo contributo al bilancio ordinario dell’organizzazione si colloca al sesto posto fra i finanziatori. Il Patto Atlantico è un trattato di difesa redatto tra le potenze dell’Atlantico settentrionale ed in seguito esteso ad altri Paesi. Fu firmato nel 1949 a Washington da dodici nazioni, tra cui le più importanti sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada, e in seguito aderirono altri Paesi. Il Patto dichiara che se una nazione appartenente a questa unione dovesse venire attaccata, ciò dovrà essere considerato come un assalto a tutta la coalizione. Il Patto nasce dal timore di un attacco da parte dell’Unione Sovietica, e durante il periodo della guerra fredda l’URSS con altri stati comunisti firmarono il Patto di Varsavia. Recentemente il patto è stato richiamato in seguito all’attacco dell’11 settembre al World Trade Center e al Pentagono, per combattere il terrorismo. All’epoca dell’adesione al patto, l’Italia di De Gasperi riuscì bene a mediare con gli alleati in modo da evitare effetti troppo impegnativi. Per esempio, nella guerra di Corea l’Italia inviò sono un’unità d’ospedale. De Gasperi aveva intenzione di immettere l’Italia in un circuito politico estremamente rilevante e coglierne i frutti, ma senza compromettersi eccessivamente. Anche l’Unione Europea nasce per scopi di pace, per mettere un punto alle guerre fra i Paesi vicini. Verso gli anni Cinquanta la Comunità europea del carbone e dell’acciaio unì i Paesi sul piano politico ed economico per assicurare che la pace durasse nel tempo. Gli stati fondatori furono Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Nel 1957 fu istituita la Comunità economica europea col trattato di Roma. I Paesi non applicarono più i dazi doganali negli scambi commerciali, e di conseguenza negli anni Sessanta assistiamo a una consistente crescita economica. Nel 1973 aderirono anche la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, e il breve conflitto arabo-israeliano di questo periodo provocò una crisi energetica e problemi economici in Europa. Allora si cominciarono a dare grandi somme per finanziare nuovi posti di lavoro e abitazioni per i più poveri. Il Parlamento europeo ebbe più influenza e nel 1979 fu eletto a suffragio universale. Nel 1981 la Grecia aderì all’unione, e nel 1986 anche la Spagna e il Portogallo. In questo anno si firmò l’Atto unico europeo, per dare una soluzione ai problemi che ostacolavano gli scambi fra gli Stati e quindi realizzare il Mercato unico, che fu completato nel 1993 in virtù delle “quattro libertà”, riguardo la circolazione di beni, capitali, persone e servizi. Inoltre nel 1993 fu stipulato il trattato di Maastricht e nel 1999 quello di Amsterdam. Nel 1995 aderirono anche Austria, Finlandia e Svezia. Grazie alla libertà di viaggiare senza passaporto, molti giovani hanno avuto la possibilità di studiare all’estero ed essere sostenuti finanziariamente dall’Unione Europea. In seguito ci fu l’istituzione della moneta unica europea, l’euro, e nel 2004 aderirono all’unione altri stati. In seguito all’attentato dell’11 settembre 2001 i membri dell’Unione Europea si riunirono per fronteggiare il terrorismo. All’interno dell’Unione Europea l’Italia ha spesso ospitato eventi di grande importanza per la Comunità. Per esempio, a Roma nel 1957 fu istituita la Cee. A Stresa, nel 1958, l’Italia gettò le basi per la prima politica agricola europea, entrata poi in vigore nel 1962. Ancora a Roma, nel 1975, si stabilì l’elezione per il Parlamento Europeo a suffragio universale, e nel 1990 si approvarono due documenti, sull’Unione politica europea e su quella monetaria. Nel 2004 Romano Prodi fu eletto Presidente della Commissione europea. Nel 2005 a Parma venne inaugurata la sede dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Nel 2011 Mario Draghi è presidente della Banca Centrale Europea.

Europa e Stati Uniti: affinità e differenze

Europa e Stati Uniti d’America: due componenti fondamentali della civiltà occidentale. Illustra gli elementi comuni e gli elementi di diversità fra le due realtà geopolitiche, ricercandone le ragioni nei rispettivi percorsi storici.

Se vogliamo cercare di illustrare le differenze tra la tradizione europea e quella americana, dobbiamo innanzitutto mettere in evidenza il fatto che quella europea è di gran lunga più antica. Durante il XVI secolo il continente americano divenne oggetto di esplorazioni e in seguito di colonizzazioni. I coloni europei eliminarono quasi del tutto la cultura degli indigeni, e possiamo collocare in questo momento l’inizio della storia americana. La storia europea invece procede per tappe lunghissime e attraverso periodi diversi: la storia antica vide come protagonisti principali Greci e Romani, per poi proseguire verso il Medioevo, Età Moderna e Contemporanea, nei quali si succedettero vicende diverse nei vari Paesi. Come i periodi storici, si avvicendarono periodi culturali a partire dai primi segni di scrittura fino ad arrivare all’arte, filosofia, letteratura, scienze varie. Questa sequenza graduale non avvenne in America, nella quale i coloni, già evoluti, furono gettati di colpo in un mondo nuovo dove ricominciare tutto. I coloni erano reduci dalla Guerra dei Trent’anni e dalle varie persecuzioni religiose che avvenivano in quel periodo, perciò è facile immaginare quanto fosse intenso il flusso migratorio proveniente dall’Europa, quanto questa meta fosse privilegiata da coloro che desideravano una vita piena di ricchezza e benessere. In seguito alle migrazioni, il popolo che popolava gli Stati Uniti fu il risultato della mescolanza (melting pot) delle varie identità europee, con le loro diverse etnie, religioni e diversità sociali, avendo come caratteristica un multiculturalismo particolare, che dalla fine dell’Ottocento coinvolse anche gli schiavi provenienti dall’Africa. La formazione dell’identità americana fu un fenomeno originale e nato in condizioni eccezionali. Ciò ha prodotto una costituzione e un ordine sociale e istituzionale di gran lunga superiore a quello che si trovava in Europa. L’Europa invece fu vittima dell’oscuratismo medievale, della Guerra dei Trent’anni, dei regimi del Terrore, della Rivoluzione francese, dei conflitti mondiali, dei regini fondamentalisti e assolutistici. Gli Stati Uniti non dovevano avere queste caratteristiche, né persecuzioni religiose, né aristocratici, monarchi, pontefici massimi. Una caratteristica che permane a partire dai discorsi dei primi presidenti è lo spiritualismo presente nella politica. Ancora oggi infatti nei discorsi pubblici sono presenti appelli a Dio (“so help me God”), mentre nessun presidente Europeo potrebbe invocare Dio in nessun discorso, perché desterebbe le proteste dei diversi credi. Il Dio invocato negli Stati Uniti è il Dio di tutti e va oltre le diverse professioni di fede, perché la coesistenza di diverse culture in questo territorio è stata sempre presente. La Federazione Americana ha però elementi simili all’Unione Europea. Come infatti le tredici colonie americane si riunirono per fronteggiare la minaccia inglese, così le nazioni europee si sono congiunte per evitare una nuova guerra mondiale, fino ad ottenere un’unione sempre più stretta. Infatti in America si passò da una confederazione bellica a una federazione ufficializzata dalla Costituzione, in Europa dall’iniziale Mercato Comune si è arrivati all’Unione Europea. Tuttavia l’Unione Europea è ancora agli albori, non è sviluppata completamente come gli Stati Uniti che nel 1787 hanno invece stabilito un’unificazione definitiva. Possiamo riscontrare delle similitudini anche nell’attribuzione del peso politico a ciascun stato. In Europa il peso politico è dato dal numero di seggi che ogni Paese possiede nel Parlamento Europeo, dal numero dei membri nella Commissione, e dal valore del voto di ogni Stato nel Consiglio dei Ministri, tenendo sempre conto del numero di cittadini presente in ogni Stato. Gli Stati Uniti hanno un Congresso, ripartito tra la Camera i cui seggi sono assegnati ad ogni Stato secondo una modalità simile a quella che avviene in Europa, e il Senato, in cui per ogni stato vi sono due rappresentanti. Dopo le due guerre mondiali, l’Europa ha prodotto una sorta di autocritica nei confronti delle azioni riprovevoli del suo passato. Il continente è stato scenario di conflitti religiosi e ideologici da secoli, a partire dall’Inquisizione e la Guerra dei Trent’anni fino ad arrivare alle guerre mondiali. Anche in America si è prodotta un’analisi critica riguardo le azioni del passato, come lo schiavismo, il razzismo persistente fino a metà del XX secolo, lo sfruttamento economico. Questo tardo esame di coscienza conferma la comune origine delle due popolazioni e la simile evoluzione di pensiero riguardo la proprio storia. Un differenza tra i due continenti possiamo riscontrarla nelle posizioni che entrambe tengono di fronte al pericolo. Da premettere è che una minima parte della popolazione statunitense ha vissuto in diretta le atrocità delle guerre mondiali, lo scenario infatti è stato prevalentemente il territorio europeo, i cui abitanti hanno visto città rase al suolo, campi di concentramento, battaglie infinite. Anche se l’America ha vissuto una sanguinosa Guerra Civile, tuttavia la popolazione attuale ha solo una memoria storica, perché da anni non c’è nessun vivo che possa testimoniarla. In Europa invece molti testimoni diretti dei conflitti mondiali sono ancora vivi. Comprensibile è dunque l’esitazione che l’Europa ebbe a prendere le armi durante la Guerra Fredda. E di conseguenza possiamo capire con quale trauma fu vissuto l’attentato dell’11 settembre 2011, completamente inaspettato, poiché le città americane non vivevano attacchi diretti dai tempi della Guerra Civile. Gli attacchi terroristici hanno colpito anche l’Europa, Madrid nel 2004 e Londra nel 2005, ma il trauma è stato di minore intensità, sia perché non erano inaspettati, sia perché la memoria delle guerre mondiali era ancora viva. Possiamo concludere dicendo che esistono elementi comuni tra Europa e America, poiché i due popoli derivano da una stessa matrice, ma diverse esperienze storiche hanno portato ad avere spesso visioni discordi riguardo alcuni aspetti e problemi, portando quindi a scegliere decisioni e posizioni diverse.

I giovani e la legalità

Il principio della legalità, valore universalmente condiviso, è spesso oggetto di violazioni che generano disagio sociale e inquietudine soprattutto nei giovani. Sviluppa l’argomento, discutendo sulle forme in cui i vari organismi sociali possono promuovere la cultura della legalità, per formare cittadini consapevoli e aiutare i giovani a scegliere un percorso di vita ispirato ai valori della solidarietà e della giustizia.

Il principio di legalità è di massima importanza, ed è fissato dal primo articolo del codice penale, secondo il quale nessun individuo può essere punito per un reato non espresso dalla legge e non si possono stabilire pene che non compaiano nella legge. Questo principio è citato anche nella Costituzione, in cui si dice che una persona può essere punita solo in forza di una legge entrata in vigore prima che sia stato commesso il fatto. Il principio di legalità è una grande conquista della società democratica. Infatti assicura la certezza del diritto, perché in questo modo il cittadino conosce in anticipo se i suoi comportamenti sono punibili legalmente e costituiscono reato. C’è però una piccola nota negativa: per esempio, un atto riprovevole agli occhi di tutti, ma che non ha una legge che lo vieti, non può essere punito penalmente, neanche se dopo dovesse essere approvata una legge che lo condanni. L’insieme delle leggi rappresenta una conquista sociale, regolando i rapporti tra le persone e mantenendo l’ordine nel Paese. Riproduce la volontà comune a tutti gli abitanti, che formano lo Stato, una volontà che riguarda il bisogno di rispetto all’interno della società, il bisogno di sentirsi più sicuri, di non essere sopraffatti da chi è prepotente e di non essere aggrediti dalle varie forme di criminalità. La legge è garante di una pacifica convivenza, senza paura, tensioni e sospetti verso il prossimo, e conferisce la consapevolezza di essere tutti uguali e di poter essere giudicati allo stesso modo. Purtroppo non tutti rispettano le norme comuni, e procedono illegalmente senza considerare gli altri, anzi, danneggiandoli spesso gravemente. In Italia la mafia e la corruzione compiono le azioni illegali più frequenti, soprattutto nel Meridione, coinvolgendo tutti gli strati sociali e tutte le istituzioni. Non mancano i piccoli criminali, presenti in tutto il Paese, rapinatori, assassini. Esiste un numero impressionante di evasori fiscali, di gente che esercita professioni senza un titolo adeguato, persone perfettamente sane che percepiscono la pensione d’invalidità. Il problema deriva in buona parte dalla corruzione esistente anche all’interno delle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della legge, ma che invece, per avere soldi e privilegi, cadono nella corruzione. Il problema è anche l’omertà dilagante, che può essere dovuta alla paura, ma molto spesso all’indifferenza e convenienza. Molta gente cerca di combattere questi fenomeni, sia denunciando, sia cercando di formare i giovani alla giustizia e al rispetto, ma costituisce solo una piccola parte della popolazione. L’insegnamento della legalità deve cominciare quando l’essere umano è bambino, con iniziative che dovrebbero partire dalle scuole, ma anche dal buon esempio in famiglia. La scuola e la famiglia sono i punti di riferimento di un bambino, che in tenera età è come una spugna e recepisce velocemente tutto ciò che vede e sente. Da lì bisogna intervenire e creare i cittadini giusti del domani. Una buona cultura favorisce dialogo e apertura mentale, e la conoscenza del passato, di altre culture e lingue sono fondamentali. Importante è anche la conoscenza delle istituzioni politiche e sociali, delle leggi insieme a diritti e doveri dei cittadini, della situazione attuale del mondo e cercare di sviluppare capacità critiche e di formulare un proprio pensiero. La scuola inoltre è come un piccolo paese, che ha delle norme in modo che tutti si sentano uguali e si abbia più rispetto reciproco. E come un bambino, un ragazzo si comporta a scuola, così si comporterà all’interno di un organismo più esteso. La formazione di nuove menti potrebbe salvare il nostro futuro, ma intanto il problema persiste. Bisognerebbe effettuare controlli più frequenti e precisi, cercare di selezionare personale capace, attento e con uno spiccato senso di giustizia, in modo che non si faccia corrompere. Tutti dobbiamo collaborare affinché chi non rispetta l’altro e cerca di sopraffarlo, venga denunciato e punito, e non protetto per paura o perché è potente. Deve cambiare la mentalità e deve sparire la rassegnazione che tutti hanno nei confronti di questo mondo ingiusto, perché tutti sappiamo riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I nostri antenati hanno lottato per i loro diritti, per la libertà, per il progresso. Hanno contribuito con i loro sforzi a migliorare lo stile di vita, ad cercare di ottenere tolleranza e rispetto, per avere una vita più pacifica. Come disse Umberto Eco, “siamo tutti nani sulle spalle dei giganti”. Viviamo grazie alle scoperte e conquiste dei grandi personaggi del passato, e penso che dovremmo cercare di mantenere ben saldi in testa i loro insegnamenti, e cercare di progredire preservando e tutelando quello che oggi abbiamo grazie a loro.

L’era delle immagini: pro e contro

Si dice da parte di alcuni esperti che la forza delle immagini attraverso cui viene oggi veicolata gran parte delle informazioni, rischia, a causa dell’impatto immediato e prevalentemente emozionale, tipico del messaggio visivo, di prendere il sopravvento sul contenuto concettuale del messaggio stesso e sulla riflessione critica del destinatario. Ma si dice anche, da parte opposta, che è proprio l’immagine a favorire varie forme di apprendimento, rendendone più efficaci e duraturi i risultati. Discuti criticamente i due aspetti della questione proposta, avanzando le tue personali considerazioni.

Negli ultimi decenni il ruolo dell’immagine è diventato predominante nell’ambito dell’informazione. Desta una certa curiosità il fatto che essa sia diventata così indispensabile e si cerca di spiegare il motivo per cui abbia un ascendente così rilevante sull’essere umano. Secondo alcuni studi scientifici la memoria visiva è quella più utilizzata dall’uomo nell’arco della sua vita, ed aiuta a contestualizzare meglio un ricordo, soprattutto perché conferma che un dato fatto è avvenuto realmente. Inoltre la memoria visiva ha una forza maggiore rispetto alle altre, perché la maggior parte di ciò che è immagazzinato nella nostra mente corrisponde a immagini visive. L’immagine perciò riesce a suggestionare la mente e i giudizi di una persona. Ma opinioni opposte esistono a riguardo, una infatti sostiene che l’immagine può diventare preponderante, a discapito del concetto che si vuole esprimere, mentre l’altra posizione dichiara che è proprio l’immagine a rafforzare il concetto e ad aiutare a comprenderlo. La prima opinione che ho enunciato riconosce il valore dell’immagine, ma critica il suo abuso. Le immagini iniziarono ad essere più utilizzate verso gli anni Sessanta, quando si diffuse la televisione. Quest’ultima poteva essere uno strumento di comunicazione culturale indirizzato a un gran numero di persone, anche a chi era analfabeta. Televisione e radio hanno incrementato l’educazione e la cultura della popolazione, e soprattutto in Italia ha divulgato la conoscenza della lingua italiana, poiché in alcune regioni veniva parlato e capito solo il dialetto. Ma ciò che era nato per allargare orizzonti e cultura, oggi limita la capacità critica di decidere di molta gente. Chi trasmette informazioni, chi si occupa di pubblicità, conosce bene l’influenza che una figura proiettata può avere sulla mente umana, e a volte se ne fa un uso negativo, trasmettendo messaggi ingannevoli, per scopi commerciali. Diffusi sono anche i messaggi subliminali nelle trasmissioni ma anche nella proiezione di film o altri tipi di filmati. Si immettono flash di immagini che durano pochissimi secondi e in apparenza non vengono rilevati. Nel momento in cui quell’immagine verrà di nuovo visualizzata, in un altro contesto, ritornerà il ricordo di quel prodotto e la sensazione che aveva determinato. Spielberg aveva inserito dei flash di immagini di una marca di caramelle nel film E.T., e dopo l’uscita di questo, la vendita dell’ alimento era considerevolmente aumentata. Un altro problema legato alla trasmissione di immagini e alla televisione è l’effetto che produce nei bambini e giovani. Secondo alcune ricerche condotte negli Stati Uniti, i bambini che trascorrono molte ore davanti alla televisione sono più aggressivi, e con il passare degli anni la situazione tende solo a peggiorare. Altri invece sostengono che il supporto di immagini aiuta ad apprendere meglio i concetti che si espongono. In effetti molti studenti riescono ad assimilare meglio una lezione quando questa viene accompagnata da una rappresentazione visiva, per esempio con i lucidi o il Power Point. Basti pensare al metodo di apprendimento dei bambini: accanto alle parole o alle frasi da leggere, compaiono disegni che illustrano visivamente ciò che è scritto. Anche i documentari, utilizzando i filmati, per molte persone, che non amano leggere, risultano più facili da capire e ricordare. Un film, tratto da un romanzo, viene ricordato meglio del libro letto, per l’associazione tra figura e idea. A mio avviso, le immagini sono un supporto importante per l’apprendimento. Esse aiutano a memorizzare meglio un’idea, a contestualizzarla, a comprenderla con più facilità. Bisogna comunque farne un uso appropriato, cercando di non trasmettere messaggi sbagliati o diseducativi, deleteri per la società, né sfruttare la pubblicità subliminale a scopo di lucro.

La cittadinanza da anagrafica a planetaria

Tutti gli esseri umani, senza distinzione alcuna di sesso, razza, nazionalità e religione, sono titolari di diritti fondamentali riconosciuti da leggi internazionali. Ciò ha portato all’affermazione di un nuovo concetto di cittadinanza, che non è più soltanto “anagrafica”, o nazionale, ma che diventa “planetaria” e quindi universale. Sviluppa l’argomento analizzando, anche alla luce di eventi storici recenti o remoti, le difficoltà che i vari popoli hanno incontrato e che ancor oggi incontrano sulla strada dell’affermazione dei diritti umani. Soffermati inoltre sulla grande sfida che le società odierne devono affrontare per rendere coerenti e compatibili le due forme di cittadinanza.

Dopo le turpitudini avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale, come l’olocausto degli Ebrei, la terminazione di popoli interi, si è resa necessaria la redazione di leggi che tutelassero i diritti dell’intera umanità. Nasce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, concepita attraverso la nuova consapevolezza dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani; essendo tutti uguali, gli uomini del pianeta devono godere degli stessi diritti. Questa nuova concezione riscontra ancora oggi delle difficoltà. Basti pensare alle innumerevoli manifestazioni di razzismo, intolleranza e incomprensione che avvengono ogni giorno anche a livelli alti, come lo sfruttamento e il massacro di interi popoli da parte di detentori di potere (Milosevic, Saddam Hussein, Bin Laden). Bisogna cercare di avere una più ampia apertura mentale, in modo che tutti possano accogliere senza pregiudizio le novità, il diverso e le anormalità. Nello stesso tempo, la nuova concezione di “cittadinanza planetaria” non dovrebbe portare all’omologazione e alla conseguente perdita delle diverse culture, lingue, saperi e culti. La mentalità chiusa e la paura nei confronti delle diversità produce tante volte delle valutazioni negative e non corrispondenti alla realtà effettiva. Si creano dei confini insormontabili, e giudizi di inferiorità nei confronti di chi è diverso, insieme a pratiche razziste e intolleranti, e violazioni dei diritti universali. Ma nessun popolo ha il diritto di sentirsi superiore ad un altro, ogni civiltà nasce con una base interculturale, attraverso i contatti fra diversi tipi di cultura, aventi differenti saperi, linguaggi e religioni. Le popolazioni moderne non sono altro che il risultato di millenni di migrazioni, commistioni, scambi e contaminazioni di culture diverse. Alcuni studiosi pensano che si dovrebbe proporre un’educazione interculturale anche nelle scuole, in modo che da piccoli si possa riconoscere la pari dignità che tutti possediamo, e di conseguenza si abbia più rispetto nei confronti dell’essere umano. L’informazione ha un ruolo predominante nella sensibilizzazione dell’individuo di fronte a questo problema: assistiamo ogni giorno a manifestazioni di razzismo e discriminazione contro minoranze etniche, e si notano le differenze esistenti tra i diversi gruppi sociali, tra i popoli ricchi e le società povere e dimenticate. La barriera del pregiudizio va abbattuta con un pensiero che attraversa le diverse culture, le quali tuttavia devono mantenere le singole identità, e nello stesso momento costruire intenti comunitari e condividere valori, così da raggiungere una convivenza pacifica. In questo modo ognuno ottiene il diritto alla libertà, il rispetto della propria razza e religione, e di conseguenza viene educato alla differenza e al dialogo interculturale. Per raggiungere la tolleranza e combattere il razzismo è necessaria anche una conoscenza approfondita dell’altro, al fine di apprendere la cultura diversa e comprenderla. Le donne e gli uomini del mondo contemporaneo sono costretti a convivere con culture diverse, e con un dialogo adeguato si potrebbe riuscire a raggiungere la piena consapevolezza dell’uguaglianza dei diritti e della dignità, e promuovere l’idea di una nuova cittadinanza, mondiale, che valorizza le differenze, e trasmetta il senso di appartenenza allo stesso mondo, privo di confini geografici e mentali. Oltrepassando questi confini, i particolarismi, e intercon-nettendo le diversità riconoscendole, impareremo tutti ad accettare le disuguaglianze. I popoli che provengono da terre lontane e si stabiliscono nel nostro territorio, portano un vasto bagaglio culturale fatto di gesti, modi di vestire, accessori, saperi di vario genere. Ciò arricchisce le nostre conoscenze e la nostra cultura, apre la mente alla novità, influendo sui comportamenti che ognuno ha verso l’altro. Nel corso di tutti i millenni l’umanità ha assistito a lotte tra i popoli diversi, destinate a determinare colui che avrebbe comandato e sfruttato l’altro. Chi vince è potente, chi perde è debole, schiavizzato, ucciso, torturato. Lo straniero che si trasferisce in un altro Paese è visto ancora oggi in modo negativo dagli autoctoni, perché ha colore e lineamenti differenti, perché crede in un Dio diverso o veste in modo strano. Ma resta il fatto che tutti siamo nati allo stesso modo e sulla stessa Terra, e pur mantenendo la nostra identità, dobbiamo cercare di convivere pacificamente sul suolo comune.

Il patrimonio artistico in Italia: una vera risorsa economica?

Paesi e città d’Italia custodiscono un immenso patrimonio artistico e monumentale che, oltre a rappresentare una importantissima testimonianza della nostra storia, costituisce al tempo stesso una primaria risorsa economica per il turismo e lo sviluppo del territorio. Affronta la questione anche in relazione all’ambiente in cui vivi, ponendo in evidenza aspetti positivi e negativi che, a tuo giudizio, lo caratterizzano per la cura, la conservazione e la valorizzazione di tale patrimonio.

L’Italia possiede il più grande patrimonio artistico e culturale di tutto il mondo, costituito da più di 3400 musei, 2100 parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante questa ricchezza però, non si riscontra un ritorno economico adeguato, e se diamo uno sguardo agli altri Paesi, notiamo che alcuni, nonostante detengano anche solo la metà dei siti italiani, hanno un guadagno parecchio superiore. La grandezza, la capillarità e l’importanza del patrimonio culturale, artistico e storico italiano è manifesto a tutti; dalla lista compilata dall’Unesco riguardo il patrimonio mondiale, risulta che il nostro Paese possiede il maggior patrimonio culturale di tutto il mondo. Il sito di Val Camonica è il più importante complesso di arte rupestre d’Europa, con le sue innumerevoli incisioni su roccia. Per niente valorizzata, se non addirittura sconosciuta, è una delle più antiche (o forse la più antica) pitture rupestri, lo splendido graffito raffigurante un toro preistorico, nella Grotta del Romito a Papasidero, in provincia di Cosenza. Facendo un rapido excursus storico, possiamo ricordare le colonie della Magna Grecia, in Calabria, Basilicata, Sicilia, Puglia e Campania, che ci hanno lasciato numerose testimonianze artistiche dello stanziamento greco in Italia, soprattutto riguardo la scultura e l’architettura. Famosi sono, per esempio, il tempio di Selinunte, il tempio di Hera a Paestum, il tempio della Concordia ad Agrigento. Il periodo etrusco ci ha lasciato gioielli, vari tipi di tombe, sculture, ciste (per esempio la cista Ficoroni) e pitture sepolcrali. Del periodo dell’egemonia romana esiste un ampio panorama culturale, non solo nel Lazio, ma anche nelle altre regioni. A Roma abbiamo il Ponte Milvio, l’Arco di Augusto, la Domus Aurea, l’Ara Pacis, il Colosseo, il Pantheon, il Foro di Traiano, le terme di Caracalla. A Palestrina c’è il tempio della Fortuna Primigenia, a Pompei ed Ercolano numerose decorazioni parietali, a Tivoli la Villa Adriana. Per non parlare poi dell’arte bizantina (la Cattolica di Stilo, la cattedrale di Cefalù), medievale (basilica di S. Francesco ad Assisi, il Pulpito del Duomo di Pisa, gli innumerevoli affreschi di Giotto), rinascimentale (la cupola del Brunelleschi a Firenze, il Palazzo Ducale di Laurana ad Urbino, le sculture di Donatello, le pitture del Botticelli, Mantegna, le grandi opere di Leonardo, Michelangelo, Raffaello), barocca (piazza S. Pietro del Bernini, le pitture di Caravaggio), moderna (la Reggia di Caserta di Vanvitelli), che hanno generato grandissimi personaggi nel campo artistico, pittori, scultori e architetti. L’Italia è anche patria di importanti letterati e filosofi, che costituiscono i fondamenti della letteratura mondiale. Nonostante questa grande ricchezza, molto spesso non si valorizzano in pieno le opere d’arte presenti sul nostro territorio, e a volte mancano cure adeguate, come operazioni di restauro o un controllo più efficace e attento. Tante sculture presenti nelle nostre piazze, nei giardini, davanti ai Duomi, sono oggetto di azioni vandaliche, come scritte o addirittura danni e lesioni. Lo stesso problema presentano anche gli edifici architettonici, vittime di scempi, scritte e murales. Per alcune opere d’arte corrose dall’azione del tempo, non vengono prese in considerazione interventi di restauro, e si corre il rischio di perdere per sempre tante di queste meraviglie. Nel resto del mondo la situazione è decisamente migliore: in Francia si è intervenuto nella cura del paesaggio con l’operazione Mission Val de Loire; a Los Angeles, il Getty Museum ha una perfetta organizzazione. La situazione italiana invece è in alcuni casi arretrata da questo punto di vista, e tante volte non si tratta della mancanza di fondi. Per fare un esempio, nel 2004, il Real Sito di Carditello, a Caserta, ha ricevuto circa due milioni e mezzo di euro per il restauro, ma le sue condizioni al momento sono disastrose. E non si tratta solo del sud, condizioni deplorevoli si trovano anche in alcune sale della Villa Reale a Monza. Però, eccetto alcuni casi, molti soldi vengono spesi per la tutela e la conservazione delle ricchezze storico-artistiche, e i diversi governi hanno dato priorità assoluta a ciò, trascurando l’utilizzazione per scopi turistici. A causa dei considerevoli esborsi per la salvaguardia, recuperi e restauro le opere d’arte sono più un peso finanziario che una fonte di guadagno. Dovrebbero essere attuate delle adeguate strategie di sviluppo, in modo da sfruttare queste enormi ricchezze e tramutarle in vantaggi economici, con conseguente aumento di reddito e dell’occupazione.

I diritti civili e la loro inalienabilità

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dalle Nazioni Unite proclama solennemente il valore e la dignità della persona umana e sancisce al tempo stesso la inalienabilità degli universali diritti etico-civili. La storia dell’ultimo cinquantennio è tuttavia segnata da non poche violazioni di questi principi rimaste impunite. Quali a tuo avviso le ragioni? Affronta criticamente l’argomento soffermandoti anche sulla recente creazione del primo tribunale internazionale dei crimini contro l’umanità ed esprimendo la tua opinione sulla possibilità che questo neonato organismo internazionale possa rappresentare una nuova garanzia in favore di un “mondo più giusto”.

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo fu redatta dagli Alleati dopo aver vissuto le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, ed ha un valore etico e un’importanza storica fondamentale. Sancisce infatti, in modo universale, i diritti degli esseri umani. La Dichiarazione è costituita da un preambolo che precisa le motivazioni della stesura, e da trenta articoli, i quali stabiliscono i concetti di libertà e uguaglianza, diritti individuali e della comunità, la libertà di pensiero, opinione, fede, coscienza, parola, i diritti economici, sociali e culturali delle persone. Nonostante ciò, negli ultimi sessant’anni diversi sono stati i crimini contro l’umanità, crimini di guerra, genocidi, spesso rimasti impuniti. I crimini contro l’umanità sono le azioni violente e gli abusi contro popoli o gruppi di persone, che la morale comune e universale nata dopo la Seconda Guerra Mondiale ritiene degni una sanzione esemplare. Sono stati colpevoli di questi crimini prevalentemente uomini di potere, capi di stato o dittatori, come l’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic e Saddam Hussein. Milosevic ha condotto operazioni di pulizia etnica contro i musulmani nella Croazia, in Bosnia-Erzegovina e nel Kosovo; inoltre aveva ordinato l’assassinio di Ivan Stambolic, al suo fianco durante gli anni Ottanta, ma che si era candidato nel 2000 alle elezioni presidenziali. Per tutto questo nel 2001 fu giudicato colpevole dal Tribunale Internazionale e venne arrestato. La condanna di Saddam invece è stata pronunziata da un tribunale speciale iracheno, che nel 2006 ne ha ordinato la condanna a morte per impiccagione. Tra i vari crimini ricordiamo la strage di Dujayl nel 1982, in cui furono uccisi 148 sciiti. Con lui sono stati condannati anche i sette gerarchi del suo regime, tra cui il fratellastro. La condanna ha suscitato reazioni discordanti, curdi e sciiti si sono rallegrati, soddisfatti gli Stati Uniti, mentre l’Italia e altri paesi dell’Unione Europea hanno espresso la loro contrarietà alla pena capitale. In particolare è stato criticato lo svolgimento del processo, in cui non sono stati rispettati i diritti della difesa. E dunque, nonostante le mostruosità che Saddam ha commesso, la pena capitale, e la mancanza di rispetto nei confronti della sua persona, contrastano con i principi espressi nella Dichiarazione. Orrore ha suscitato il video dell’esecuzione, azione riprovevole nei confronti di un essere umano. Un altro esecutore di crimini contro l’umanità è Osama bin Laden, leader dell’organizzazione terroristica al-Qaida. Bin Laden in un primo momento ha attaccato gli Stati Uniti bombardando un hotel nello Yemen dove alloggiavano un gruppo di soldati. Probabilmente Osama avrebbe organizzato nel 1993 l’attentato al Worl Trade Center, e nel 1998 firmò un proclama religioso in cui si sosteneva che era dovere dei musulmani uccidere americani e alleati. Infine ricordiamo gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono di Arlington in Virginia. Da marzo 2011 in Siria si contano 4000 morti, a causa delle repressioni del regime dittatoriale di Bashar al Assad, e il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha stabilito sanzioni economiche da parte della Lega Araba nei confronti della Siria. Le accuse sono gravi: si tratta di uccisioni, torture, stupri, prigionia e scomparse forzate. Processato all’ Aja per crimini contro l’umanità è anche l’ex presidente della Costa d’Avorio, Gbagbo, accusato di aver ucciso circa 3000 persone, ma colpevole anche di stupri e atti di persecuzione. Sconfitto alle presidenziali da Ouattara, non voleva lasciare il potere. La strage di Oslo e Utoya, avvenuta nel luglio 2011 ad opera di Breivik, conta 77 vittime. L’uomo, prima condannato a 30 dall’Aja, è stato giudicato malato di schizofrenia paranoica da alcuni esperti, dunque è necessario internarlo in un ospedale psichiatrico. Breivik infatti ha confessato di essere stato l’artefice della duplice strage, ma dichiarando che queste erano azioni necessarie, anche se atroci. Quando fu catturato infatti, disse che era un “crociato contro l’invasione musulmana”. Nonostante la presa di coscienza avvenuta dopo la Seconda Guerra Mondiale dell’uguaglianza tra tutti gli essere umani, e quindi necessità di portare rispetto a tutti, il mondo degli ultimi anni è popolato da personalità che hanno cercato di imporsi con metodi atroci e disumani, e che purtroppo sono state appoggiate da altre persone, per paura o debolezza. Ciò potrebbe essere dovuto alla poca apertura mentale di alcuni popoli, o al loro fanatismo religioso. Se personaggi come Milosevic o Saddam non avessero avuto appoggio da nessuno, sarebbero rimasti isolati e privi di potere. Anche se Breivik ha agito da solo, tuttavia qualcuno che gli ha fornito le armi e le bombe. Forse siamo ancora lontani dalla completa civilizzazione, visto che attualmente il mondo è pieno di persone che non rispettano il prossimo. Non mi riferisco soltanto ai grandi dittatori o agli sterminatori di massa, ma anche a pedofili, stupratori, assassini di vario genere. Il Tribunale Internazionale dei crimini contro l’umanità, che si trova nell’Aja, nei Paesi Bassi, è un’istituzione che a mio avviso contribuisce a dare, spesso, giuste sanzioni a questi criminali, ma ciò non basta, dovrebbero essere adottate anche delle misure preventive.

La globalizzazione e le sue origini

La world history, la corrente storiografica che vede nell’inglese Christopher Bayly uno dei maggiori interpreti, stimola ad una visione ben più ampia del consueto sui temi della globalizzazione e soprattutto delle sue origini. L’età contemporanea si evidenzia per la caduta e la riorganizzazione degli Imperi, l’espansione e la conferma delle religioni e i sempre più stretti legami col potere, i nuovi fenomeni urbani che introducono stimolanti elementi negli scambi sociali ed interculturali.

Molto prima dell’inizio canonico della globalizzazione, dal 1780 al 1914, alcune tendenze storiche e sequenze di eventi possono essere collegate, svelando i collegamenti e l’interdipendenza dei mutamenti politici e sociali a livello planetario. Avvenimenti mondiali cardine, come le rivoluzioni europee del 1789 e 1848 si irradiarono all’esterno e si rimescolarono con gli spasmi che si creavano all’interno di altre società. Altri eventi esterni alle potenze europee emergenti, come le ribellioni avvenute in Cina e India a metà Ottocento, agivano sull’Europa, plasmando nuove ideologie e facendo emergere nuovi conflitti politici e sociali. E mentre gli eventi si facevano sempre più interconnessi, anche le abitudini umane si adattarono finendo per uniformarsi, in tutti i campi: Stato, religione, ideologie politiche, vita economica. Una simile omogeneità era visibile nelle istituzioni come le Chiese, le corti regie, i sistemi giudiziari, ma anche nei modi in cui la gente vestiva, parlava, mangiava e si comportava all’interno della famiglia. Nello stesso tempo queste congiunzioni aumentarono il senso della disuguaglianza e dell’antagonismo tra i componenti delle diverse società. Così, nel corso del XIX secolo, gli Stati-nazione e gli imperi territoriali antagonisti assunsero tratti più nitidi e divennero più ostili gli uni verso gli altri proprio nel momento in cui le somiglianze, le connessioni e i collegamenti reciproci aumentarono. Massicce forze di trasformazione globale facilitarono l’emergere della differenza tra società umane, ma queste diversità si manifestavano con modalità simili. Secondo la tesi di Bayly dunque, tutte le storie locali, nazionali o regionali sono, sotto importanti profili, storie globali. Non è più possibile scrivere una storia di un continente in senso stretto. Un’importanza centrale in questa storia globale fu rivestita dal sempre più forte dominio economico da parte dell’Europa occidentale e del Nord America. Nel 1780, l’Impero cinese e l’Impero ottomano erano ancora potenti realtà di livello mondiale e la maggior parte dell’Africa e dell’Oceania era governata da popoli indigeni. Nel 1914, invece, la Cina e gli Stati ottomani erano sull’orlo della frammentazione e l’Africa era stata brutalmente sottomessa dai governi, compagnie commerciali e società minerarie europei. Tra il 1780 e il 1914 gli Europei sottrassero agli indigeni vaste estensioni di terra, in Africa settentrionale e meridionale, in Nord America, Asia centrale, Siberia e Australia. Il dominio fisico si accompagnava alla dipendenza ideologica: concetti sociali, istituzioni e procedure funsero da autorevole modello per i popoli extraeuropei. Questi popoli accolsero e rimodellarono i concetti e le pratiche occidentali secondo le proprie necessità in modo da mettere delle barriere alla grandezza del dominio europeo. Nel 1780 il mondo era ancora policentrico. L’Asia orientale, l’Asia meridionale e l’Africa mantenevano dinamismo e iniziativa in diversi settori della vita economica e sociale, anche se già si delineavano potenti vantaggi competitivi per gli Europei e i coloni d’America. Verso il 1914 invece, con l’ascesa del Giappone, la guida dell’Europa aveva ormai visto sfide significative. Le storie nazionali vanno inserite nel più ampio contesto dei mutamenti mondiali. Le idee e i movimenti politici attraversavano oceani e confini passando da un paese all’altro. Per esempio, con la fine della guerra civile del 1865, i liberali americani poterono aiutare il governo radicale messicano di Benito Juàrez, che si trovava sotto l’assalto dei conservatori sostenuti dai francesi. I radicali messicani avevano ricevuto appoggio da parte di Giuseppe Garibaldi e altri rivoluzionari che erano stati eroi delle rivolte europee del 1848 contro l’autorità. In questo caso, le esperienze comuni diedero origine a un fronte unito attraverso il mondo. Ma, nello stesso tempo, l’esposizione ai cambiamenti globali poteva spingere la classe colta, i politici e la gente comune a sottolineare la differenza. Verso il 1880, l’impatto dei missionari cristiani e delle merci occidentali aveva reso indiani, arabi e cinesi più consapevoli delle loro particolari pratiche religiose, dei loro comportamenti e dell’eccellenza dell’artigianato locale. Con il passare del tempo, questa sensibilità alla differenza creò altri legami globali. Gli artisti indiani videro nei loro contemporanei giapponesi gli eredi di una tradizione estetica incontaminata e ne incorporarono lo stile nelle loro opere. Per quanto riguarda la religione, le Chiese cristiane spesso presero a cooperare e a dare vita a nuove organizzazioni in patria proprio perché avevano bisogno di solidarietà nella loro azione missionaria di oltremare, dove si trovavano sotto la pressione dell’Islam o altre tradizioni religiose. Nel periodo poco antecedente la Prima Guerra Mondiale, rivalità diplomatiche e cambiamenti economici internazionali aggredirono con violenza il sistema degli Stati e degli Imperi. La Grande Guerra fu una guerra globale, anche se iniziò come guerra civile all’interno del nucleo europeo. Derivava la sua forza esplosiva dal confluire di molte crisi locali, molte delle quali insorte fuori dell’Europa. Dunque, la storia di questa epoca fa emergere molte cose diverse e contraddittorie, ma registra l’interdipendenza degli eventi mondiali, tenendo conto del dominio occidentale. Infine, nello stesso tempo, mette in luce come tale dominio sia stato solo parziale e temporaneo.

Lo sfruttamento minorile

Giovanni Verga, in una famosa novella dal titolo “Rosso malpelo”, compresa nella raccolta “Vita dei campi”, pubblicata nel 1880, racconta di due ragazzini che lavorano in condizioni disumane in una miniera. Le cronache odierne mostrano continuamente minori in luoghi di guerra, di fame, di disperazione o utilizzati in lavori faticosi e sottoposti a inaudite crudeltà, nonostante gli appelli e gli interventi delle organizzazioni umanitarie che tentano di arginare questa tragedia. Inquadra il problema ed esponi le tue considerazioni in proposito.

Lo sfruttamento minorile è un fenomeno che coinvolge tutto il pianeta, e riguarda in particolare bambini tra i cinque e i quindici anni. Il lavoro infantile è diffuso soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e non sviluppati, come l’Asia, Oceania, America del Sud, Africa ed Europa dell’Est. Ma il problema è presente anche in Europa e negli Stati Uniti, in luoghi pieni di risorse e con un’economia florida, ma nei quali vivono molte persone povere e in stato di sottosviluppo. Dal punto di vista storico, non si conoscono bene le origini di questo fenomeno; esistono solamente riferimenti riguardo la schiavitù, e lo sfruttamento nel campo dell’agricoltura e allevamento. Con l’avvento della rivoluzione industriale lo sfruttamento infantile ebbe largo impiego soprattutto nelle miniere e nelle fabbriche tessili, nelle quali molti bambini lavoravano fino a quindici ore, e il loro salario era talmente basso che non potevano neanche procurarsi del cibo. Dalla letteratura possiamo ricavare alcune notizie riguardo la situazione dei minori nel lavoro. Per esempio, Verga in Rosso Malpelo, offre un quadro di sfruttamento infantile nel lavoro delle miniere, in cui il protagonista viene trattato in modo disumano, e vive una vita di sforzi e sofferenze. Vi è anche la figura di un altro fanciullo, Ranocchio, che addirittura arriva a morire a causa delle fatiche del lavoro e le malattie che ne conseguirono. Dickens invece denuncia il lavoro in fabbrica dei bambini, nell’Inghilterra appena industrializzata del 1800. Per esempio, in Oliver Twist viene evidenziato il maltrattamento nei confronti dei bimbi: Oliver è il protagonista del romanzo, un bambino maltrattato da tutti e costretto a lavorare, ma che nonostante tutto rimane puro di cuore. La situazione attuale non è delle migliori. Anche nei Paesi industrializzati il fenomeno è abbastanza diffuso: oltre 145.000 ragazzi sotto i 15 anni vengono sfruttati negli Stati Uniti e in Europa, anche nel Regno Unito. Nell’Est Europa la situazione è aggravata dalla prostituzione minorile. Lo sfruttamento avviene nel campo dell’agricoltura, dove i piccoli lavoratori vengono impiegati dalle famiglie o nelle grandi piantagioni come braccianti, dell’industria e della pesca. Ma ci sono anche bambini che lavorano nelle miniere, nelle cave, nei laboratori di fiammiferi, sigarette, giocattoli e fuochi d’artificio. A volte sono costretti a rimanere mesi chiusi nelle fabbriche, senza poter vedere i loro genitori. Il motivo principale di questo sfruttamento è la povertà, sociale e individuale. Se la causa è la povertà, la conseguenza è l’analfabetismo, perché il bambino lavorando non ha il tempo di andare a scuola, e da grande non avrà le capacità intellettive di difendere i propri diritti. Diverse leggi vietano in Italia il lavoro infantile, ma nonostante ciò, come ho detto prima, i dati dell’ISTAT sono agghiaccianti. Da tempo sono stati attuati diversi provvedimenti per risolvere il problema. Nel 1919 fu stilata la Convenzione sull’età minima durante la Conferenza internazionale del lavoro. Nel 1924 nella Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni si adottò la Dichiarazione dei diritti del bambino. Nel 1989 l’ONU approvò la Convenzione internazionale dell’infanzia. L’organizzazione che attualmente opera in molti Paesi è l’UNICEF, che tutela i diritti dei minori con programmi di assistenza nei Paesi in via di sviluppo. Nonostante tutti questi provvedimenti però, i bambini sfruttati e schiavizzati rimangono parecchi. Famosa in tutto il mondo è la storia di un bambino pakistano, Iqbal, che negli anni Ottanta fu venduto dal padre a un mercante di tappeti. Il ragazzino veniva picchiato e sgridato tutti i giorni, e incatenato al telaio era obbligato a lavorare 12 ore al giorno. Ma a dieci anni riuscì ad uscire allo scoperto e a raccontare la sua storia comune a migliaia di bambini. Ma essendo divenuto un testimone scomodo degli affari sporchi dei mercanti di tappeti, Iqbal venne ucciso. Preoccupante è anche la situazione dei bambini Rom che vivono in Italia: molto spesso vediamo zingare, anche di 12 o 13 anni, ferme al semaforo, incinte e con neonati in braccio, che chiedono l’elemosina agli automobilisti, mettendo al mondo dei bambini utilizzati per il solo scopo di portare soldi a casa. Bambini piccolissimi sono costretti a stare ore in mezzo al traffico a chiedere l’elemosina, picchiati selvaggiamente se si ribellano o se non portano abbastanza denaro. Un bambino per crescere bene ha bisogno di amorevolezza, calore familiare, istruzione e giochi. Bisogna salvaguardarli e impedire che crescano con valori sbagliati, con la consapevolezza che la vita è fatta solo di lavoro disumano, cattiveria e sfruttamento del prossimo. Sono loro la nostra società futura, e il progresso è nelle loro mani. Ma se ognuno di noi fa finta di non vedere, se regala una moneta a un bambino che chiede l’elemosina, sapendo che in realtà non la utilizzerà per mangiare come in fondo ognuno spera, il problema non sarà mai risolto. Occorre aprire gli occhi e denunciare, i bambini vanno tutelati, sono esseri indifesi e incapaci di difendersi, ma capaci di soffrire e darci grandi insegnamenti di vita e di forza.

I giovani e il volontariato

Numerosi bisogni della società trovano oggi una risposta adeguata grazie all’impegno civile e al volontariato di persone, in particolare di giovani, che, individualmente o in forma associata e cooperativa, realizzano interventi integrativi o compensativi di quelli adottati da Enti istituzionali. Quali, secondo te, le origini e le motivazioni profonde di tali comportamenti? Affronta la questione con considerazioni suggerite dal tuo percorso di studi e dalle tue personali esperienze.

Le attività di volontariato sono gesti non retribuiti e spontanei, intrapresi per motivi anche personali e riservati, e comprendono atti di solidarietà, giustizia collettiva, altruismo. Sono rivolte a persone che si trovano in difficoltà, ma possono riguardare anche la protezione della natura, degli animali e la conservazione del patrimonio artistico e culturale. Il volontariato nasce dai liberi propositi dei cittadini di fronte a problematiche non risolte dallo Stato, e può essere prestato in modo individuale ed episodico, oppure all’interno di organizzazioni vere e proprie. Nel nostro Paese milioni di persone offrono il loro tempo e le loro energie per aiutare gli altri, assistendo persone povere e malate, anche a livello internazionale, e lottando per la tutela dell’ambiente e degli animali. Esistono numerose organizzazioni di volontariato in Italia, che svolgono le loro attività senza scopi di interesse, unicamente per fini di solidarietà, grazie alle prestazioni personali e gratuite dei loro componenti. Esperienze interessanti nel campo del volontariato sono i campi di lavoro, in cui chi partecipa contribuisce alla concretizzazione di progetti utili per la società nei vari settori. Nei campi di lavoro si alternano momenti di studio, di discussioni riguardo il progetto, e attività manuali. Non sono richieste abilità specifiche, e la maggior parte dei campi di lavoro si svolgono nel periodo estivo. Esistono campi di lavoro umanitari e sociali, a favore di gente bisognosa o che si trova in una situazione di emergenza. Di solito questa attività viene svolta nei Paesi in via di sviluppo, in cui i volontari svolgono opere di supporto ed educative, ma anche ricreative. I campi di lavoro umanitario si interessano anche di opere edilizie e agricole. I campi di lavoro ambientali invece sono destinati a proteggere e studiare piante e animali nei loro ambienti naturali, come riserve, oasi e parchi naturali; inoltre si impegnano a mantenere puliti parchi e spiagge. Famose organizzazioni come il WWF e Legambiente organizzano campi di lavoro ambientalisti. Esistono anche campi di lavoro archeologici, dedicati al restauro di monumenti, chiese e altre strutture architettoniche, la salvaguardia del patrimonio storico, archeologico e culturale del Paese; molte volte si organizzano veri e propri scavi, e vi sono momenti di studio riguardo la storia e l’arte. Dilagante in Italia è il fenomeno delle associazioni sociali: sono attive circa 200.000 associazioni, e il numero è in continua crescita. Si costituiscono con un atto scritto e compilano uno statuto in cui si precisano regole e operato. In continuo aumento sono anche le cooperative sociali, progetti nati per l’interesse pubblico della comunità dei cittadini, attraverso la conduzione di servizi socio-sanitari o educativi e con lo svolgimento di attività commerciali, agricole, industriali, per inserire gente disoccupata nel mondo del lavoro. Altre organizzazioni private sono le fondazioni, volte a tutelare attività religione, educative, sociali, culturali per migliorare la vita della comunità, utilizzando il loro patrimonio e il ricavato delle loro opere. Le fondazioni inoltre orientano le loro attività anche verso la ricerca scientifica, l’istruzione, l’arte, conservazione dei beni ambientali, sanità. Molta gente, in particolare i giovani, aderisce a varie organizzazioni volontarie, a seconda della sua determinata sensibilità verso un settore, che può essere la tutela dell’ambiente, degli animali, del patrimonio artistico, o l’ausilio a persone bisognose. Oltre alle associazioni più o meno ufficializzate, le attività di volontariato vengono effettuale anche in forma privata e personale: per esempio numerose sono le feste di beneficenza, destinate a raccogliere fondi per una causa specifica. Inoltre rientrano nel volontariato anche programmi televisivi destinati a raccolte benefiche e siti internet che sensibilizzano e informano la popolazione sui vari problemi che colpiscono l’umanità, ma anche l’ambiente e gli animali. Attraverso i nuovi mezzi di informazione e comunicazione, si ha dunque la possibilità di essere informati su cosa accade anche a migliaia di chilometri da noi, e la conoscenza porta a una sensibilità e umanità maggiore rispetto a quando si sapeva di meno. L’emergenza inquinamento inoltre spinge a cercare soluzioni per salvaguardare luoghi meravigliosi, specie vegetali che stanno scomparendo, e di conseguenza gli animali in via di estinzione.

Odisseo e l’uomo contemporaneo

Odisseo è famoso per il suo grande ingegno e la sua immensa curiosità. Dante ci descrive la sua morte nel momento in cui ha oltrepassato le colonne d’Ercole, il limite imposto alla conoscenza umana. Anche l’uomo moderno cerca insistentemente di superate i propri limiti e la propria natura.

L’essere umano possiede certamente dei limiti, ma si è sempre adoperato cercando di trovare degli espedienti per superarli, attraverso le invenzioni e le ricerche. Soprattutto la scienza è la disciplina che tenta di oltrepassare le barriere. Il termine scienza deriva infatti da verbo latino scire, che significa sapere, conoscere, e con questo potremmo raggruppare tutte le discipline che tentano di conoscere l’essere umano, la natura, quindi anche la fisica e la tecnologia. Tuttavia anche le materie umanistiche ed economiche sono in qualche modo collegate alla scienza. I primi filosofi infatti cercavano di spiegare tutti i fenomeni naturali che avvenivano davanti ai loro occhi, com’era nato il mondo, come si presentava la Terra e di che materiale era composto ogni essere vivente. Inoltre cercavano di comprendere anche i fenomeni che non potevano essere visti ad occhio nudo: questo è il primo sforzo di oltrepassare il limite, ovvero quello di vedere oltre ciò che i nostri sensi ci consentono. Gli scienziati non sono soddisfatti di ciò che vedono, sentono o annusano, ma tentano di creare nuovi strumenti per superare il confine imposto dal corpo umano. Sono convinti che la conoscenza non si fermi sulla superficie delle cose, e per motivare alcune manifestazioni della natura servono delle prove attraverso nuovi metodi. Cercare di andare oltre la vista è stato uno stimolo molto intenso che ha provocato l’invenzione di congegni indispensabili. Per esempio, le stelle ad occhio nudo sembrano piccoli puntini scintillanti. Ma con la costruzione di lenti, quindi con l’invenzione del binocolo e del telescopio, si è potuta vedere la vera forma dei pianeti e delle stelle. Ciò che provoca una malattia non si può vedere ad occhio nudo, ma con i microscopi e lenti d’ingrandimento il limite si è oltrepassato e si sono potuti scoprire organismi infinitamente piccoli. Con la costruzione di un potente acceleratore di particelle, l’LHC, oggi si può avere conferma delle ipotesi sulla composizione della materia. Gli esperimenti sono la parte della scienza dove spesso il confine viene oltrepassato. Nelle sperimentazioni infatti gli oggetti della ricerca vengono posti in situazioni di limite, in modo da riuscire a trarre delle conclusioni. Molti scienziati hanno messo addirittura in pericolo la propria vita per il desiderio di conoscenza e per riuscire a dimostrare le proprie teorie. Per esempio, Marie Curie ha fatto esperimenti con i raggi X, i quali probabilmente hanno causato la sua morte; Albert Sabin per testare il vaccino contro la poliomielite lo iniettò su sé stesso. Anche la tecnologia può essere considerata un sorpasso del limite umano. L’uomo per sua natura non può volare, ma con aerei ed elicotteri questo confine si è oltrepassato. Con i mezzi di trasporto le grandi distanze non sono più un problema; possiamo tenerci in contatto con persone che abitano dall’altro lato del pianeta con telefoni, cellulari, internet. Per quanto riguarda le scoperte biologiche, nessuno avrebbe mai pensato che un virus sarebbe stato in grado di curare una malattia. Ma osservando i meccanismi virali, lo scienziato li ha manipolati creando una terapia genetica favorevole all’uomo. La manipolazione genetica è oggetto di numerose discussioni etiche, incentrate soprattutto sulla clonazione, anche se al momento la clonazione umana sembra fantascienza. Si oltrepassa il limite agendo direttamente sul DNA, manipolando organismi ad operare per l’uomo. A questo proposito è importante ricordare la terapia del diabete, che parte da un batterio geneticamente modificato, per produrre insulina nel corpo. Questo fu il primo farmaco biotecnologico brevettato nel 1982, mentre prima si utilizzava l’insulina estratta dal pancreas dei bovini e suini. Nel contesto scientifico ci si chiede spesso quale sarà il futuro dell’uomo e della Terra. Grazie all’evoluzione si è resa possibile la vita sul pianeta, ma noi non siamo il risultato finale di questa evoluzione, il processo è in continua crescita. Le domande che l’uomo moderno si pone sul futuro sono molteplici. Se la popolazione dovesse aumentare, oltre quale limite la Terra subirà un collasso, nel momento in cui non basteranno risorse energetiche e alimentari? Si potranno oltrepassare i confini che ci pone l’invecchiamento? Potremmo abitare su altri pianeti? Oggi noi non siamo in grado di rispondere a questi molteplici interrogativi, ma nel futuro ci saranno donne e uomini che dedicheranno tempo e fatica per risolvere questi quesiti.

Il doping

L’attività sportiva deve essere improntata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi, oltre a promuovere la salute individuale e collettiva. Tuttavia sempre più spesso, atleti di ogni livello ricorrono al doping per modificare le condizioni psicofisiche o biologiche nell’organismo, tentando di alterare le proprie prestazioni agonistiche. Il candidato esprima le proprie considerazioni sul fenomeno in questione.

Era il settembre del 1988, quando il corridore canadese Ben Johnson vinceva la finale dei centro metri piani, stabilendo il nuovo record mondiale, avendo percorso la distanza in questione in nove secondi e settantanove centesimi. Soltanto tre giorni dopo, in seguito ai test effettuati dal comitato olimpico internazionale, l’atleta veniva squalificato per aver violato le norme antidoping, e la sua vittoria annullata. Quattordici anni dopo, nel gennaio 2002, la sentenza di primo grado del processo penale per doping che coinvolge la Juventus (poi ribaltata in secondo e in cassazione), condannava a un anno e due mesi il medico sociale del prestigioso club italiano, per “frode sportiva e somministrazione di farmaci in modo pericoloso per la salute”. In quel processo furono ascoltati in qualità di testimoni, alcuni tra i più importanti campioni del calcio internazionale degli ultimi venti anni. Ancora, maggio 2006: la polizia spagnola arresta il medico spagnolo Eufemiano Fuentes, dopo aver ritrovato nella sua clinica cento sacche di sangue, steroidi anabolizzanti, e macchine per eseguire trasfusioni. Il materiale, secondo i verbali, sarebbe stato utilizzato per una serie di emotrasfusioni capaci di falsare il risultato sportivo di alcuni ciclisti tra i più importanti del panorama mondiale. I casi di doping citati, sono solo alcuni tra i più rilevanti che hanno coinvolto importanti campioni di differenti sport negli ultimi anni. Il doping però (“Abuso di sostanze o medicinali vietati con lo scopo di aumentare artificialmente il rendimento e le prestazioni di un atleta”) è una pratica che non riguarda, purtroppo, soltanto sportivi di primo piano, o in generale il mondo del professionismo. Sono tantissimi, infatti, i casi di giovani atleti che negli ultimi si sono avvicinati (spesso condizionati mentalmente o invogliati dalle le insistenze dei propri allenatori o preparatori) al mondo del doping, dando vita a un fenomeno che nell’ultimo trentennio in particolar modo, ha conosciuto dimensioni enormi. I sistemi di controllo abbastanza efficaci ed affidabili, tuttavia, sviluppatisi negli ultimi tempi (a cominciare dai cosiddetti “test incrociati”, e dalle analisi sempre più approfondite), hanno fatto si che il momento della punizione continui ad essere preminente, per quanto riguarda la giustizia sportiva, rispetto a quello della prevenzione. Se allo stato attuale, per esempio, è molto più facile rispetto a quindici o venti anni fa, che chi faccia uso o abuso di sostanze illecite venga smascherato e punito, molto meno le istituzioni sportive sono riuscite a fare per spiegare ai giovani quanto la pratica del doping sia una pratica estremamente dannosa e negativa, sia dal punto di vista morale, che da quello fisico. Innanzitutto, infatti, bisogna tenere in considerazione il fattore etico che entra in gioco nel momento in cui si parla di doping. Non si può ignorare la questione riguardante un risultato sportivo falsato, e la mancanza di correttezza nei confronti dell’intera macchina sportiva (in primo luogo gli avversari che hanno rispettato le regole, e i tifosi, che si trovano ad assistere a una competizione non vera). Ancora più delicata, però, è la questione che riguarda i rischi che gli atleti corrono, ancora di più se si pensa che moltissimi tra loro si avvicinano al mondo del doping giovanissimi, proprio nella fase in cui i risultati sportivi diventano fondamentali, per esempio, per il passaggio dal dilettantismo al professionismo. I fattori che causano questo avvicinamento sono senz’altro molteplici: innanzitutto la pressione esercitata sugli atleti, come già sottolineato, dettata dalla necessità di ottenere risultati; in secondo luogo le insistenze di alcuni preparatori, soprattutto a livello giovanile, le cui carriere sono indissolubilmente legate a quelle degli stessi sportivi che essi assistono; infine una cultura sportiva e del lavoro assolutamente insufficiente, tale da non far considerare una violazione così palese delle regole come qualcosa di deprecabile, e altamente dannosa per tutti gli altri attori in gioco in una competizione sportiva. È proprio questo, però, che riporta al punto di partenza del ragionamento anticipato sopra. Molto è stato fatto, dagli organismi internazionali sportivi dal punto di vista del controllo e tanti risultati sono stati ottenuti negli ultimi quindi anni soprattutto. Dal 1999, proprio il Comitato olimpico internazionale ha promosso la nascita della WADA (Word Anti-Doping Agency), una fondazione a partecipazione pubblica-privata, nata con l’obiettivo di contrastare la diffusione del doping nel mondo dello sport. La stessa WADA, che lavora in collaborazione con le singole federazioni sportive, ha ottenuto dei risultati importanti in questi anni. I passi più importanti, tuttavia, sono stati fatti nel miglioramento dei test antidoping e nelle attività di ricerca. Nonostante i grandi investimenti economici, però, l’aspetto facente riferimento all’educazione – che la WADA porta avanti con l’aiuto dei governi dei singoli paesi – sembra non essere ancora sufficiente ad un adeguato contrasto del fenomeno. Iniziative e laboratori all’interno tanto delle scuole quanto degli impianti sportivi, così come importanti campagne di istruzione e pubblicitarie (che mettono in guardia dai rischi per la salute, e provano a spiegare quanto possa essere nocivo il doping), non sono state infatti, purtroppo, finora sufficienti, non solo a sconfiggere, ma quantomeno a limitare seriamente il fenomeno doping, che allo stato attuale costituisce il problema più grande per il mondo dello sport internazionale.

L’immigrazione di massa

L’immigrazione ha ricominciato a essere un fenomeno di portata mondiale dopo gli esodi dell’inizio e della metà del secolo scorso. Il dibattito tra chi sostiene che gli Stati abbiano diritto di controllare, limitare o negare gli accessi e chi invece si dice favorevole all’apertura libera delle frontiere è sempre più acceso. Si analizzi il dibattito in questione esponendo anche le proprie idee a riguardo.

L’immigrazione è un fenomeno sociale di portata estremamente rilevante e delicata nella sua gestione. Nel corso degli ultimi venti-trent’anni, per esempio, la maggior parte delle nazioni del mondo occidentale ha dovuto fare i conti con migrazioni di persone provenienti da contesti più problematici, migrazioni che hanno portato in taluni casi svantaggi, anche a causa della stessa impreparazione e incapacità di gestione del fenomeno da parte dei governi, ma in altri anche benefici importanti. È il caso, per esempio, di alcuni stati i cui sistemi economici hanno tratto giovamento dall’arrivo massificato di forza lavoro migrante (vedi immigrazione turca in Germania). In questo caso, questa forza lavoro, per la maggior parte operaia, ha potuto dare un significativo apporto all’economia locale, e allo stesso tempo ha avuto l’opportunità, grazie a una reale indipendenza economica, di integrarsi in maniera concreta nella società tedesca. Nei prossimi tre anni, i cittadini turchi residenti in Germania supereranno i 2,5 milioni. La gestione dei flussi migratori, in ogni caso, è una questione da affrontare, da parte dei governi dei paesi occidentali, con adeguata preparazione. La necessità, infatti, nell’ambito della politica di accoglienza di un governo, dovrebbe essere quella di mettere in atto una serie di misure capaci prima di ospitare in maniera adeguata i cittadini provenienti da un contesto problematico, e in secondo luogo di favorirne l’inserimento, magari attraverso una politica di efficiente stato sociale, atta ad assistere i migranti in tutte le fasi di questo passaggio. I problemi principali, ovviamente, sono quelli riguardanti la sistemazione fisica degli immigrati e il loro inserimento lavorativo. Problemi, che spesso, conducono le classi politiche a un utilizzo assolutamente strumentale del fenomeno, indicando gli immigrati esclusivamente come un problema e mai come una risorsa, come una presenza che avrebbe il solo risultato di limitare le possibilità e i diritti della popolazione indigena. Per quanto riguarda l’Italia, va detto che il fenomeno dell’immigrazione è un fenomeno piuttosto recente. Nelle due grandi fasi migratorie del Novecento, infatti, quali quella di inizio secolo, e quella sviluppatasi in seguito alla seconda guerra mondiale, gli italiani costituivano quella parte di popolazione che si spostava alla ricerca di condizioni (sociali, lavorative, di vita) migliori. Solo nel corso degli anni Ottanta, e ancor di più nel ventennio successivo, il nostro paese è diventato una meta per chi, soprattutto proveniente dai paesi del nord dell’Africa è alla ricerca di condizioni di vita più favorevoli rispetto a quelle che il proprio paese può offrire. È proprio in questi anni che, anche nel nostro paese, sempre più forte si è scatenato il dibattito tra chi crede sia necessaria una chiusura delle frontiere (o quantomeno un controllo serrato del fenomeno migratorio, che permetta soltanto a chi è in possesso di adeguate garanzie di varcare la frontiera italiana) e chi invece, anche rivendicando il rispetto degli indirizzi geopolitici mondiali (che parlano di globalizzazione e di apertura delle frontiere) chiede e pretende un rispetto delle regole, e un’accoglienza migliore per chi proviene da un paese spesso martoriato dalla guerra, o comunque in situazioni di difficoltà. Le garanzie chieste, da chi chiede un blocco dei flussi migratori, riguarderebbero in particolar modo gli aspetti lavorativi, con la conseguente possibilità di entrare nel paese soltanto se in possesso di una posizione lavorativa. Altri, invece, sottolineano come questo impedirebbe alla stragrande maggioranza degli immigrati di spostarsi, dal momento che particolarmente difficile sarebbe ottenere un lavoro in un paese senza nemmeno avervi mai messo piede. In quest’ottica sono da analizzare anche le ultime due importanti leggi italiane in materia di immigrazione, promulgate da un governo di centro-sinistra e da uno di centro-destra. La prima, risalente al 1998, cercava di regolamentare i flussi in ingresso, e istituiva dei centri (molto criticati negli anni a venire, per le condizioni in cui vengono ospitati gli immigrati) dove “sistemare” in maniera provvisoria, in attesa del completamento del lungo iter burocratico, gli immigrati sottoposti a provvedimenti di espulsione. Ancora più aspra, la legge promulgata nel 2002, che prevedeva anche un’espulsione immediata degli immigrati clandestini. Molti problemi, di natura tanto etica quanto politica, sono nati nell’ultimo anno, quando a seguito delle sollevazioni nei paesi nordafricani (Marocco, Tunisia, Libia), moltissimi immigrati hanno attraversato il mar Mediterraneo, giungendo anche in Italia, oltre che in Francia e nei paesi del centro Europa. Il vecchio continente, però, è stato tutt’altro che preparato ad affrontare questa nuova “emergenza”, tanto più che in casi come la Libia, gli immigrati e la diplomazia internazionale, hanno effettuato pressioni per ottenere lo status di rifugiati politici, trattandosi in buona parte di cittadini fuggiti dalla sanguinosa repressione che il colonnello Gheddafi e le sue truppe stavano mettendo in atto nel paese. Il dibattito, così, si è riaperto in questi mesi: quali sono i limiti entro cui uno stato può proibire a dei cittadini di attraversare o di soggiornare nel suo territorio? È conciliabile tutto ciò con il diritto alla libera circolazione degli uomini e delle merci, sancito dalle istituzioni mondiali e continentali? Una risposta concreta a queste domande non è stata data, ma appare chiaro che un equilibrio tra i processi (soprattutto economici) messi in atto negli ultimi anni, che prevedono un mondo aperto, basato sulla possibilità di scambi (non certo solo commerciali), e il problema di chi ancora oggi chiede la chiusura delle frontiere e pretende di controllare i flussi e gli spostamenti delle persone, è ben lontano dall’essere risolto.

L’eutanasia

Talvolta “nello scafandro non ci sono farfalle”, e un danno cerebrale diventa irreversibile. Mentre i poeti s’interrogano sulla propria “prigione” mentale (Montale: Il sogno del prigioniero; Leopardi: L’infinito), i preti si affannano a predicare il “valore” della vita. Anche di quella vissuta come vegetali imprigionati (nel corpo) in un letto d’ospedale? A partire dallo spunto letterario, esponi le tue conoscenze in merito all’argomento di evidente attualità, e rifletti argomentando sul significato di eutanasia.

I testi suggeriti dalla traccia evidenziano la differente sensibilità dei due autori citati rispetto al concetto di “prigionia”. Con ogni evidenza, una visione particolarmente cupa è quella di Montale in “Il sogno del prigioniero”. La dichiarazione di claustrofobica impotenza, manifesta sin dal primo verso (“Albe e notti qui variano per pochi segni”) prosegue con l’elencazione degli stessi segni, presunti o reali che siano. Le uniche vie d’uscita concrete sono l’abiura, la confessione, il tradimento; atti in sé spregevoli ma che guadagnano il passaggio da cibo a cuoco. E allora la via di fuga laterale dell’immaginazione spunta come unica speranza di evasione. Eppure, nella cupezza dei versi di Montale brilla in un certo senso una luce, seminata in due punti diversi del testo: “Ma la paglia é oro, la lanterna vinosa é focolare se dormendo mi credo ai tuoi piedi. […] L’attesa é lunga, il mio sogno di te non e finito”. Differente e, imprevedibilmente meno soffocante, è la visione rimandata dai versi dell’Infinito di Leopardi e che viene individuata da un “ma”, che separa l’esclusione della limitatezza dello sguardo fisico dall’onnipotenza dello spazio, e ancora di più del “pensier” che si inerpica ben al di sopra dell’ermo colle. Un di sopra in cui lo stesso pensiero “annega”, è vero, ma con una modalità assolutamente soddisfacente, inebriante, quasi “dolce”. Ecco se esiste un punto di contatto fra i due testi esso risiede in questo superamento della realtà fisica opprimente (il carcere/il colle) per mezzo di un punto di fuga che è collocato al di là dello spazio, del tempo: “il sogno di te” in un caso, e “l’immensità” nell’altro. Poesia limpida, certo, che restituisce in maniera impeccabile la percezione dolorosa e drammatica della limitatezza e della finitezza della fisicità, dell’impotenza legata alla costrizione, di qualsiasi tipo essa sia. L’uomo, sembrano dirci le due poesie, può essere imprigionato fra mura reali o limiti fisici (malattie, malformazioni) o imprigionarsi da se medesimo in recinti psichici (solitudine, inadeguatezza, paranoia) e soffrire senza speranza di venirne fuori, per la propria incapacità di metter fine a tali sofferenze. Comune a tutte queste esperienze, però, è il desiderio di porre fine allo stato di fatto. Il poeta le oltrepassa grazie alla poesia (e talvolta neanche con quella), l’uomo normale, in ultima istanza, persino con la morte. Se, però, l’opzione di una morte provocata da sè, non è citata nei testi poetici citati, è innegabile come si insinui nell’animo di ogni uomo, ogni qual volta che la forza dell’immaginazione o dell’amore o della poesia, risultino incapaci a realizzare il superamento degli ostacoli. La Chiesa non considera praticabile questa opzione. In alcun caso. Secondo il dogma, la vita è per eccellenza il “dono di Dio”, un mistero da contemplare. Una realtà sacra che in realtà le scritture non prevedono mai come comprensibile nella sua interezza e, soprattutto, non disponibile a qualsiasi tipo di scelta che l’uomo intende fare, in quanto comunque frutto di un dono, e in un certo senso proprietà di Dio. Il punto è questo, in realtà: se la vita è un dono, perché il destinatario non può disporne? Addentrarsi ulteriormente su questo territorio, porterebbe a scivolare nei meandri e nelle discussioni riguardanti il significato della vita in genere, e il significato, e il destino di quella umana in particolare. La vita come trascendenza o come semplice transito? La vita come processo contemplativo o itinerario verso un al di là sconosciuto e comunque non conoscibile dall’uomo durante la propria vita? Su queste argomentazioni, ovviamente, ci sarebbe da discutere a lungo – e di fatto, lo si fa da millenni – e probabilmente non potrebbe risultare utile, per una volta, neanche appellarsi alle più recenti scoperte scientifiche. La morte cerebrale, per esempio, come l’inizio della stessa vita, sono degli istanti anche scientificamente di ardua e controversa determinazione, e pertanto è particolarmente difficile delimitare, all’inizio come alla fine, il recinto della vita. Quello che potrebbe invece risultare discriminante, nell’ambito di una scelta di una donna o un uomo che chiedono, desiderano, inducono se stessi o un’altra persona a mettere fine alla propria vita, non considerando meritevoli di essere considerate tali le condizioni in cui questa si sviluppa, è il concetto classico di “piètas”. La compassione, potrebbe essere la lente attraverso cui valutare il limite ultimo della sofferenza che una persona vuole o può sopportare, una sofferenza che in alcuni casi può andare persino oltre quella dignità della vita, che la Chiesa medesima giudica irrinunciabile. La devastazione delle più elementari funzioni vitali, il dipendere in tutto e per tutto – indefinitamente – da macchine, artefatti umani che se non esistessero non consentirebbero l’esistenza un solo istante di più, sembra tutt’altro, infatti, che una dignitosa condizione vitale. La desistenza dall’accanimento terapeutico, invece, potrebbe essere una liberazione, o quantomeno il legittimo diritto a intraprendere quell’ultimo, irrinunciabile tragitto della vita. Questo è, almeno a ripercorrerne l’etimologia del termine, il significato dell’ Eutanasia: buona morte. Un concetto intorno al quale, in realtà si dibatte fin dalla Grecia antica e che irrompe nel mondo occidentale nei primi anni del 1600, per opera di F. Bacon, nella accezione più letterale possibile di “attività connessa a limitare le sofferenze connesse al termine della vita”. La questione diventa in realtà ancora più controversa e spinosa, nel momento in cui si pone all’attenzione dell’uomo, l’opportunità di “agevolare” il rito del passaggio, per le cause più disparate, finendo col definire a livello medico e giuridico, persino una “eutanasia attiva” (decesso indotto) e una “passiva” (interruzione di farmaci o trattamenti tesi a prolungare l’esistenza della persona). Nel primo caso, si parla di eutanasia diretta o indiretta (tramite o meno la somministrazione di farmaci atti a provocare direttamente la morte o farmaci che hanno come effetto secondario il medesimo risultato); o ancora, di volontaria (attuata dietro richiesta specifica del soggetto) o non-volontaria (intrapresa direttamente da un terzo). Nell’ambito di quest’ultimo, si comprende, naturalmente, anche la pratica del cosiddetto “suicidio assistito”, un’ operazione durante la quale un sanitario, senza intervento diretto, assiste professionalmente un soggetto che assume tale decisione.

Leggere si usa ancora?

I libri? C’è ancora qualcuno che li legge? Eppure sono una ricchezza inesauribile, un modo per conoscere se stessi e gli altri un continuo stimolo a “pensare”, esercizio che talvolta sembra un po’ in disuso. È sotto accusa la TV che distoglie dalla lettura, sono sotto accusa i giovani, poco disponibili perché “traviati” da molte altre attrattive più facili. Esprimi le tue idee in merito.

Siamo ormai nel ventunesimo secolo, un’era di continuo sviluppo soprattutto tecnologico che sta invadendo e modernizzando tutti i paesi industrializzati del nostro pianeta. Si pensi che non si fa in tempo a comprare l’ultimo super tecnologico cellulare che pochi mesi dopo ne esce un altro con ancora più funzioni del precedente. Nascono, quindi, nuove abitudini e ne vengono abbandonate altre. Fra le “vittime” della tecnologia, una è la lettura che ormai sembra non si pratichi più come nel secolo precedente. Come mai? A chi dare la colpa? La risposta è molto semplice: al continuo e assillante progresso. Il primo ad essere sotto accusa è il nostro inseparabile computer. Quest’ultimo ha assunto ormai un’importanza determinante nella nostra società. Non averlo, infatti, significa essere considerati “arretrati” e “non moderni”. Col computer si possono svolgere numerose attività: scrivere e salvare una grande quantità di dati, giocare, navigare in internet, chattare, inviare posta, scaricare musica, vedere film… Motivo per cui molte persone passano la maggior parte della loro giornata attaccati allo schermo del pc. Sono soprattutto giovani e bambini che hanno difficoltà a staccarsi dal computer. I primi giocano con molti videogiochi e sono “assorbiti” in interminabili guerre spaziali, gare di formula uno, combattimenti… I secondi, invece, preferiscono navigare in internet, chattare nei social network, visitare i siti dei loro idoli preferiti… E tutto il tempo passato davanti al computer toglie spazio alle ore che prima si trascorrevano leggendo. Causa della scomparsa dei libri, però, è anche la televisione presente in tutte le nostre case. Ora la tv propone ancora più programmi che in precedenza: col passaggio al digitale, infatti, sono aumentati i canali a disposizione dell’utente, che ha ormai un’ampia scelta. Sono stati creati addirittura programmi per bambini e ragazzi. La televisione è sotto accusa anche poiché crea passività e conformismo. Infatti la velocità audiovisiva indebolisce l’attività mentale dello spettatore, limitando ogni suo pensiero. L’uomo è diventato schiavo della tv ed è spinto ad imitare passivamente quanto visto nel piccolo schermo. Addirittura il suo pensiero può essere condizionato dalla tv. Con la lettura, invece, l’uomo è in grado di ragionare con la propria testa e di avere le sue opinioni in merito a ciò che accade intorno a sé. Di certo questi “aggeggi elettronici”, queste “diavolerie” non sono l’unica causa che hanno oscurato la fama dei libri. Fonte della loro scomparsa sono anche e soprattutto i giovani. Essi, infatti, attratti dalla sempre più evoluta tecnologia, preferiscono trascorrere il loro tempo in attività meno impegnative, quali sono appunto quelle offerte dagli oggetti elettronici. Ai giovani non sfiora neanche l’idea di leggere. Molto spesso odiano e detestano la lettura. Questo soprattutto perché ci può essere un’influenza negativa da parte della scuola. Come spesso capita, infatti, alcuni professori assegnano come compito per casa la lettura di un libro. Non è però lo studente che sceglie il libro, ma il suo insegnante. La lettura obbligata di libri che non piacciono o di libri che vengono considerati “noiosi” o “inutili” fa nascere in un giovane la voglia di lasciarli sugli scaffali delle librerie di casa o delle biblioteche. La scuola, quindi, risulta incapace di stimolare nei giovani il desiderio di arricchirsi culturalmente anche con la lettura di un libro. Insomma, al giorno d’oggi i libri stanno scomparendo, quasi nessuno li legge. Questo può essere dovuto anche al fatto che oggi molti libri sono stati caricati in rete e, sempre su internet, si possono trovare semplici riassunti che fanno evitare la lettura di un libro “mattone”. Secondo me, fra alcuni anni i libri scompariranno definitivamente e si arriverà a chiedersi: “I libri? C’è ancora qualcuno che li legge?”

L’impegno dell’Italia nelle missioni di pace

L’Italia ha sempre partecipato attivamente alle missioni di pace organizzate dall’Onu, mettendo a disposizione il proprio esercito di caschi blu. Descrivi in che modo l’Onu cerca di mantenere la pace portando alcuni esempi, e come l’Italia si è distinta e si è impegnata in questo frangente.

Le Nazioni Unite hanno un ruolo fondamentale riguardo il mantenimento della pace e la sicurezza nel mondo, dispiegando 118.000 caschi blu in 15 missioni nei quattro Continenti, con una budget annuale di 8 miliardi di dollari. I caschi blu devono principalmente possedere grande capacità di relazionarsi con le varie popolazioni e una solida componente di forze di polizia. L’Italia è il decimo Paese contributore di caschi blu tra tutti i membri dell’Onu, il sesto per quanto riguarda l’apporto finanziario, e su 15 missioni di pace, 8 hanno avuto come protagonisti uomini italiani. Inoltre le missioni sono alimentate dalla Base Logistica dell’Onu a Brindisi, supportata dal governo italiano dal 1994. Il luogo si trova in una posizione strategica perché situato all’incrocio tra Europa, Africa e Medio Oriente. La base fu realizzata con il fine principale di operare in modo logistico per gli interventi delle Nazioni Unite, e attualmente ha una funzione fondamentale per il controllo della gestione delle operazioni di pace e il dispiegamento di nuove missioni. Inoltre questa base funge da centro di smistamento delle comunicazioni satellitari e da sostegno informatico alle operazioni dell’Onu. Ci sono inoltre attrezzature per l’addestramento specializzato. Il nostro Paese mette anche a disposizione varie competenze per migliorare le capacità operative delle Nazioni Unite, e a Vicenza il centro di eccellenza dei Carabinieri ha addestrato più di 2000 uomini provenienti da Paesi in via di sviluppo, soprattutto dall’Africa. Tra le tante missioni di pace a cui ha partecipato l’Italia, tra quelle organizzate dall’Onu ricordiamo gli interventi a Cipro, India-Pakistan, Libano, Marocco, Medio Oriente, Sudan. La missione di pace a Cipro fu condotta nel 2005 da quattro sottufficiali dei carabinieri di Nicosia. Gli interventi dell’Onu a Cipro erano già attivi dal 1964, con l’intento di prevenire nuovi conflitti tra Greci e Turchi, entrambi abitanti dell’isola. Osservatori militari operano dal 1949 nel distretto del Kashmir, per impedire il conflitto tra Pakistan e India. Tra questi osservatori speciali, otto sono italiani. Con l’invasione del Sud del Libano da parte di Israele, la missione qui iniziata nel 1978 è stata prorogata. In particolare è avvenuto un potenziamento nel 2006, quando i caschi blu hanno svolto un ruolo di “forza cuscinetto” tra l’esercito del Libano e quello israeliano. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha schierato circa 15000 uomini. L’Italia partecipa a questa missione fin dall’inizio, e ha svolto un ruolo fondamentale nell’ultima operazione, autorizzando l’invio di circa 1700 militari con una componente navale. Nel 2011 sotto il comando del generale spagnolo Cuevas hanno partecipato uomini provenienti da 33 Paesi, e il contingente italiano è stato quello più numeroso. Nel quartier generale degli Italiani a Shama, sempre nel 2011 si è svolto il passaggio del comando del Settore Ovest dalla brigata di cavalleria del Friuli a quella meccanizzata Aosta, e il generale De Cicco ha preso il comando. E’ la prima missione in Libano per la brigata Aosta, stanziata in Sicilia, mentre in passato ha svolto diverse operazioni nei Balcani. De Cicco comanda due gruppi di battaglia, unità specialistiche e di supporto logistico, corpi dell’aviazione e una componente di polizia militare. Nel 1991 furono stabilite le missioni in Marocco, per realizzare i piani di pace a favore del popolo del Sahara occidentale. Il contingente delle Nazioni Unite ha il dovere di supervisionare il rispetto del “cessate il fuoco” tra le fazioni in guerra, inoltre deve accordarsi con le due parti per liberare i prigionieri e i detenuti politici. Gli osservatori provengono da 31 Paesi, e 4 sono italiani. La missione in Medio Oriente è quella più vecchia, e provvede a far mantenere il rispetto del trattato di pace tra Siria, Egitto, Giordania e Israele. Inoltre controlla il “cessate il fuoco” nel canale di Suez e sulle alture del Golan, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967. Gli osservatori provengono da 23 Paesi e otto ufficiali sono italiani. Nel 2007 l’Onu ha organizzato la missione per mantenere la pace nella regione del Sudan, e l’Italia partecipa dal 2008 con tre militari. L’Italia dunque ha avuto, e ha tuttora, un ruolo primario nella politica estera delle Nazioni Unite, assumendo un serio impegno riguardo l’attuazione delle iniziative dell’organizzazione, come la tutela ambientale, la democrazia e i diritti umani. Ha svolto un grande lavoro per mettere in pratica le riforme che servivano a rilanciare le Nazioni Unite e a tentare di essere più efficaci nella risoluzione dei vari problemi.

L’Europa e l’immigrazione

A partire dagli accordi di Schengen si è cercato di dare una normativa alla circolazione degli immigrati nei Paesi dell’Unione Europea. Descrivi in che modo si gestisce l’immigrazione, come si è tentato di risolvere il problema degli immigrati clandestini e come si cerca di far integrare gli stranieri nell’Unione Europea.

Verso gli anni Ottanta furono molte le discussioni tra gli Stati membri riguardo la libera circolazione delle persone; alcuni sostenevano che bisognava distinguere alle frontiere i cittadini europei dagli altri, altri invece proponevano di eliminare i controlli e consentire una libera circolazione. Nel 1985 Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Francia e Belgio firmarono un accordo creando una zona senza frontiere interne, lo “spazio Schengen” dal nome della città del Lussemburgo dove furono siglati gli accordi. Nel 1990 questi Stati firmarono una convenzione che eliminava i controlli interni tra di loro e creava un’unica frontiera esterna, con ispezioni esterne e regole comuni riguardo visti e diritto d’asilo. La convenzione entrò in vigore nel 1995, e in seguito lo “spazio Schengen” si estese agli altri Paesi dell’UE: nel 1990 si unì l’Italia, nel 1991 Spagna e Portogallo, nel 1992 la Grecia, nel 1995 l’Austria, nel 1996 la Danimarca, Finlandia e Svezia. Nel 1999 il Regno Unito chiese di partecipare solo ad alcuni aspetti della cooperazione Schengen, come quella giudiziaria e di polizia in materia penale, e nel 2000 anche l’Irlanda volle partecipare alle stesse condizioni. Nel 2007 lo spazio Schengen è stato esteso anche ai Paesi entrati nell’UE nel 2004, ovvero Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Malta e Polonia. Nel 2008 sono state abolite anche le frontiere aeree. La convenzione di Schengen quindi trasferisce i controlli alle frontiere esterne, uniforma le norme e le procedure per il controllo delle persone, controlla l’immigrazione illegale, stabilisce una dichiarazione obbligatoria per i cittadini di Paesi terzi che si spostano da uno Stato all’altro. Inoltre istituisce un diritto di osservazione e di inseguimento oltre le frontiere per la polizia della zona Schengen e ha creato un Sistema d’Informazione Schengen. Riguardo la circolazione dei cittadini di Paesi terzi nell’Unione Europea, nonostante si cerchi di adottare una politica comune, le misure vengono prese a livello nazionale. La legislazione europea ha risolto i problemi riguardo i diritti dei residenti non comunitari di periodo lungo, i diritti allo studio e al ricongiungimento familiare e il contrasto dell’immigrazione illegale. Molte altre problematiche sono ancora da risolvere. La politica migratoria europea si concentra sostanzialmente sulla selezione degli immigrati, la lotta contro l’immigrazione illegale e l’integrazione di questa gente nell’UE. Integrare i migranti è molto complesso però, e molto spesso le conseguenze dei problemi dell’integrazione ricadono sulle persone più deboli. Per quanto concerne il controllo dell’immigrazione illegale, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere ha attuato svariate operazioni posizionando pattuglie lungo le coste, evitando così lo sbarco via mare. Dovrebbero essere avviate inoltre una Rete di pattugliamento, un Sistema europeo di sorveglianza e un’assistenza operativa per ispezionare meglio questi flussi illegali. Tuttavia, se questi sistemi riducono le immigrazioni legali, spingono però gli organizzatori dei traffici a cercare altre strade d’ingresso più pericolose, aumentando così le tragedie dell’immigrazione. Ciò è stato discusso nel primo Vertice Europa-Africa a Tripoli, nel 2006. L’Europa ha chiesto ai Paesi africani dai quali provengono i maggiori flussi migratori di effettuare un controllo più approfondito alle loro frontiere, ma le organizzazioni umanitarie hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani in questi controlli. L’UE dovrebbe monitorare meglio queste ispezioni. La politica europea inoltre si occupa della selezione degli immigrati alle frontiere, scegliendo in base ai Paesi terzi e alle caratteristiche. La Commissione europea ha proposto l’istituzione di una “Carta blu”, per un ingresso agevolato e legale, favorito anche per fronteggiare il declino demografico e la scarsezza di lavoratori di alcuni settori in Europa. Ma selezionando i cervelli migliori, si rischia di impoverire questi Paesi riducendoli ad una sempre più profonda arretratezza sociale. Inoltre, selezionando qualitativamente i migranti si rischia di dare diversi livelli di diritti fondamentali, ai danni di quelli più deboli e poco qualificati. La Commissione ha proposto allora una “migrazione circolare temporanea”, aumentando la collaborazione con i Paesi di provenienza. In questo modo si evitano gli effetti dannosi della “fuga dei cervelli” stimolandone invece la circolazione. E’ indispensabile inoltre adottare delle norme che conferiscano diritti ai lavoratori immigrati e nello stesso tempo si stabiliscano degli obblighi da rispettare, per evitare anche la gerarchia di diritti tra le diverse categorie di lavoratori. Bisogna poi migliorare l’integrazione degli immigrati che da anni lavorano regolarmente nei Paesi dell’UE, evitando discriminazioni che ancora esistono nella vita sociale ed economica ed inserendoli completamente nelle nostre società. A questo proposito nel 2003 è stata adottata una direttiva che conferisce agli immigrati residenti nell’UE da anni gli stessi diritti dei cittadini dell’Unione Europea.

La manipolazione dell’informazione

Il sistema mediatico italiano è complesso e articolato. Negli ultimi tempi stragi e delitti sono al centro di tutte le trasmissioni, insieme agli scandali che avvengono in politica. Inoltre pare che alcune notizie vengano riportate in periodi stabiliti per poi essere dimenticate: una sorta di manipolazione dell’informazione che ha scopi precisi. Rifletti su questi aspetti della mediaticità.

È molto importante fornire agli spettatori informazioni reali ed esaustive per quanto sia possibile. Spesso però i nostri sistemi mediatici non danno notizie complete, ma si verifica una certa disinformazione. Disinformazione però non significa che ci sia un’informazione sbagliata o riportata male, ma piuttosto una non-informazione, una notizia data solo in parte, che per questa ragione coincide con un altro fenomeno, quello della manipolazione della verità. I mezzi di comunicazione italiani a volte modificano la realtà unendo l’informazione con qualcosa che non è proprio una notizia. Questo avviene perché i mezzi di comunicazione di massa utilizzano degli stratagemmi per influenzare l’opinione pubblica, senza che noi ci accorgiamo di nulla. Si utilizza, per esempio, una strategia volta a distrarre il pubblico. Il delitto avvenuto a Cogne, la strage di Erba, l’omicidio di Meredith, e il più recente caso di Sarah Scazzi possiamo catalogarli tutti come dimostrazione di come i media, in particolare i programmi televisivi, siano attratti in modo eccessivo alla cronaca nera e ai crimini spietati, varcando tante volte i confini del rispetto delle persone assassinate e dei familiari; inoltre i mass media trasferiscono i processi dalle aule ai telegiornali e ai talk show, popolati da opinionisti, criminologi che avanzano ipotesi di reato, insieme a prove lampanti e colpi di scena. La nostra televisione poi, nel riportare i fatti di cronaca, tralascia la riflessione critica per concedere più spazio alle manifestazioni emotive. Oltre alla cronaca nera, sempre più estesi e assidui sono inoltre trasmissioni che parlano e discutono sulla vita privata dei personaggi politici: ricordiamo Sircana e i trans, l’appartamento di Scajola di fronte il Colosseo, la casa di Fini a Montecarlo, e i festini di Berlusconi ad Arcore con i conseguenti personaggi Noemi e Ruby. Questi e altri avvenimenti sono oggetto costante dei programmi televisivi di tutte le ore, venendo bombardati costantemente dai più minimi particolari, omettendo invece ciò che sarebbe più rilevante conoscere per il pubblico, come riforme, progetti, servizi, iniziative pubbliche e proposte di legge. Un’altra consuetudine dei media è quella di dare origine a problemi e poi proporre le soluzioni. Se prestiamo un po’ più attenzione, possiamo notare che le stragi del sabato sera o quelle dei pirati della strada fanno la loro comparsa sugli schermi televisivi in momenti ben precisi, come prima di annunciare rilevanti decreti legislativi in merito, per esempio l’introduzione dei punti sulla patente, nel 2003, o le sanzioni per la guida in stato di ebbrezza, nel 2008. La manipolazione è evidente anche quando vengono mandati in onda crimini commessi da extracomunitari ben precisi: prima solo gli albanesi, poi i tunisini e poi i marocchini, e ultimamente anche i rumeni. Ne consegue una vera e propria manifestazione di xenofobia contro questi cittadini. Le proposte di legge vengono annunciate in modo graduale e non contemporaneamente: in questo modo la legge si accetta poco per volta e come soluzione migliore, mentre una serie di provvedimenti legislativi presentati tutti insieme sarebbero intollerabili. A tal proposito possiamo ricordare le disposizioni all’interno delle grandi riforme politiche e finanziarie, rese note poco per volta dai mass media. Le discussioni accese, il malcontento e le proteste ci sono state, ma non come sarebbero avvenute se le notizie fossero giunte tutte in una volta. Alcuni programmi stimolano il pubblico a favorire l’ignoranza e la mediocrità, ad accettare la superficialità, l’ottusità, la trivialità e l’inettitudine. Sono sicuramente programmi d’intrattenimento, ma mandano avanti modelli da seguire negativi, soprattutto per i giovani. Internet fornisce ormai fonti più o meno affidabili di informazione con siti indipendenti, blogger e quotidiani online. La televisione però, riesce ad influenzare la maggior parte della popolazione, con i suoi esempi negativi e la manipolazione della realtà e delle notizie. La televisione rispetto a tutto il resto possiede una maggiore selettività nell’enunciazione delle informazioni rispettando le sue esigenze, poiché ci sono tempi e spazi prestabiliti. Inoltre, è possibile che ciò che viene trasmesso costantemente, come i fatti di cronaca nera e il gossip, sia una reale esigenza dei gusti del pubblico. Forse si dà più importanza ai picchi di ascoltatori invece che a quello che è più importante sapere. Il miglioramento del sistema mediatico credo che debba avvenire sia dalla parte del pubblico, preferendo programmi più appropriati, e dalla parte dei media, evitando modelli negativi, ossessione per la cronaca nera e gusto eccessivo per il gossip.

Il risveglio nazionalistico e l’auspicata unificazione europea

Il risveglio nazionalistico che agita l’Europa potrebbe porre serie difficoltà alla costruzione politica del nostro continente. Il candidato illustri quelle che ritiene siano le cause del fenomeno ed indichi le possibili incidenze sull’auspicata unificazione europea.

Il concetto di nazionalismo è un concetto risalente alla seconda metà del XIX secolo. In realtà, si può parlare di nazionalismo per identificare alcune tendenze politiche e culturali già presenti durante l’età napoleonica, quando si assiste al superamento dell’idea che identifica uno Stato con la propria “continuità dinastica”. È grazie alla diffusione dell’idea di Stato-Nazione, invece, che un movimento che prevede l’affermazione della nazione intesa come gruppo di persone che parlano la stessa lingua, che hanno le stesse radici culturali, e lo stesso luogo geografico di provenienza, si diffonde in maniera importante. Con la fine dei grandi imperi, poi, al termine della prima guerra mondiale, e con l’affermazione definitiva degli stati nazionali, anche il concetto di nazionalismo si modifica progressivamente. Il modello politico diventa sempre più aggressivo, e supera le rivendicazioni unitarie e indipendentiste basate sul binomio “un popolo-uno stato”, trasformandosi in un nazionalismo definito appunto dagli storici come “aggressivo” (fenomeno risalente, ad esempio alla fase coloniale). Il tentativo di conquistare nuovi territori per affermare la potenza e la forza della propria nazione, e con l’intento (nemmeno troppo celato) della creazione di veri e propri imperi, diventa caratteristica comune dei movimenti nazionalisti europei. Il nazionalismo imperialistico, quello dei grandi imperi crollati ad inizio secolo, ritorna insomma in una veste diversa, che porterà, per esempio in Europa, alla diffusione di fenomeni come il fascismo e il nazismo, entrambi basati su una forte idea di identità nazionale e di imposizione della propria stirpe (razza, addirittura, per quanto riguarda l’ideologia nazista) sulle altre. Con la fine della seconda guerra mondiale, però, comincia il processo di unificazione dell’Europa. La fase dei nazionalismi sembra essere superata, probabilmente a causa dell’enorme catastrofe costituita dalla guerra, di cui i vari nazionalismi erano stati una delle cause principali. Non è questa la sede per analizzare le tappe del processo di unificazione politica e sociale del continente, ma assolutamente necessaria, parlando di nazionalismi, è una riflessione in merito, tenendo in considerazione gli sviluppi avvenuti negli ultimi anni, in particolar modo nel ventennio successivo alla caduta dell’Unione sovietica. Quest’ultima, infatti, costituiva in qualche modo l’ultima grande potenza/impero europea, e la disgregazione dei territori che la costituivano ha portato una serie di problematiche che è impossibile non menzionare. Da sempre, le situazioni di difficoltà e discriminazione delle minoranze etniche sono terreno fertile per la diffusione dei nazionalismi, una condizione che si è presentata in maniera prepotente in alcuni territori come l’ex Jugoslavia (che ha dovuto affrontare un processo di divisioni conflittuale e sanguinoso) e la stessa Russia, dove una volta finito l’impero comunista, i problemi delle minoranze sono esplosi in maniera clamorosa, a cominciare da quello ceceno, tuttora all’ordine del giorno. Terreno altrettanto fertile è quello delle difficoltà economiche dei singoli paesi: in molte regioni dell’est Europa, per esempio, dall’Ucraina alla Bulgaria, passando per l’Ungheria, partiti di ispirazione nazionalista – per la maggior parte di estrema destra – hanno guadagnato enormi consensi, facendo leva anche su un sentimento xenofobo, purtroppo abbastanza diffuso. Tuttavia, il fenomeno dei nuovi nazionalismi, quelli successivi alla seconda guerra mondiale, non è un fenomeno tendente esclusivamente a una linea politica di destra. Nel panorama continentale, infatti, affianco a partiti politici e movimenti come la Lega Nord in Italia, o il British National Party, ve ne sono altri che hanno una estrazione socialdemocratica o comunque politicamente aperta a sinistra, come il Partito nazionale scozzese. In alcuni casi, peraltro, la matrice comune di questi movimenti, che riesce ad assicurargli poi un seguito non indifferente, è l’insofferenza per la presenza del paese all’interno dell’Unione Europea, una presenza spesso ottenuta con importanti sforzi da parte dei governi, ma che nel corso dell’ultima grande crisi economica sta chiedendo sacrifici altrettanto importanti alle popolazioni. Gli standard necessari per rimanere all’interno dell’Unione, infatti, sono spesso troppo duri da rispettare, e in alcuni casi (è da poco accaduto in Grecia) i governi hanno dovuto faticare molto per provare a spiegare alla popolazione il vantaggio di una rigorosa politica di austerity, che aveva però il beneficio di mantenere il paese all’interno della federazione continentale. Questi provvedimenti, però, hanno fatto si, e stanno facendo si, che in molti paesi europei – e in particolar modo in quelli economicamente meno solidi – un sentimento di anti-europeismo si diffondesse in maniera tutt’altro che irrilevante, talvolta in maniera assolutamente indipendente rispetto a politiche o idee di stampo nazionalistico. Una concreta preoccupazione è (nel caso in cui la crisi dovesse presentare ripercussioni importanti anche nel corso dei prossimi anni) l’atteggiamento che le popolazioni e ancor di più i governi dei singoli paesi, potrebbero avere nei confronti dell’Unione europea, con non ultimo rischio, la richiesta di un’uscita immediata dalla federazione. Tutto questo, infatti, potrebbe significare una importante, e forse incontrovertibile battuta d’arresto, nel lungo e faticoso cammino di costruzione di una identità e di un organismo unitario europeo, cammino per la costruzione del quale, molti anni e molte energie sono state spese. C’è da sperare che tutto ciò non sia avvenuto invano.

L’ottimismo della fine del secondo millennio, le incertezze e le preoccupazioni del nuovo millennio

Verso la fine del millennio scorso si guardava all’arrivo del Duemila con grande ottimismo. In molti si dicevano certi che sarebbe stato un periodo migliore per l’umanità. Guerre, terrorismo, fame, povertà, inquinamento, disastri ambientali, grande crisi economica, invece, ci fanno guardare, a distanza di un decennio e poco più, al futuro con incertezza e preoccupazione.

Il 9 novembre del 1989 il governo della Germania est sanciva la riapertura delle frontiere con la repubblica federale. Dopo quasi un anno, nell’ottobre del ’90, la riunificazione tedesca veniva completata, mentre nel dicembre del ’91 veniva ufficialmente sciolta l’Unione Sovietica. La fine del grande impero comunista venne accolto da molti, in occidente, come una vera e propria liberazione: la divisione del mondo in due blocchi, la guerra fredda, lo spauracchio di una espansione della rivoluzione socialista in occidente, avevano per molti anni costituito un motivo di tensione ma allo stesso tempo erano riusciti a mantenere una sorta di equilibrio mondiale che aveva portato sì, nella sua prima fase, persino al rischio di un terzo conflitto mondiale (vedi crisi missilistica a Cuba), ma era riuscito, per esempio, a far si che molti altri conflitti venissero evitati, per la paura di un possibile scontro tra le due grandi potenze mondiali, con le ovvie conseguenze che questo avrebbe potuto comportare. Da un punto di vista geopolitico, insomma, la fine dell’Unione sovietica, forse l’ultimo grande evento storico del Novecento, portava dietro di se vantaggi e svantaggi. Gli Stati Uniti, infatti, diventavano l’unica grande potenza politica mondiale (la Cina, più che una potenza politica è tuttora una potenza economica alle prese con la transizione da un sistema comunista a un sistema capitalista), una situazione che da lì a poco tempo avrebbe comportato non pochi problemi. Se in una prima fase, infatti, la politica degli Stati Uniti (in particolare l’impegno del presidente Clinton nel processo di pace Israele-Palestina) aveva lasciato sperare in un futuro di pace e crescita socio-economica, in una fase successiva la politica americana, di stampo imperialista, ha portato, soprattutto in Medio Oriente, a delle conseguenze forse inimmaginabili fino a pochi anni prima.. L’undici settembre del 2001 i terroristi del gruppo Al Quaeda colpivano gli Stati Uniti con un attacco nel cuore stesso del paese, qualcosa che mai era successo, dirottando quattro aerei civili verso obiettivi non militari. Due di questi aerei si schiantarono contro il World Trade Center di New York, il terzo contro il Pentagono, mentre il quarto precipitava in un campo della Pennsylvania.. Il fenomeno del terrorismo islamico, di stampo antiamericano e antioccidentale, balzava così davanti agli occhi del mondo intero, cambiando per sempre non solo la storia degli Stati Uniti, ma segnando l’inizio di una serie di conflitti che avrebbero caratterizzato poi l’intero primo decennio del terzo millennio In risposta all’aggressione islamica, infatti, gli Stati Uniti attaccano l’Afghanistan, seppur ufficialmente dando supporto ai locali ribelli al regime talebano. L’obiettivo della guerra, appoggiata anche dalla Nato, era quello di rovesciare il regime, sconfiggere il terrorismo e catturare il capo di Al Quaeda, Osama Bin Laden. Quest’ultimo obiettivo fu raggiunto ben dieci anni dopo dall’inizio della guerra, con pesantissime conseguenze sia in termini di distruzioni che di perdite di soldati, da entrambi i fronti. In un’ottica non dissimile da quella che ha portato alla guerra in Afghanistan (ovvero quella della lotta al terrorismo e ai regimi fondamentalisti mediorientali) va inquadrata anche la guerra in Iraq (2003-2011) che ha portato alla destituzione di Saddam Hussein. Se però questi due conflitti hanno segnato in maniera forte l’inizio del terzo millennio, altri eventi catastrofici hanno di fatto contribuito alla disillusione di chi sperava che il Duemila sarebbe stato il secolo della pace e dell’equilibrio mondiale. Innanzitutto catastrofi naturali, come lo Tzunami, che ha colpito nel 2004 le coste tailandesi e indonesiane, causando quasi cinquantamila vittime. Tanti altri sono stati gli eventi naturali catastrofici degli ultimi anni (in Italia, per esempio, il terremoto in Abruzzo) eventi che hanno sempre portato a un dibattito serrato riguardo l’incapacità da parte dell’uomo nel gestire il proprio territorio, troppo spesso sfruttato in maniera implacabile, svuotato del proprio ruolo, e piegato invece alle esigenze di modernizzazione. In qualche modo è anche quello che è successo in Giappone nel 2011, dove le pompe del reattore nucleare di Fukushima sono rimaste danneggiate in seguito a un terremoto, causando danni non ancora precisamente quantificabili, e forse ben peggiori di quanto non fosse lecito aspettarsi. Oltre le catastrofi naturali, però, sui cui effetti disastrosi l’uomo sembra comunque avere spesso delle responsabilità, a complicare ulteriormente la situazione è la grande crisi economica mondiale, crisi scoppiata per effetto di alcuni mutui “inaffidabili”, e che in pochi anni ha coinvolto le economie di mezzo mondo occidentale, colpendole in maniera devastante. Chi insomma, pensava che dopo la caduta dei regimi del cosiddetto “secolo breve” il Duemila sarebbe stato un secolo diverso, improntato sul rispetto dell’uomo e della natura, sulla pace e sulla prosperità, sembra purtroppo essere stato deluso. C’è ancora tanto tempo, ovviamente, per provare a porre rimedio alla situazione, anche se nessuno sembra intenzionato a farlo in maniera seria e concreta. Sempre sperando, che la famosa profezia dei Maya, che prevede la fine del mondo per la fine del 2012, venga smentita e archiviata con un sorriso.

Il nuovo modello femminile

Nel secolo XX le lotte per l’emancipazione femminile hanno portato alla crisi del vecchio modello “casalinga in coppia con figli” ed hanno aperto la strada al pieno inserimento della donna nella vita economica, sociale e politica. Il nuovo modello femminile stenta tuttavia a decollare per certe resistenze, sedimentate nell’attuale società, a riconoscere alla donna la effettiva capacità di assumere compiti nuovi. Illustra il fenomeno con personali riflessioni e proposte.

Il ventesimo secolo, oltre ad essere stato il secolo delle grandi guerre, è stato (principalmente nella sua seconda metà), il secolo della conquista, e del consolidamento, dei grandi diritti civili per una importante parte di popolazione mondiale. Nonostante le difficoltà e le arretratezze innegabili su temi come il rispetto per le minoranze religiose, quello nei confronti degli omosessuali, le discriminazioni razziali così come quelle sessuali, tanti passi in avanti sono stati fatti soprattutto nel corso degli ultimi cinquanta-sessanta anni. Come non rivolgere il pensiero alle lotte in favore della popolazione afro-americana, simboleggiate da figure come Martin Luther King e da immagini come il pugno chiuso di T. Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968? O ancora, non pensare a quelle delle “suffraggette”, che videro soddisfazione alle loro battaglie, in paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, solo tra il 1920 e il 1930, grazie all’estensione del diritto al voto alle donne? Proprio per quanto riguarda la condizione femminile, però, come in realtà per molti degli ambiti sopracitati, la conquista materiale di determinati diritti, troppo spesso non coincide con la reale possibilità data alle donne di esercitare e di usufruire degli stessi all’interno della società. La questione che è, probabilmente, da prendere in analisi quando si parla del ruolo della donna nella società del ventesimo secolo, è il distacco tra quelle che sono le tutele che le istituzioni e le costituzioni danno alle donne, e le reali e concrete possibilità che queste hanno di realizzare i propri obiettivi, i propri sogni, le proprie ambizioni. Pur circoscrivendo anche solo per una questione di praticità, il nostro discorso alle società occidentali (dove le donne hanno raggiunto, almeno dal punto di vista teorico, un riconoscimento notevole nella maggior parte degli ambiti che regolano la vita di una comunità) ci si accorgerà infatti che la strada necessaria ad una donna per portare a compimento il proprio desiderato percorso di vita, è molto più ricca di ostacoli, rispetto a quella percorribile dagli uomini. Innanzitutto, nonostante la società contemporanea abbia allo stato attuale superato il paradigma che vede l’uomo come soggetto privilegiato dell’attività lavorativa, intesa come sostentamento della famiglia, e assegni (almeno sulla carta) anche alla donna le possibilità di potersi realizzare in un percorso professionale che costituisca non un semplice “contributo” al bilancio familiare, è evidente che il modo stesso in cui è strutturata la società, impedisca la realizzazione di questa idea nel concreto. È innegabile, ad esempio, che la donna debba fare i conti con un ruolo preminente nell’ambito familiare, almeno per quanto riguarda la necessità di presenza al fianco del figlio, soprattutto nei primi mesi di vita. È anche vero, tuttavia, che oggi, momento in cui anche gli uomini possono svolgere senza problemi – e senza che questo costituisca un tabù – gli indispensabili adempimenti necessari al positivo andamento della vita familiare (lavori in casa, educazione dei figli, ecc.), il modello di famiglia tradizionale andrebbe probabilmente ripensato, attraverso il superamento di una concezione che assegna alla donna le responsabilità “domestiche” e all’uomo quelle del sosten-tamento economico della famiglia. Niente di più sbagliato, tanto più che da ormai molti anni il livello occupazionale per le donne è in costante ascesa, e molte tra loro, oltre a svolgere i compiti all’interno della casa, svolgono attività lavorative che le impegnano per molte ore al giorno, e in posti in alcuni casi di grande responsabilità. Attenzione, però, anche da questo punto di vista, a non farsi coinvolgere da errati ragionamenti ottimistici. Se è vero, per esempio, che negli ultimi trenta-quarant’anni, molte sono state le donne che hanno rivestito cariche importanti a livello politico (l’attuale cancelliere tedesco Angela Merkerl, il primo ministro inglese Margaret Tatcher, in carica per ben undici anni a cavallo degli’80, il segretario di stato americano Hillary Clinton) è anche vero che è tuttora piuttosto raro vedere donne ai posti di comando in settori come la grande industria, dove necessario è considerato il possesso di un forte senso leaderistico, di una personalità non condizionabile, di una freddezza e una capacità di calcolo capace di fronteggiare qualsiasi situazione. È culturalmente, purtroppo, opinione ancora troppo comune per essere superata, che le donne possano difettare da questo punto di vista, tanto che se è vero che il mondo politico abbia conosciuto una certa apertura negli ultimi anni, è anche vero che nella maggior parte dei posti di comando (e in particolare quelli dove potere economico e politico hanno una forte relazione) ancora poche sono le donne ad aver guadagnato una posizione preminente. Se la causa di questo pregiudizio sia una resistenza da parte del mondo maschile intesa come desiderio di conservazione del potere, o piuttosto una reale convinzione dell’incapacità, o meglio dell’ inadeguatezza delle donne a ricoprire determinati ruoli, è un’analisi di difficile soluzione. Quello che è certo, è che per superare tutto ciò sarebbe necessario un doppio salto. Il primo, sociale, che possa assicurare alla donna ulteriori tutele, per esempio in ambito lavorativo: con la diffusione del lavoro flessibile, per esempio, le donne negli ultimi anni hanno pagato più degli uomini i cambiamenti che hanno rivoluzionato il mercato del lavoro. Secondo molti studi, per dirne una, pratica ormai diffusa nel nostro paese, sarebbe quella di far firmare ad impiegate donne delle “dimissioni in bianco” anticipate, che l’azienda sfrutterebbe in caso di maternità, per poter agevolmente sostituire il lavoratore. Il secondo salto, ancor più importante, sarebbe di tipo culturale: una nuova concezione che riesca a ripensare il ruolo della donna all’interno della famiglia, della società, delle istituzioni, che parta dal presupposto di una effettiva diversità rispetto agli uomini in alcune caratteristiche (si pensi a un certo tipo di lavoro manuale), ma che si sforzi di rendere questa diversità non un ostacolo, ma un punto di partenza per la ricerca di un nuovo equilibrio. Un equilibrio tale da poter finalmente realizzare l’agognata parità non solo di diritti (probabilmente, almeno nel mondo occidentale, ormai acquisita) ma ancora di più di opportunità.

I giornali cartacei sono destinati a sparire

Secondo alcune analisi e statistiche i giornali cartacei sono destinati a sparire nel corso dei prossimi cinquanta anni. Sviluppare una riflessione su questo dato, in particolar modo facendo riferimento al ruolo di Internet nell’ambito del mondo dell’informazione, ai suoi indubbi vantaggi e agli altrettanto indiscussi limiti.

I dati parlano chiaro: la stampa mondiale attraversa un momento di crisi che dura ormai da diversi anni, e che secondo alcuni analisti si presenta come irreversibile. Le statistiche riguardanti la vendita di periodici e ancor di più quotidiani sono in crollo vertiginoso e il numero di testate che negli ultimissimi anni sono state costrette a chiudere i battenti è notevole. Gli stessi studiosi del fenomeno, non trovano grosse difficoltà nell’identificare la causa di questo andamento negativo nello sviluppo e nella diffusione dell’informazione su internet, nelle sue molteplici e talvolta persino ambigue sfaccettature. Oggi, infatti, sempre più persone utilizzano la rete per reperire le informazioni che ritengono necessarie al proprio fabbisogno di utente. I siti più visitati, ovviamente, sono quelli delle grandi testate cartacee (in Italia, i quotidiani Repubblica e Corriere della sera) i quali, dopo una prima fase durante la quale i contenuti del sito facevano riferimento a quelli delle edizioni cartacee, sono riusciti (con più o meno successo) a sviluppare delle redazioni, dei contenuti, delle notizie autonome rispetto al formato acquistabile in edicola. Non sempre, però, le informazioni che l’utente può reperire tramite internet sono affidabili, e questo costituisce probabilmente il problema, e il rischio maggiore di questa nuova tendenza informativa. A tutt’oggi, infatti, il grande vantaggio ma allo stesso tempo il punto debole di internet è l’essere un gigantesco calderone in cui a tutti è concessa la possibilità di dire la propria, attraverso strumenti come i blog (esplosi nei primi anni del Duemila) e oggi i social network, a cominciare dai celebri Facebook e Twitter. Il vantaggio, ovviamente, è la democraticità che questa possibilità offre, aprendo il mondo dell’informazione a praticamente l’intera popolazione mondiale, e dando a chiunque la possibilità di farsi ascoltare. C’è anche un lato oscuro della medaglia, però. L’utente che dà o fa informazione, infatti, non è un utente “referenziato”, e questo stesso elemento può costituire a sua volta un’arma a doppio taglio: l’utente di internet che “fa” informazione, infatti, sarà semplicemente un cittadino, e di conseguenza sarà con ogni probabilità meno vincolato a legami, condizionamenti, influenze, che troppo spesso rendono l’informazione meno autonoma di quanto non dovrebbe essere. Allo stesso tempo, però, nel momento in cui un lettore si trova davanti un’informazione messa “su piazza” da un creatore di notizie di cui non conosce la preparazione, le fonti, il metodo di reperimento dati, spesso persino il nome, ha davanti a se una scelta fondamentale: considerare, o meno, quell’informazione, o quella notizia come attendibile. Il problema della “referenzialità” delle fonti, però, è un problema che sembra riguardare più chi prova ad analizzare questo fenomeno, che gli utenti stessi. Il grande successo dei blog e dei social network, risiede innanzitutto nella possibilità che viene data al fruitore dell’informazione di trasformarsi in un ruolo propositivo nei confronti delle stesse, e questo porta alla nascita della figura cosiddetta del citizen journalist (in italiano il “giornalista partecipativo”). La stessa questione, però, riguardo il fatto se una notizia possa essere considerata attendibile o meno, non sembra preoccupare particolarmente chi usufruisce della rete, dal momento che ogni utente di internet, assume come riferimento, e va a procurarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, notizie che gli propongono una visione del mondo “partigiana”, ovviamente quanto più vicina possibile sia a un’idea che egli stesso si è a suo tempo pre-costituito. Questo problema, in realtà, non riguarda solo il mondo di internet, dal momento che (facciamo un esempio prendendo il caso italiano) un lettore che acquista ogni giorno un quotidiano, acquisterà il Manifesto (storicamente di sinistra) o il Giornale (testata tendente politicamente a destra) a seconda delle proprie idee. Idee che, egli aspetta di essere confermate, più che confutate, dalla penna che scrive e che egli identifica come un riferimento attendibile. Su internet, però, questa tendenza viene accentuata all’inverosimile, anche a causa dell’estremizzazione delle posizioni da parte di chi scrive. Il punto cruciale, però, è: come fare a controllare, e a mettere di fronte alle proprie responsabilità una quantità incredibile di utenti che allo stesso tempo diventano produttori di notizie? Il giornalismo parte-cipativo ha dato negli ultimi quindici anni almeno, un contributo incredibile al mondo dell’informazione (su tutti il caso eclatante i dei cittadini, non giornalisti di professione, che hanno filmato in tempo reale la caduta delle torri gemelle) ma anche messo su piazza, per dirne sempre una, una serie di finti scoop, di accuse infamanti, di affronti personali e non politici nei confronti di personaggi pubblici, spesso totalmente infondati, e che a quei personaggi sono costati non poco tanto dal punto di vista personale quanto, appunto, pubblico. Il giornale cartaceo, nei prossimi anni, è un’istituzione destinata a sparire. La possibilità data agli utenti di informarsi comodamente da casa, attraverso un clic, recuperando soltanto le informazioni che preferiscono è un’occasione troppo ghiotta per non essere alla lunga sfruttata. I problemi che questo scenario porta con sé, però. sono almeno tanti quanti i vantaggi, e forse il più grosso, alla lunga, sarà non la scomparsa del prodotto cartaceo in sé, ma della figura del giornalista, che arriverà ad essere sempre più massicciamente sostituita da quella dell’opinionista, e ancor di più da quella dell’amatore. Un produttore di informazioni capace di cogliere (quando in buona fede) momenti, fatti, notizie importanti, grazie alla propria volontà e al desiderio di un’informazione libera. Allo stesso tempo, però, non inquadrabile in un meccanismo che (attraverso la necessità dell’attendibilità della fonte, e della “referenzialità” del giornalista e del giornale stesso) fino ad oggi ha salvaguardato l’esistenza di una figura (il giornalista) e delle sue necessarie (data l’importanza del campo, forse indispensabili) qualità professionali.

La primavera del Mediterraneo, cambiamento geopolitici in atto e il ruolo dell’Europa.

In Tunisia e in Egitto si è verificato un radicale e imprevedibile cambio dell’establishment politico esistente, grazie alle rivolte che hanno portato alla caduta dei regimi dittatoriali. Tuttavia in Libia, così come in Siria, in cui la repressione ha assunto toni di violenza inaudita, ancora oggi continuano le rivolte locali. I politologi hanno definito questi moti di rivoluzione e cambiamento come Primavera Araba. Tutto è cominciato dalla Tunisia, nel dicembre 2010, ed è proprio la Tunisia di oggi che deve essere tenuta presente come modello di transizione verso la democrazia. Le prime elezioni svoltesi ad ottobre, a dieci mesi dalla caduta del dittatore Ben Ali, sono state un successo, grazie alla vittoria del partito d’ispirazione islamica moderata Ennahda, che ha conquistato il consenso con un programma elettorale che si fonda proprio sulla necessità di rompere definitivamente con il passato. Dal Cairo a Damasco, da Rabat a Sirte, tutto il mondo arabo ha guardato con interesse, e con una punta d’invidia, al primo passaggio chiave compiuto. La rivolta libica, trasformatasi rapidamente in una guerra civile tra fedeli al regime e insorti, con il suo altissimo tasso di violenza indiscriminata, è di certo il capitolo più sofferto degli eventi in questione. Il dittatore libico da subito ha proclamato, con l’arroganza di sempre, che “avrebbe schiacciato i ribelli e la popolazione di Bengasi come ratti”. Proprio in seguito a questa dichiarazione le Nazioni Uniti hanno proclamato l’embargo dell’intera area e gli Stati sono stati autorizzati a “prendere tutte le misure necessarie” (cioè, nel consolidato linguaggio del Palazzo di Vetro, a usa-re la forza), “per proteggere le popolazioni e le zone civili minacciate d’attacco nella Jamahiriya araba libica”. Nella vicenda libica, organizzazioni regionali, quali la Lega Araba e l’Unione Africana, hanno svolto un ruolo cooperativo di primo piano. In perfetta accordo con la strategia della Nato che punta proprio sulla collaborazione con paesi terzi e organizzazioni internazionali. Dopo la guerra civile e la morte di Gheddafi, la nuova Libia sembra voler procedere sulla strada dell’ordine e della legalità, promettendo elezioni democratiche e la fine definitiva dei tumulti dei ribelli. Attualmente è attiva in Libia la missione UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya), voluta dalle Nazioni Unite, per aiutare la stabilizzazione politica della Libia e l’addestramento sul terreno delle forze di sicurezza. Più complessa la situazione egiziana, dove la rivolta non ha portato a radicali cambiamenti, ma ha di fatto perpetuato il potere della casta militare, che si è eretta a garante della rivoluzione democratica. I risvolti sono stati tutt’altro che positivi, dopo oltre trent’anni di gelo diplomatico e tensioni, l’Egitto si è infatti riavvicinato pericolosamente all’Iran degli ayatollah, in chiave anti israeliana, contribuendo così all’isolamento di Tel Aviv nel Medio Oriente. Isolamento che si consolida sia per la rottura dei tradizionali buoni rapporti con la Turchia Il presidente Usa,Obama, nel suo “Discorso al mondo arabo” del maggio 2011, ha sottolineato che i popoli arabi hanno bisogno di aiuto, al pari dei Paesi dell’Est europeo dopo la caduta del Muro di Berlino. Un aiuto che non si concretizza solo in termini di assistenza e aiuti umanitari ma investimenti, con una particolare attenzione al commercio, necessario per le stabilizzazione e modernizzazione delle economie dei paesi arabi, in modo da raggiungere, in un prevedibile futuro, una prosperità condivisa. Di qui l’importanza delle graduali riforme in atto e della liberalizzazione dei mercati, al fine di incrementare con esse gli scambi commerciali. E una critica celata emerge dalle parole del presidente Obama nei confronti dell’ Europa. Proprio l’Unione Europea, che non solo non è stata capace di presentare un fronte comune nella crisi mediterranea, ma che sembra essere addirittura scomparsa dal quadro più generale della politica estera e di sicurezza. Il momento certo non è favorevole a causa della crisi globale economica e finanziaria in corso, che si è abbattuta con una straordinaria ondata specu-lativa proprio sull’Eurozona e, in particolare, sui cosiddetti Paesi PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), mettendo alcuni di essi a rischio di un vero e proprio pericolosissimo default. E proprio in questo momento di crisi che l’Europa dovrà assumere una prospettiva euro-mediterranea necessaria per il superamento della crisi comune. Dalla capacità di riproposizione strategica e di intervento economico dell’Europa nei grandi cambiamenti geopolitici in corso alla sua frontiera marittima meridionale dipenderà, in gran parte, se la “primavera araba” si potrà alla fine trasformare in una “primavera mediterranea”.

Il discorso di Steve Jobs agli studenti

Il 5 ottobre muore Steve Jobs, padre del famoso marchio Apple. Molti giovani lo hanno commemorato in diversi modi, per esempio riproponendo il discorso che nel 2005 aveva tenuto a Standford per i laureandi. Commenta brevemente il discorso ed esponi le tue considerazioni a riguardo.

La morte di Steve Jobs non è stata soltanto una semplice notizia di cronaca, ma ha destato commozione in tutto il mondo. Egli non era soltanto un fortunato e intelligente imprenditore, ma ha trasformato il mondo della comunicazione di tutto il pianeta, modificando parametri culturali ed equilibri economici. Grazie alle sue geniali intuizioni, l’interattività e la multimedialità sono entrate a far parte del nostro quotidiano, aumentando le possibilità di comunicare, essere informati e intrattenersi. Questa tenacia nel perseguire obiettivi e la sua genialità, nonostante le difficoltà della vita, sono testimoniate dal discorso che nel 2005 ha tenuto di fronte ai laureandi di Standford, l’università che fu costretto a lasciare perché non aveva soldi a sufficienza per potersi permettere di seguire i corsi. In quell’occasione Steve Jobs raccontò tre storie. La prima riguarda l’unire i puntini. La madre biologica era una studentessa, che decise di darlo in adozione a un avvocato e a sua moglie. Questi però volevano una bambina, quindi il bambino fu adottato da persone che non avevano finito neanche il liceo, ma che promisero che l’avrebbero mandato al college. Ma poiché egli scelse un corso molto costoso e tutti i risparmi del genitori finivano nelle tasse universitarie, il giovane decise dopo sei mesi di abbandonare quei corsi, e di seguire in modo non ufficiale quelli che più gli piacevano. Dormiva sul pavimento nella camera degli amici, riportava le bottiglie di Coca Cola vuote al negozio per avere i cinque centesimi per mangiare. Seguiva i corsi di calligrafia, e così imparò i caratteri serif e sans serif e tutto ciò che rendeva stupenda una stampa. Ne era affascinato, e pensava che tutto ciò non gli sarebbe tornato utile. Invece quando dieci anni dopo si trovò a progettare il primo Macintosh, tutto gli tornò utile. Se egli avesse continuato i corsi ufficiali, probabilmente non ci sarebbero stati Mac con le grandi capacità tipografiche di oggi. Ovviamente, dieci anni prima, era impossibile unire i puntini e conoscere il futuro. Il consiglio che ha dato ai giovani laureandi raccontando questa storia è di unire i puntini guardando al passato, avere fiducia nel futuro e credere in qualcosa. La seconda storia riguarda l’amore e la perdita. Jobs e Woz, a soli vent’anni progettarono il primo Apple nel garage di casa Jobs, e in soli dieci anni l’azienda si trasformò in una compagnia da due miliardi di dollari. Avendo creato il primo Macintosh a trent’anni, poco dopo Steve venne licenziato dall’azienda. Il suo collaboratore aveva visioni differenti dalle sue, e dopo uno scontro la commissione dei direttori si schierò contro Jobs che fu licenziato. Straziato, decise comunque di non mollare quello che aveva creato e ricominciò. Il licenziamento fu la cosa migliore che gli potesse capitare, perché quello fu uno dei periodi più creativi della sua vita. Fondò un’azienda chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar e si sposò. La Pixar produsse il primo film d’animazione digitale, Toy Story, e oggi è lo studio d’animazione più famoso al mondo. La Apple comprò NeXT che è il cuore della rinascita dell’Apple, e Jobs fu riassunto. Ciò che trattenne Jobs dall’abbandonare tutto fu l’amore per ciò che ha fatto. Bisogna trovare chi e cosa amare ed essere soddisfatti del proprio lavoro. Non bisogna accontentarsi, ma cercare finché non si è appagati. La terza storia riguarda la morte. Ricordare ogni giorno di avere una morte imminente spinse Jobs a fare importanti scelte di vita. Orgoglio, paura, imbarazzo, tutto svanisce di fronte all’idea della morte, lasciando spazio a ciò che è veramente importante. Un anno prima del discorso a Standford gli fu diagnosticato un cancro incurabile al pancreas, e sarebbe vissuto massimo tre mesi. Aveva solo pochi mesi per dire ai figli tutto quello che avrebbe detto in una vita. Dopo un’endoscopia però, si scoprì che il tumore era curabile e fu operato. In quel periodo visse il concetto di morte che fino ad allora era per lui astratto. La morte è l’agente di cambiamento che elimina il vecchio per dare spazio al nuovo. Il tempo è limitato e non dobbiamo sprecare la vita vivendo quella di qualcun altro, lasciando che le opinioni degli altri sovrastino la nostra voce. Bisogna avere il coraggio di seguire il nostro cuore e le nostre intuizioni. A conclusione del discorso, Jobs menzionò una rivista che leggeva da giovane, The Whole Eart Catalog, il cui numero finale aveva una fotografia di una strada di campagna al mattino presto. Sotto la foto gli autori dissero addio ai lettori con queste parole: Stay Hungry. Stay Foolish”. Con questo augurio si congedò dagli studenti, per i quali inizierà una nuova vita dopo la laurea. Con questo discorso Jobs si rivolse alla futura classe dirigente americana, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vita, i genitori adottivi, il licenziamento e la riassunzione alla Apple, il tumore. Jobs trasmise un grande messaggio, quello di essere affamati e folli, di seguire il cuore e le proprie intuizioni. Sono passati un bel po’ di anni da questo intervento, ma queste parole sono ancora vive nella mente delle persone di tutto il mondo, e possono essere considerate come una sorta di testamento spirituale dell’uomo. Un testamento rivolto al futuro della società planetaria.

Rivoluzioni e proteste giovanili nell’era dei social network

È “il manifestante” il personaggio dell’anno per la rivista Time. Il 2011 è stato l’anno delle rivolte in Egitto, Tunisia, e Libia, paesi in cui le modalità e i destini delle rivoluzioni democratiche sono stati diversi. È stato, però, anche l’anno del movimento degli indignati e di tanti gruppi che si sono autorganizzati in Europa e nel mondo per fronteggiare il momento di grave crisi internazionale. Analizzare il fenomeno, tenendo anche in considerazione il ruolo svolto da internet e dai social network nell’ambito degli stessi movimenti.

Non un capo di stato, né una rock star o un astronauta. Non un premio Nobel, né un attore del cinema. A trionfare come personaggio dell’anno sulla copertina della rivista americana Time è stato quest’anno “il manifestante”, con evidente riferimento già nell’illustrazione, al fenomeno noto come “primavera araba”, un fenomeno sviluppatosi a partire dalla fine del 2010, e protrattosi durante l’arco di tutto l’ultimo anno. Con questa definizione si intendono le sollevazioni popolari che hanno coinvolto diversi paesi mediorientali e nordafricani, e hanno visto moltissimi cittadini scendere in piazza, anche in maniera violenta, nel tentativo, poi più o meno riuscito, di conquistare diritti civili fino a quel momento considerati un tabù. Si tratta, va detto, di paesi assai diversi tra loro, anche se tutti caratterizzati da una forma di governo fortemente autoritaria. È il caso per esempio della Tunisia, dove le proteste sono cominciate dopo il suicidio di un ambulante di Sidi Bouzid, datosi fuoco a seguito del sequestro della sua merce, da parte della polizia. Un movimento di protesta già da tempo pronto a esplodere, si è dopo quest’evento rapidamente organizzato, e le manifestazioni susseguite in tutto il paese, fino a che, nel mese di gennaio, il presidente Ben Ali è stato costretto, dopo ben ventiquattro anni di potere, a dimettersi. Ancora, particolarmente importante è quello che è accaduto in Egitto, dove tra gennaio e febbraio il movimento di protesta ha conosciuto una forte e sanguinosa repressione da parte del presidente Moubarak (poi dimessosi), e in maniera ancora più radicale in Libia, dove le proteste per chiedere l’abbandono del potere da parte del leader Gheddafi, sono sfociate in una vera e propria guerra civile. Se il 2011 è stato l’anno del “manifestante”, però, non è solo grazie alle lotte e alle conquiste della generazione 2.0 in paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Libia, o la Siria, dove il governo del presidente Al-Asad prova a resistere in ogni modo, effettuando una violenta repressione contro qualsiasi tipo di contestazione. L’anno della grande crisi mondiale – o meglio l’anno in cui la crisi che ormai va avanti da un bel po’ ha colpito tutti più fortemente – ha visto, infatti, una sorta di reazione d’orgoglio da parte di tanta parte di popolazione, in particolar modo di quella che più sta accusando le storture, e più sta vivendo sulla propria pelle, i problemi del tardo capitalismo del duemila. In paesi dove lo stato di diritto è (più o meno, a seconda dei casi) garantito dalle costituzioni, infatti, i problemi principali sono quelli che coinvolgono l’ormai celebre “generazione precaria”, quella fascia di cittadini compresi tra i venti e i quarant’anni che, soprattutto a causa dell’estremizzazione di un concetto quale quello della flessibilità del lavoro, si trovano ormai da anni in una specie di limbo sociale, impossibilitati a veder riconosciuto “completamente” il proprio ruolo (soprattutto lavorativo-economico) all’interno della società. Una società che è sì pronta a utilizzarli come risorsa, ma troppo spesso è incapace di ricambiare, fornendogli le tutele e i diritti adeguati, necessari a una sopravvivenza degna dell’apporto che invece danno all’economia. Nato in Spagna, e successivamente sviluppatosi in tutta Europa, raggiungendo anche gli Stati Uniti e persino alcuni paesi asiatici, il movimento degli “indignati” è un movimento non violento, essenzialmente di giovani, che protestano contro le gravi situazioni economiche in cui versano i propri paesi, tenendo però ben presente come i problemi del proprio giardino siano collegati con quelli della finanza mondiale. Da un punto di vista pratico, gli indignati chiedono risposte, da parte dei governi, a favore e a tutela delle fasce economiche più deboli, in particolar modo in tema di lavoro e stato sociale. Altri momenti importanti, poi, durante lo scorso anno, hanno visto sotto i riflettori alcuni movimenti di cittadini che hanno provato (purtroppo in molti casi in maniera vana) a far valere i propri diritti nelle maniere più disparate possibili. È quello che è accaduto in Italia, per esempio, dove l’utilizzo della violenza, a cui è ricorso un numero tutt’altro che irrilevante di giovani, nel corso della grande manifestazione del 15 ottobre a Roma, ha avuto l’unico effetto di spaccare in due il movimento locale. O ancora in Russia, dove le proteste contro i presunti brogli nel corso delle elezioni, che avrebbero enormemente favorito il partito dell’ex presidente Putin, non sembrano aver condotto ad alcun risultato concreto. Una cosa, tuttavia, che accomuna tutti questi movimenti, è la centralità assunta dalle nuove tecnologie, in particolare dall’utilizzo di internet, o meglio della sua applicazione più immediata, nell’ambito delle proteste che hanno caratterizzato l’ultimo anno. Se nel corso della primavera araba, infatti, o delle proteste in Russia, i social network e in particolar modo Facebook e Twitter hanno assunto la doppia funzione di coordinamento per i manifestanti e di testimonianza degli eventi (in paesi dove fortissima è la censura, a tutti i livelli), per quanto riguarda gli indignati, internet è addirittura stata quella base capace di costruire un dibattito che ha portato (nonostante molte siano le inadeguatezze, rispetto alle esigenze di una così vasta “base”) alla costituzione di un vero e proprio movimento internazionale.

La crisi economica mondiale

La crisi finanziaria che negli ultimi mesi si è abbattuta sull’intera economia mondiale compromette con seri pericoli uno sviluppo sociale e civile che si credeva inarrestabile. Ad esserne coinvolte, perlopiù, sono le nuove generazioni più giovani, quelle per cui, per la prima volta nella storia recente, si prospetta un tenore di vita meno garantito di quello dei padri. Quali sono le maggiori urgenze in un momento così difficile e delicato? Il candidato indichi i possibili rimedi e le possibili iniziative politiche per fronteggiare la situazione.

Tutto cominciò nell’estate 2007. Fino ad allora, quella che a lungo andare sta risultando essere la più grande crisi economica che la storia moderna abbia conosciuto, era qualcosa di inimmaginabile. O quanto meno, uno spettro che soltanto un pungo di economisti illuminati, riusciva a vedere all’orizzonte. Pochissimi, in ogni caso, riuscivano a percepire il pericolo di una catastrofe imminente. Nell’estate 2007, però, la cosiddetta crisi americana dei subprime (un tipo di mutui immobiliari caratterizzati da condizioni molto poco favorevoli per i debitori, spesso soggetti a bassi punteggi creditizi, ovvero poco affidabili) esplose definitivamente, portando alla bancarotta e alla chiusura alcuni degli istituti di credito tra i più prestigiosi del paese, come la Lehman Brothers e la Goldman Sachs. Nell’arco di pochi mesi la crisi si estendeva all’Europa e praticamente a tutto il pianeta, a causa di una notevole recessione, e una crisi industriale, entrambe concretizzatesi in maniera devastante intorno alla metà del 2008. Da quel momento una serie di processi da vera e propria reazione a catena si sono innescati: il primo ostacolo è stato la crisi di fiducia nei mercati borsistici, considerati molto meno affidabili dal punto di vista creditizio; a questo si deve aggiungere l’elevata inflazione a livello mondiale, e il costo sempre più elevato delle materie prime, a cominciare dal petrolio proveniente per lo più dai mercati mediorientali. Nell’arco di due anni dall’inizio della crisi, il Prodotto interno lordo di molti paesi è crollato, a cominciare proprio da alcune realtà occidentali, che negli ultimi venti anni avevano creduto di conoscere un benessere che loro stessi consideravano inarrestabile. Tanto è vero che nel 2011, dopo una ripresa breve e di piccola entità, molti paesi europei (come il Portogallo e la Grecia) hanno dovuto fare i conti con una situazione disastrosa, a causa dell’allargamento della crisi ai debiti sovrani (i debiti degli stati nei confronti di altri soggetti, anche e soprattutto privati), e all’influenza di questa sulla finanza pubblica. Il rischio di insolvenza, per questi paesi, è stato evitato soltanto grazie a massicci interventi da parte degli altri stati della cosiddetta Eurozona, oltre che a prestiti ricevuti a tassi favorevoli da parte della Banca centrale europea. Se la storia della crisi, tuttora in corso – e ben lungi da considerare esauribile almeno per il prossimo biennio – racconta di problematiche scatenate essenzialmente dall’alta finanza, le ripercussioni, sociali ma anche politiche sulle popolazioni europee e mondiali sono state fortissime. A “pagare la crisi”, come praticamente sempre accade, sono state infatti quelle fasce di popolazione meno difese dalle tutele “storiche”, come quelle riguardanti il mondo del lavoro, anche se è vero che una percentuale altissima di perdita dei posti di lavoro, ha coinvolto la maggior parte dei paesi. I tassi di disoccupazione, però, non sono schizzati solo a causa dei tantissimi licenziamenti degli ultimi due anni, ma soprattutto per le difficoltà, da parte della fascia di popolazione più giovane, a trovare una sistemazione stabile, non solo dal punto di vista lavorativo. La difficoltà a trovare un impiego, e quella ancora maggiore a conservarlo per un periodo superiore ai 6/9 mesi, è infatti tuttora il problema che maggiormente caratterizza le generazioni tra i venti e i quarant’anni, generazioni sulle quali l’estremizzazione di un concetto quale il lavoro flessibile, unito alle difficoltà sul mercato da parte delle imprese (che si traducono in difficoltà ad assumere, ma anche a mantenere lavoratori in organico) ha avuto effetti devastanti. Per la prima volta, probabilmente dal dopoguerra, una altissima percentuale di giovani vede davanti a sé prospettive di crescita assai inferiori rispetto a quelle della generazione precedente, quasi incommensurabili, se paragonate a quelle che avevano avuto i propri genitori. Le difficoltà a ottenere un lavoro, e a mantenerlo, infatti, si traducono in una serie di impedimenti che si ripercuotono sull’impossibilità di trovare un alloggio, di costruire una famiglia, e in ultimo di contribuire all’economia, dal momento che difficilmente questi giovani riescono a costruirsi un ruolo economico e sociale capace di garantirgli una autonomia di vita. Il tutto, avviene in un momento in cui le grosse difficoltà della finanza pubblica (da almeno dieci anni a questa parte) hanno portato a una notevole trasformazione (in negativo) in materia di stato sociale, quello che oggi viene universalmente chiamato welfare. Le tutele e le garanzie nei confronti di chi non riesce a trovare lavoro, unite alla privatizzazione totale dei servizi; la mancanza nella maggior parte degli stati europei, di una seria politica per la casa; l’innalzamento dei tassi per i mutui e i prestiti privati; la crisi delle monete occidentali sui mercati globali, e il conseguente aumento dei generi di prima necessità, o di quelli diventati fondamentali, a cominciare dalla benzina. Tutto ciò ha fatto si che la popolazione mondiale sia arrivata ad affrontare una crisi probabilmente superiore a quella del ’29, senza la possibilità di contare realmente su un aiuto da parte dello stato, aiuto che avrebbe potuto forse attutirne gli effetti. Va detto però, che la mancanza di questi aiuti non è esclusivamente una scelta (obbligata) economica, ma anche una scelta politica, dal momento che la scomparsa progressiva dello stato sociale è un indirizzo scelto da molti governi europei già da molti anni, ben prima dello scoppio della crisi. Probabilmente, infatti, se si fosse attuata una politica diversa, o se si riuscisse ad attuare adesso misure basate sul sostegno dello stato in primo luogo alle imprese, ma anche ai lavoratori e alle famiglie, l’intera economia potrebbe trarne giovamento. Particolarmente importante, infatti, sarebbe dare la possibilità a chi oggi non l’ha, a cominciare dai giovani, di costruire la propria vita su paletti stabili (innanzitutto la casa e il lavoro), anche usufruendo dell’aiuto “pubblico”, anche perché un indirizzo del genere permetterebbe a un enorme fascia di popolazione di raggiungere un’autonomia che vorrebbe dire innanzitutto maggiore produzione (più si lavora più si produce) e in secondo luogo forza – per chi oggi non ne ha alcuna – di partecipare alla vita economica del paese. In questo modo, si potrebbero rilanciare attività industriali e del terzo settore, che oggi sono innegabilmente in difficoltà per una totale mancanza di domanda, dovuta proprio agli esiti disastrosi della crisi.

Il ruolo di Internet nella Primavera araba

Molti sostengono che tra i fautori della primavera araba, abbiano avuto un ruolo decisivo molti giovani esperti di informatica, i quali hanno diffuso il messaggio e hanno raccolto rivoluzionari attraverso internet. Esprimi una tua opinione a riguardo.

La Primavera Araba è una serie di agitazioni e proteste in atto nelle regioni del Medio Oriente, Vicino Oriente e Nord Africa. Algeria, Egitto, Tunisia, Giordania, Libia, Siria, sono tra i Paesi più colpiti da queste insurrezioni, mentre in altri sono avvenuti incidenti di minor gravità. Queste sommosse sono riconducibili ai Paesi appartenenti all’universo arabo, che utilizzano tecniche di resistenza civile come scioperi, manifestazioni, cortei, marce arrivando addirittura a compiere autolesionismo e suicidi pubblici, le cosiddette “auto-immolazioni”. Le cause di queste rivolte sono innumerevoli, tra cui la corruzione, la mancanza di libertà, le condizioni di vita molto dure, la violazione dei diritti umani e l’estrema povertà in cui riversano queste popolazioni. Un altro motivo di protesta è il crescente prezzo degli alimenti, importati, e di conseguenza la fame diffusa. La protesta è iniziata nel dicembre del 2010, quando il tunisino Mohamed Bouazizi si è dato fuoco dopo essere stata malmenato dalla polizia. Questo gesto ha provocato l’intera rivolta nel Paese, con un effetto domino in tutti gli altri del mondo arabo e del Nord Africa. Capi di stato sono stati costretti a dimettersi o addirittura alla fuga. In Libia Gheddafi, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, è stato trovato dai rivoluzionari, catturato e in seguito ucciso. In Tunisia il presidente Ben Ali, dopo dodici anni di dittatura, è stato costretto alla fuga in Arabia Saudita. In Egitto ci sono state delle proteste con dimostrazioni e molti episodi di violenza, e il presidente Mubarak dopo trent’anni di potere è stato costretto a dimettersi. Per organizzare, comunicare e divulgare i fatti sono stati utilizzati i social network come Twitter e Facebook. Il primo autore di un blog arabo è stato, nel 2003, Ahmed. Dapprima le discussioni riguardavano l’arte, l’ambiente, mentre in seguito si è iniziato a parlare dei problemi dei giovani egiziani e di argomenti considerati tabù. Internet ha dato la possibilità di esprimersi, poiché in Egitto bastavano cinque persone a parlare in piazza per far intervenire le forze dell’ordine. I blog invece non venivano considerati, in quanto sottovalutati dai governi. Con l’aumentare degli utenti, il blog divenne sede di discussioni non solo di attivisti, ma anche delle minoranze discriminate, come donne, omosessuali, beduini e copti. Potendosi esprimere liberamente, nel 2005 nacque il movimento Kifaya, in cui i blogger e partiti di opposizione rivendicavano i loro diritti, denunciavano abusi e violenze, pubblicando anche video. Probabilmente senza blog e in seguito social network la rivolta sarebbe stata più lenta, poiché dalla realtà virtuale tutti si sono uniti più velocemente per contestare il governo, senza restrizioni e censure. Ovviamente la rivolta non è nata dal blog, ma dalla miseria e la discriminazione in cui versano queste popolazioni, insieme a un’informazione oscurata, arresti e atroci torture per chi osava opporsi. I social network sono stati solo un mezzo per riuscire ad avere voce in capitolo nelle situazioni pubbliche, e per evidenziare le proteste già in corso, assumendo un ruolo di diffusione e coscienza. In questi Paesi infatti non esisteva libertà di parola, nei giornali, nei sindacati e nelle associazioni. I giornali era proprietà dello stato e i militari decidevano cosa pubblicare, gli intellettuali potevano diffondere le loro opere solo all’estero. I social media hanno avuto un ruolo fondamentale nell’organizzazione e divulgazione degli eventi, ma la richiesta di diritti e della libertà sono sempre esistiti, solo che i protagonisti non potevano farsi avanti perché soppressi dalla violenza dei regimi. Grazie ad internet possono far sentire la loro voce, su Facebbok, Twitter, blog e anche Youtube, con i quali hanno realizzato un complesso di comunicazione e organizzazione senza un capo, e più veloce ed efficace perché non ostacolato dalla censura e dalla repressione.