Spegnile tutte

Obbiettivo del gioco è spegnere tutte le luci sulla scacchiera. Facendo click su una di queste lucine si inverte il suo stato accesa/spenta e quello di tutte le luci ad essa adiacenti (in orizzontale, verticale).

In caso di difficoltà si può premere il pulsante Solve; attenzione però, c’è un prezzo da pagare per la soluzione.

I primi 4 livelli sono facili.

Buona fortuna!



Get Adobe Flash player

 

Intervista a Michele Emmer

Tratto da

M. Bertolani, PROFESSIONE MATEMATICO, Interviste scelte a 12 matematici italiani, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005

per gentile concessione dell’editore 

Michele Emmer

Nato a Milano nel 1945 e laureatosi in Matematica a Roma nel 1970, Michele Emmer è professore ordinario di istituzioni di matematica presso l’Università di Roma "La Sapienza". In precedenza ha insegnato alle università di Ferrara, L’Aquila, Trento, Sassari, Viterbo e Venezia. I suoi interessi di ricerca hanno riguardato le equazioni alle derivate parziali e le superfici minime. Da trent’anni si occupa di cinema, arte, musica e letteratura. Ha realizzato, in coproduzione con la RAI, oltre una ventina di film sulla matematica, tradotti in diverse lingue e distribuiti in molti paesi. Ha curato, a Napoli, la sezione matematica della "Città della Scienza" e, alla Biennale di Venezia del 1986, la sezione sullo spazio. Ha organizzato svariate mostre e conferenze su matematica e arte, e da una decina d’anni organizza, all’Università di Venezia, convegni sul tema "matematica e cultura". Autore di numerosi saggi, dal 1986 collabora con L’Unità, Le Scienze, Sapere, FMR, Diario e numerose altre riviste.

D.: Professor Emmer, cominci parlandoci un po’ di lei…
R.: Ho appena compiuto 59 anni e vivo a Roma ormai da cinquant’anni, sebbene sia molto legato anche a Venezia, dove ho vari amici e vado spesso. Quest’anno insegno alla facoltà di architettura dell’Università di Roma "La Sapienza", presso la quale tengo alcuni corsi di matematica.
D.: Come si è avvicinato alla matematica?
R.: Ho sempre voluto fare il matematico, e sono stato fortunato, perché ho realizzato il mio sogno. A casa mia non c’erano libri di matematica, perché in famiglia nessuno si occupava di questa materia: in particolare, mio padre Luciano era – ed è tuttora – regista di cinema. Io ho sempre avuto in mente l’idea di studiare matematica, ma non saprei spiegarne il motivo. Certo è che, come dicevo, ho avuto davvero molta fortuna nella mia vita, in quanto sono riuscito a svolgere il mestiere che desideravo. L’unico episodio legato alla matematica che ricordo di quando ero piccolo si riferisce a quando vidi il film Paperino nel regno della matemagica, ma all’epoca avevo già dodici anni.
D.: Oltre alla matematica, il suo grande interesse è il cinema…
R.: Sì, io sono nato e vissuto nel cinema, perché era il mondo di mio padre. Il cinema è sempre stato la mia passione, ha costituito una parte molto importante della mia vita. Da piccolo, ho fatto perfino l’attore in un film di mio padre. Il mio padrino è stato lo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano. Inoltre, ho conosciuto ben presto Marcello Mastroianni e molti altri grandi attori. Nonostante ciò, non avrei mai pensato che, dopo un certo numero di anni, mi sarei messo anch’io a girare dei film e che, per questa mia attività, avrei pure ricevuto omaggi in festival del cinema indipendente. Il cinema non è però il mio unico interesse. Mi piace molto anche leggere. Ho iniziato con la letteratura russa, perché mia madre è russa, e poi ho letto di tutto: in particolare, letteratura americana, francese e inglese. Da giovane, inoltre, praticavo parecchio sport: ho giocato a tennis per una decina d’anni, e ho partecipato a varie gare di nuoto assieme a mia sorella e a due miei cugini. Io, però, non ero bravo quanto loro, che eccellevano: mia sorella è arrivata, a suo tempo, seconda ai campionati italiani di nuoto nella specialità dorso; e mio cugino li ha vinti, nella specialità rana.
D.: Come è iniziata la sua carriera di matematico?
R.: Nel 1970, io svolsi la tesi su un teorema di Caccioppoli avendo per relatori due matematici, di cui poi uno in particolare – Umberto Mosco – è diventato famoso e ha vinto anche il premio Feltrinelli; l’altro, Andrea Schiaffino, adesso è professore a Roma "Tor Vergata", ma all’epoca era assistente a Ferrara. Casualmente quest’ultimo, pochi giorni dopo la mia laurea, ebbe un posto a Roma, per cui mi chiese se volessi andare a insegnare a Ferrara. All’inizio io fui abbastanza titubante, perché stavo per sposarmi: il trasferimento lo vedevo un po’ complicato, soprattutto per mia moglie. Alla fine, però, andai a Ferrara, capitando nel posto giusto al momento giusto. Infatti, negli anni Settanta, la matematica italiana delle superfici minime era all’avanguardia nel mondo. Il matematico più famoso in questo campo era Ennio De Giorgi, morto nel 1996, tre mesi dopo avermi concesso una lunga intervista televisiva a cui tengo moltissimo. A Ferrara, in particolare, c’era Mario Miranda, l’allievo prediletto di De Giorgi, e in quella città ebbi occasione di incontrare anche Enrico Giusti ed Enrico Bombieri, il quale nel ’76 vinse la medaglia Fields e in seguito si trasferì a Princeton, dove vive tuttora. Quindi io mi ritrovai a lavorare con un gruppo di matematici di altissimo livello. Nel 1973, mi capitò di risolvere un problema, aperto da due secoli, su "superfici minime e capillarità", ottenendo un risultato che successivamente si rivelò utile anche per le sue applicazioni nei voli spaziali della NASA. Il relativo lavoro, pubblicato in italiano su una rivista di Ferrara, fu presto citato a livello internazionale e mi permise di balzare a un certo livello di notorietà, e di diventare quasi immediatamente, dopo soli due o tre anni, assistente e professore incaricato all’Università di Trento. Successivamente, nel campo della ricerca mi trovai nella stessa situazione in cui si trova un regista quando, realizzato un primo film bellissimo, poi non sa cosa proporre nel secondo: di fatto, non mi capitò più di risolvere un altro problema di quella portata.
 

Intervista a Enrico Giusti

Tratto da
M. Bertolani, Professione matematico, SciBooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell’editore

Enrico Giusti

Nato a Firenze nel 1940 e laureatosi in Fisica a Roma nel 1963, Enrico Giusti è professore ordinario di analisi matematica presso l’Università di Firenze, dove, dal 1980 fino a qualche anno fa, ha insegnato tale disciplina, e adesso tiene un corso di storia delle matematiche. Dopo la laurea, ha svolto attività didattica e di ricerca all’Università della California, alla Stanford University e all’Australian National University di Canberra. I suoi interessi professionali hanno riguardato principalmente le equazioni alle derivate parziali, le superfici minime, la geometria differenziale e la storia della matematica, con qualche incursione nella filosofia della matematica. Attualmente si occupa soprattutto di promuovere e gestire "Il Giardino di Archimede", il primo museo completamente dedicato alla matematica e alle sue applicazioni. Vincitore, nel 1978, del premio Caccioppoli, ha pubblicato numerosi lavori scientifici collaborando con alcuni dei maggiori matematici italiani. Inoltre, è autore di vari testi didattici e divulgativi, l’ultimo dei quali, La matematica in cucina, è da poco uscito.
D.: Professor Giusti, inizi pure a parlarci di lei…
R.: Ho 64 anni, vivo a Firenze, e da circa tre anni a questa parte mi occupo essenzialmente del "Giardino di Archimede", un museo interattivo che ha lo scopo di avvicinare il pubblico alla matematica. Ho iniziato la mia carriera scientifica laureandomi, nel 1963, in fisica all’Università di Roma. Dopodiché, ho lavorato un po’ nel campo della fisica delle particelle elementari, ma senza troppo costrutto; e in seguito mi sono dedicato alle equazioni alle derivate parziali, al calcolo delle variazioni e, soprattutto, alle superfici minime. Questo fino agli anni Ottanta, o poco oltre, quando ho cominciato a lavorare nel campo della storia della matematica, di cui ancora adesso occasionalmente mi occupo. Inoltre, all’incirca dalla metà degli anni Novanta, mi dedico alla divulgazione in ambito museale attraverso il "Giardino di Archimede".
D.: Come si è avvicinato alla scienza? Da piccolo immaginava che un giorno sarebbe diventato un matematico?
R.: Direi che da piccolo non immaginavo proprio di diventare un matematico, e infatti all’università mi iscrissi al corso di laurea in fisica. L’idea di scegliere una facoltà di tipo scientifico piuttosto che una di tipo umanistico, invece, mi fu chiara sin dal ginnasio, e forse anche da prima. Ho sempre nutrito, sin da bambino, una passione – sebbene molto latente – per i giochi scientifici, soprattutto per quelli di carattere matematico. Inoltre, a scuola la matematica è sempre stata una delle mie materie preferite. Nella mia famiglia non c’erano, almeno nelle ultime 4-5 generazioni, persone che si interessassero di scienza: perciò in casa non vi erano nemmeno libri riguardanti la matematica o la fisica. Dunque, la "colpa" dell’essermi occupato di scienza è sicuramente tutta mia!
D.: Ha degli interessi, degli hobby, al di fuori della matematica? E pratica, o ha praticato, degli sport?
R.:Li ho praticati, ma come fanno un po’ tutti, cioè non in maniera maniacale. In passato ho giocato a pallone – non in una squadra vera, però! – e ho praticato lo sci, rimanendo sempre sulla pista dei "conigli". Adesso vado in palestra, sia pure solo ogni tanto. Per il resto, mi piace molto ascoltare la musica: un mio cruccio è proprio quello di non avere mai imparato a suonare uno strumento. In verità, vi ho provato alcune volte, senza però portare mai a termine l’impresa, come del resto è accaduto con il tedesco: ho cominciato a studiarlo forse una dozzina di volte, ma senza mai andare oltre i rudimenti, per cui sono appena capace di dire "buonasera". Mi piace un po’ tutta la buona musica, dalla leggera alla classica. Inoltre amo leggere, fin da piccolo, perché i primi libri li trovai nella biblioteca di famiglia. Cominciai, come tutti i bambini dei miei tempi, leggendo i romanzi di Salgari, il libro Cuore, che si studiava a scuola, e vari romanzi d’avventura; poi, crescendo, sono passato alla letteratura, e oggi leggo di tutto.
D.: Come è iniziata la sua carriera di matematico?
R.: Dopo essermi laureato in fisica a Roma, per una serie di circostanze fortuite venni a Firenze, dove per un paio di anni svolsi ricerca in fisica teorica presso l’INFN, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Come spesso accade, la vita è determinata da circostanze o da coincidenze all’apparenza del tutto insignificanti: nel mio caso, fu decisiva la presenza di un mio collega e compagno di studi all’università, Giuseppe Da Prato, che era un anno avanti a me e che, una volta laureatosi, era andato a Pisa ad insegnare matematica. Egli veniva a tenere lezioni di metodi matematici a Firenze, dove io seguivo un corso di specializzazione in fisica teorica. Parlando con lui, espressi la mia insoddisfazione per lo studio della fisica teorica, e così egli mi propose di raggiungerlo all’Università di Pisa, al corso di laurea in matematica. Andai dunque a Pisa per parlare con il professor Sergio Campanato, il quale mi offrì un posto di assistente; e due giorni dopo mi trasferii in quella città per occuparmi di analisi matematica, un campo in cui non avevo mai lavorato.
D.: Questa fu per lei una svolta sostanziale…
R.:Sì, perché all’epoca Pisa rappresentava un "vulcano" nel campo della matematica, in quanto vi erano non dico la totalità, ma senza dubbio la gran parte dei migliori matematici italiani. Tanto per renderne un’idea, basti dire che un matematico americano, quando veniva in Europa, passava sicuramente da Pisa, un posto dove circolavano un po’ tutte le idee più importanti, per cui se ne poteva sempre "intercettare" qualcuna. In quel periodo, lavoravano a Pisa Enrico Bombieri, Ennio De Giorgi, Guido Stampacchia e Aldo Andreotti, solo per citarne alcuni. Bombieri in seguito andò a Princeton, mentre gli altri, purtroppo, non sono più in vita. E, a mio avviso, non sono ancora emersi gli eredi "veri" dei vari De Giorgi, Stampacchia, Andreotti; non dico di Bombieri, perché egli è ancora vivo e attivo… Naturalmente si sono avuti nuovi bravi matematici, ma quella generazione di persone di altissimo livello internazionale non esiste più. Anche la generazione immediatamente successiva, cioè quella di cui facevamo parte io, Giuseppe Da Prato e altri, era formata da persone poi andate in giro per l’Italia: praticamente, quasi nessuna di esse è rimasta a Pisa. Alcuni, come Da Prato, vi tornarono dopo qualche tempo; ma quel periodo particolarmente roseo – anche dal punto di vista della mia gioventù – non c’è più: è ormai passato.
D.: La sua carriera, poi, come è proseguita?
R.:Il passo successivo a quello di assistente era, all’epoca, quello di professore ordinario, perchè allora non esistevano né i dottorati di ricerca né le qualifiche di ricercatore e di professore associato; di conseguenza, il cammino era in realtà molto più semplice rispetto ad oggi. Io divenni ordinario nel 1971, vincendo il concorso per la classe di analisi matematica. La comunicazione mi arrivò negli Stati Uniti, e precisamente in California, dove trascorsi un anno, prima a Berkeley e poi a Stanford. Una volta vinto il concorso di ordinario, mi recai a L’Aquila, città in cui rimasi tre anni. Poi andai a insegnare a Trento, dove trascorsi altri tre anni, e dove l’università si presentava come un ambiente molto vivace, per quanto fosse nuova e piccolissima: eravamo due soli ordinari di matematica! In seguito tornai a Pisa per due anni, e nel 1980 venni qui all’Università di Firenze, dove, fino ad alcuni anni fa, ho insegnato analisi matematica, mentre ora insegno storia delle matematiche.

57. La ricerca della materia oscura, prove sperimentali e cenni teorici

Sono molto affascinato dalla volta celeste, con ciò che mostra e ciò che invece ancora nasconde. Il cielo non è altro che la testimonianza presente del mistero in cui l’uomo è immerso. La materia oscura ha una cruciale importanza sul destino dell’Universo, eppure rimane sconosciuta, per ora, alle nostre osservazioni. Analizzare la storia di questa ricerca significa, in parte, percorrere gli ultimi passi dell’umanità verso il cuore del mondo.

 

Intervista a Giorgio Israel

Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell’editore

Giorgio Israel

Nato nel 1945 a Roma, dove si è laureato in Matematica nel 1968, Giorgio Israel è professore ordinario di matematiche complementari all’Università di Roma "La Sapienza", dove ha percorso tutta la propria carriera e ora tiene due corsi: teoria dei giochi e modellistica matematica. Agli inizi si è occupato di questioni di algebra commutativa, di geometria algebrica e di teoria dei campi, e in seguito di matematica applicata alla biologia e all’economia. Dagli anni Ottanta i suoi interessi vertono esclusivamente sulla storia della matematica e della scienza, con particolare riguardo alla matematizzazione delle scienze biologiche e di quelle socioeconomiche, e all’opera del matematico italiano Vito Volterra. Ha fornito notevoli contributi alla divulgazione e alla didattica della matematica e della scienza scrivendo numerosi articoli ed alcuni saggi pubblicati in vari paesi.
D.: Professor Israel, inizi a raccontarci un po’ di lei…
R.: Ho 59 anni, e con mia moglie ed i miei tre figli vivo a Roma, dove mi sono laureato nel ’68 discutendo una tesi di algebra, con relatore Claudio Procesi. Sin dall’inizio della mia carriera insegno alla "Sapienza", e mi occupo di storia e filosofia della scienza: in particolare, di storia della matematica.
D.: Come si è avvicinato alla scienza e alla matematica?
R.: Nella mia famiglia non c’erano matematici, né avvertivo una particolare spinta verso la matematica, sebbene in casa vi fossero dei libri che trattavano questa disciplina. Quando mi iscrissi all’università, infatti, scelsi il corso di laurea in fisica, sotto l’influenza di mio padre, che era un biologo e voleva che studiassi biofisica. Però ben presto cambiai corso, optando per matematica. Evidentemente, almeno in quella fase della mia vita, ero portato verso tematiche un po’ più astratte, forse perché molto interessato agli aspetti di filosofia della scienza. Poi, però, capii che bisogna innanzitutto studiare la materia della quale, eventualmente, in un secondo momento si possono anche approfondire la storia o la filosofia: come prima cosa, deve essere noto l’oggetto di cui ci si vuole occupare.
D.: Ha altri interessi al di fuori della matematica?
R.: Da piccolo, a scuola, avevo una passione molto forte per la letteratura e per la filosofia. Tuttora ho una propensione per quest’ultima, oltre, naturalmente a quella per la storia, considerato che essa costituisce – in relazione alla scienza, beninteso – il mio campo di ricerca. Non nascondo che ciò possa portarmi ad un certo eclettismo di interessi: per esempio, negli ultimi anni mi sono dedicato allo studio della Kabbalah ebraica, delle relazioni tra il misticismo e la formazione del pensiero scientifico moderno, e di argomenti a questi collegati. Tale eclettismo, che talvolta rischia di comportare "viaggi" in troppi continenti diversi, ha il vantaggio di stimolare, fra soggetti molto lontani fra loro, relazioni e connessioni che possono rivelarsi fonti di idee nuove. Naturalmente, mi piace molto leggere: il romanzo classico è la mia lettura prediletta. Da piccolo, inoltre, suonavo il violino, e coltivavo abbastanza intensamente la musica. Adesso, invece, non ho più tempo per dedicarmi a questo strumento – cosa che talvolta rimpiango – in quanto esso richiede almeno un paio di ore al giorno di esercizio solo per mantenere un livello decoroso, non per migliorare. Un altro hobby che pratico con piacere è fare passeggiate in montagna.
D.: Cosa sono le "matematiche complementari", il corso da lei attualmente tenuto qui all’Università di Roma?
R.: La denominazione "matematiche complementari" fu creata da Federigo Enriques, il quale voleva introdurre una materia dedicata alla formazione degli insegnanti, cioè alla trasmissione della matematica superiore ai futuri docenti impegnati nella scuola secondaria. Non si tratta dell’unico insegnamento di questo genere, perché esiste anche quello chiamato "matematiche elementari da un punto di vista superiore", che ha un obiettivo non molto dissimile. Però, l’etichetta "matematiche complementari" non esprime bene quel che io insegno: la storia della matematica e della scienza. Nell’università italiana c’è ancora questa usanza un po’ ridicola della titolarità della cattedra. Quando venni chiamato a insegnare, la cattedra di storia della matematica era già occupata da un collega: due docenti di questa stessa materia parvero troppi, e allora mi inquadrarono con un diverso titolo; mentre, in realtà, tengo due corsi di matematica, di cui uno di teoria dei giochi, e uno di modellistica matematica. Credo, comunque, che sia giusto così: un docente non dovrebbe insegnare necessariamente la materia corrispondente al proprio terreno di ricerca. Nelle università americane si è "professori di matematica" e non, ad esempio, "di algebra superiore", o "di matematiche complementari", come invece succede da noi. Inoltre, in matematica è importante possedere una certa elasticità di atteggiamento: spesso, coloro che sono capaci di transitare da un settore all’altro portano nuove idee, a differenza di chi resta inchiodato in eterno allo stesso argomento.
D.: Qual è stato il suo percorso di ricerca in matematica?
R.: Iniziai svolgendo le mie ricerche nel campo dell’algebra, e in particolare nell’algebra commutativa e nella geometria algebrica. Dopo qualche anno, ritenendo tali argomenti eccessivamente astratti per me, decisi di passare all’analisi applicata alla modellistica. E così fu per vari anni: finché ho fatto il matematico in forma attiva, ho lavorato nel campo della modellistica matematica applicata alla biologia e all’economia. L’entrare a contatto con i modelli dell’equilibrio economico generale mi condusse a una serie di riflessioni circa le loro carenze, spostando dunque il mio interesse verso le questioni storico-epistemologiche, che già studiavo da qualche anno. Così abbandonai definitivamente la ricerca matematica, e da allora mi sono dedicato completamente a questi ultimi argomenti. In un certo senso, proprio l’impressione abbastanza negativa che ebbi delle ricerche nel campo della modellizzazione delle scienze non fisiche mi indusse ad abbandonarle; tuttavia, le competenze acquisite in quel periodo mi permettono di tenere corsi anche di carattere puramente matematico.
D.: Come mai è così scettico nei confronti dell’applicazione della matematica alla biologia o all’economia?
R.: In linea generale, sono giunto a conclusioni alquanto negative circa l’utilità della matematica al di fuori della fisica, cioè del mondo dei fenomeni inanimati. Con questo non intendo dire che non esistano applicazioni importanti della matematica nel campo della biologia o dell’economia, ma ritengo che siano quelle legate più direttamente a forme di quantificazione molto immediata: per esempio, di carattere numerico o statistico. Credo infatti che sia illusorio sperare di ottenere un tipo di modellizzazione analoga a quella che si compie nel campo delle scienze fisiche, ovvero capace di conseguire leggi generali di sviluppo, di evoluzione. Il problema di fondo è che in biologia – e, ancor più nelle scienze sociali e in quelle economiche – non si fornisce un concetto di legge analogo a quello dato in fisica. E ciò senza considerare che pure nella stessa fisica il concetto di legge è in crisi! Tuttavia, indiscutibilmente, la fisica classica e la fisica moderna hanno ottenuto enormi successi basandosi sul principio secondo cui il mondo è retto da leggi universali. Ancora oggi, quando in fisica si va alla ricerca dell’unificazione delle forze fondamentali, di fatto si persegue un’immagine del mondo basata, appunto, sull’idea che esso sia retto da leggi universali esprimibili in forma matematica. In economia, invece, non esiste un’idea di legge, e quindi l’uso della matematica in senso forte non funziona: se guardassimo alla portata dei risultati ottenuti nel campo della "matematizzazione" dell’economia, la situazione ci apparirebbe abbastanza deprimente. Dopo essermi occupato di quest’argomento, soprattutto nell’ambito della modellizzazione matematica della teoria dell’equilibrio economico generale – che rappresenta il centro concettuale della teoria microeconomica – ho raggiunto la conclusione che i risultati ottenuti in questo settore sono davvero mediocri. Assieme all’economista Bruna Ingrao, ho scritto un libro proprio al riguardo, intitolato La mano invisibile, pubblicato in Italia da Laterza e negli Stati Uniti da MIT Press.
D.: La matematizzazione dell’economia può portare chi la coltiva ad arricchirsi, come talvolta i giornali lasciano intendere?
R.: Io non credo ci siano persone che diventano ricche applicando la matematica all’economia; e, a mio avviso, nessun matematico serio potrebbe pensarla diversamente in proposito. Non ritengo sia possibile portare un esempio concreto – escludendo le leggende metropolitane – di una persona che, usando la matematica in economia, si sia arricchita. Naturalmente, spesso sui giornali si leggono articoli che parlano di "formule rivoluzionarie", ma poi tutto resta a livello di discorsi generici: infatti, se tali informazioni corrispondessero alla realtà, tutti i matematici o gli economisti- matematici avrebbero ville e panfili, il che è evidentemente falso. Tornando alle questioni teoriche, dico che, mentre sono scettico nei confronti dell’economia matematica teorica, trovo invece più utile e difendibile – almeno, entro certi limiti – l’econometria: un approccio in termini statistici, probabilistici, che effettua stime e previsioni sulla base di dati empirici, senza ricorrere a leggi generali, che, come dicevo, in economia non esistono. Come descrivere, del resto, il comportamento di un soggetto economico? Quale "forza" lo muove? Come formulare la legge del comportamento individuale? Si tratta di sfide che mai nessuno è riuscito a vincere. Nell’economia teorica vi sono costruzioni di carattere concettuale e astratto estremamente complesse dal punto di vista matematico, le quali, pur avendo permesso a molte persone di vincere il premio Nobel, tuttavia non possiedono la minima rilevanza empirica. D’altra parte, la matematica "va di moda": oggi non si conferiscono più premi Nobel in economia se non ad economisti matematici, mentre anni fa essi venivano assegnati anche ad economisti di tendenza storica. A mio avviso, alla base di questo fenomeno di "moda", vi è il fatto che usare la matematica sembra essere più rigoroso e più "scientifico"; ma si tratta soltanto di un pregiudizio, talvolta un po’ puerile.
D.: L’economia, dunque, non si matematizzerà quanto la fisica…
R.: Non credo proprio. Il problema è che la matematica è troppo rigida per descrivere questioni complesse come quelle poste dai comportamenti soggettivi umani: del resto, come si potrebbero rappresentare matematicamente le preferenze – cioè i "gusti" – di un individuo? Vi sono due possibilità. La prima è rappresentare le preferenze del soggetto mediante una funzione classica, di tipo deterministico; e allora risulterebbe evidente il difetto di una simile rappresentazione, perché nessuno si azzarderebbe a dire che il comportamento umano è di tipo deterministico, come è invece quello di un oggetto fisico macroscopico. Per di più, le preferenze soggettive si evolvono nel tempo, mutano in funzione dei rapporti con gli altri, per cui sarebbe impossibile pensare di poterle fissare una volta per tutte. D’altra parte, se volessimo descrivere il comportamento soggettivo in funzione dei numerosi parametri esterni che lo condizionano, questi ultimi risulterebbero così tanti che non riusciremmo neppure ad enumerarli. La seconda possibilità è allora quella di rappresentare i gusti o il comportamento umano in modo probabilistico. Questa strada, tuttavia, a mio parere non è perseguibile, e al riguardo concordo con il celebre matematico René Thom, il quale giudicava assolutamente ridicola la rappresentazione delle scelte soggettive in termini di 6. Giorgio Israel eventi casuali. In effetti, non vi è nulla di più lontano dalla scelta soggettiva individuale – la quale richiama immediatamente il fatto che il soggetto decide secondo fini – del procedere casuale. Anzi, il procedere casuale risulta, appunto, esattamente l’opposto dell’atto decisionale. Quindi, il problema è che non possediamo una matematica adeguata a descrivere una situazione così complessa; opinione, questa, espressa anche da uno dei più celebri matematici del secolo scorso, l’ungherese John von Neumann. Egli, pur credendo nella possibilità di una matematizzazione del comportamento umano, riteneva che sarebbe occorso molto tempo per conseguirla: se erano dovuti trascorrere secoli e secoli per passare dalle prime osservazioni astronomiche di Tycho Brahe alla fisica moderna con tutta la sua raffinatezza, senza dubbio la matematizzazione di fenomeni enormemente più complessi – come quelli umani, appunto – avrebbe richiesto periodi ancora più lunghi. A mio avviso, chi crede che l’economia matematica – caratterizzata da poco più di un secolo di storia, e da risultati certo non brillanti – possa conseguire in breve tempo risultati paragonabili a quelli raggiunti dalla fisica, "vende soltanto fumo". Oltretutto, l’indirizzo assunto negli ultimi decenni dalla matematizzazione dell’economia è decisamente involutivo, come risulta in maniera chiara dalla storia recente della teoria dei giochi, la materia su cui attualmente tengo un corso.
D.: Che cos’è la teoria dei giochi?
R.: La teoria dei giochi è una disciplina relativamente nuova, di cui si sono occupati sia economisti sia matematici, ed è nata studiando i giochi di società, come per esempio gli scacchi. Uno dei problemi classici della teoria dei giochi consisteva nel determinare quale fosse il comportamento ottimale da seguire in una partita a scacchi. Un altro problema era il verificare se il gioco degli scacchi fosse determinato oppure no: in altri termini, se il risultato di una partita potesse essere predeterminato nel caso in cui i due giocatori seguissero un comportamento ottimale. Naturalmente, occorre definire in modo preciso cosa s’intende per "comportamento ottimale". Precisazione, questa, non banale: infatti uno, se gioca a filetto, constata immediatamente che si tratta di un gioco determinato, nel senso che la sua soluzione è la patta: in termini espliciti, se i due giocano senza commettere errori, la partita finisce senza vincitori. È stato dimostrato che anche gli scacchi sono un gioco determinato, sebbene non se ne conosca la soluzione: cioè, se vinca il bianco, il nero o si abbia una patta. Da qui nacque l’idea, sviluppata soprattutto da von Neumann intorno agli anni Trenta, di generalizzare il concetto di gioco a ogni tipo di interazione sociale, a ogni forma di competizione, intendendo con quest’ultima sia il gioco in senso stretto, sia un confronto bellico, economico, tra imprenditori e sindacati, e così via. Insomma, secondo von Neumann, purché fosse intervenuta un’idea di conflitto fra interessi contrapposti, sarebbe stato possibile ricorrere a una rappresentazione matematica di carattere generale; e in tal modo egli sperava di creare una nuova matematica, più confacente alla comprensione e alla risoluzione dei problemi economico-sociali. Naturalmente, si trattava di un’idea molto brillante. Però, l’indirizzo dato da von Neumann andava nella direzione di uno studio dei conflitti sotto la forma di una rappresentazione cooperativa. Secondo lui, cioè, generalmente i soggetti in competizione si uniscono in gruppi: in un conflitto politico "gentile", le persone tendono a raggrupparsi in partiti; in un conflitto sociale, a raggrupparsi in sindacati e in associazioni di datori di lavoro; e così via. In effetti, difficilmente si potrebbe pensare a forme di competizione che coinvolgano un gran numero di soggetti, ciascuno dei quali possa essere considerato individualmente, come un’entità che persegue i propri fini in modo del tutto indipendente: quasi sempre ogni persona agisce in accordo almeno parziale con altre, o, quantomeno, facendo compromessi con altre. Quindi, von Neumann sviluppò la teoria dei giochi in direzione di quello che egli stesso chiamò "approccio cooperativo", il quale comportava, dal punto di vista matematico, una problematica abbastanza complessa, e, tuttavia, assai originale.
D.: E come mai si è avuta un’involuzione nella teoria dei giochi?
R.:Per il fatto che il tanto celebrato indirizzo impresso alla teoria dei giochi dal matematico americano John Nash – su cui Sylvia Nasar scrisse la biografia che poi ispirò il celebre film su questo personaggio, A beautiful mind – va nella direzione opposta all’indirizzo dato da von Neumann. Nash considerava il gioco come un processo che coinvolge n soggetti, ognuno dei quali prende le proprie decisioni secondo criteri "razionali" e in modo completamente autonomo. La soluzione data da Nash a questo tipo di problema – nota come "equilibrio di Nash" – era quella in cui ciascun giocatore fornisce la risposta migliore possibile alla migliore possibile strategia di ogni avversario; in altri termini, ciascun giocatore, analizzate per conto suo tutte le possibili strategie che l’altro giocatore potrebbe opporgli, individua come propria quella corrispondente alla miglior risposta possibile. La Nasar racconta che quando Nash si recò da von Neumann – considerato, all’epoca, uno dei maggiori matematici del mondo – per esporgli la propria teoria, questi gli disse che si trattava di un risultato banale in quanto, dal punto di vista matematico, non consisteva altro che in un "teorema di punto fisso". Tuttavia, la teoria dei giochi prese la direzione preconizzata da Nash, che, pur essendo un matematico puro, ricevette il Nobel per l’economia grazie al proprio teorema, non particolarmente rilevante dal punto di vista matematico. Quale fu il motivo di ciò? Occorre tenere conto del fatto che il cosiddetto mainstream della teoria economica è rappresentato dalla teoria dell’equilibrio economico generale, dall’approccio microeconomico – ossia in termini di agenti individuali assolutamente autonomi, e per questo è detto anche dell’"individualismo metodologico" – che ha radici nella tradizione della scuola neoclassica di Léon Walras e Vilfredo Pareto. Per gli economisti, dunque, la formulazione di Nash fu come il trionfo dell’approccio neoclassico dal punto di vista formale. A mio avviso, invece, si tratta di un approccio sterile, e questa è un’opinione condivisa da molti, sebbene nell’economia teorica il predominio del mainstream resti intatto e venga anzi rafforzato dal risultato di Nash, appunto, da cui discese la dimostrazione dell’esistenza dell’equilibrio economico generale. L’indirizzo che aveva in mente von Neumann era, secondo me, più interessante. Ciò non toglie che oggi la teoria dei giochi abbia delle applicazioni di qualche utilità in economia: ad esempio, essa permette di ragionare in modo originale su problematiche come quelle del duopolio, dell’oligopolio e del monopolio. Inoltre, in campo militare, essa è servita per teorizzare l’efficacia del cosiddetto "equilibrio del terrore", ovvero la politica del riarmo nucleare illimitato a scopo di deterrenza. Possiamo dire che, in linea generale, la teoria dei giochi consente di analizzare in termini euristici e formali alcuni problemi finora esaminati in modo puramente qualitativo; tuttavia, la sua utilità diretta risulta alquanto limitata.

Tris, sfida il computer

Sfida il computer al gioco del Tris. Si comincia a turno. Il computer inizialmente giocherà senza impegnarsi molto, dovresti vincerlo facilmente. Ma ogni 5 partite che vinci si impegna sempre di più.
Fai clic con il mouse sullo schema per cominciare.

Il gioco originale è copyright di Stephen Ostermiller, rilasciato sotto licenza GNU General Public License e modificato da Nicola Vitale per matematicamente.it.

Intervista a Piergiorgio Odifreddi

Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa, 2005

Per gentile concessione dell’editore

Piergiorgio Odifreddi

Nato a Cuneo nel 1950 e laureatosi in matematica a Torino nel 1973, Piergiorgio Odifreddi è professore ordinario di logica matematica all’Università di Torino e, dal 1985, visiting professor presso l’Università di Cornell, negli Stati Uniti. Specializzatosi all’Università dell’Illinois negli anni 1978-79, ed a quella della California, in seguito ha insegnato presso le università di Novosibirsk, Melbourne, Pechino e Nanchino. Il suo lavoro scientifico riguarda la logica matematica e, in particolare, la teoria della calcolabilità, che studia potenzialità e limitazioni dei calcolatori. Attivissimo divulgatore, è autore di una dozzina di libri e collabora con La Repubblica, L’Espresso e Le Scienze. Ha inoltre partecipato a numerose trasmissioni radiofoniche e televisive. Il suo lavoro divulgativo esplora le connessioni fra la matematica e le scienze umane, dalla letteratura alla pittura, alla musica e agli scacchi. Nel 1998 ha vinto il premio Galileo e nel 2002 il premio Peano, entrambi per la divulgazione scientifica.
D.: Professor Odifreddi, ci racconti un po’ di lei…
R.: Io sono del ’50, quindi un matematico dovrebbe riuscire a ricavare facilmente la mia età: 54 anni. Vivo vicino Torino, ai piedi della Basilica di Superga, dove si trovano le tombe dei reali di Casa Savoia e dove anch’io spero di venire un giorno sepolto. Sono un matematico, in particolare un logico matematico: perciò mi occupo di logica.
D.: Come si è avvicinato alla matematica? Da piccolo immaginava di diventare un matematico?
R.:Sicuramente non lo immaginavo, e nemmeno credo fosse una mia aspirazione. Ho però una teoria sull’argomento, che in realtànon è mia. È quella delle "intelligenze multiple" di Howard Gardner, secondo cui esistono vari tipi di intelligenza: linguistica, musicale, logico-matematica, interpersonale, eccetera. L’aspetto interessante di questa teoria è che le intelligenze più precoci nel- l’emergere risultano essere le musicali; mentre quella matematica, secondo Gardner, è la più tarda, ed emerge all’età di 13-14 anni. Ciò significa che pure coloro i quali in futuro diventeranno matematici di professione non necessariamente ne sviluppano la predisposizione prima di quest’età: per cui le elementari e le medie possono essere frequentate "in apnea", pur diventando poi dei matematici. Se è così, allora occorre ripensare tutto l’insegnamento, perlomeno nell’ambito della matematica, cioè cercare di adattarlo a bambini e ad adolescenti che in realtà non hanno ancora sviluppato – se mai la svilupperanno – l’attitudine per la materia. In effetti, per quel che mi riguarda, non rammento episodi particolari avvenuti prima dei 13-14 anni. Ricordo che alle medie mi piaceva fare i conti; ma quella non è matematica: è la visione ingenua che la gente ha della matematica, secondo cui essa coincide, appunto, con il "fare i conti". In seguito frequentai l’istituto per geometri, perché odiavo il latino. Lì veniva insegnata molta matematica, sebbene, all’epoca, non ancora l’analisi: quest’ultima iniziai a studiarla per conto mio intorno al quarto anno, nel ’68. Quindi, evidentemente, la materia mi interessava già, sebbene forse l’approfondissi per motivi pratici, in quanto allora volevo diventare ingegnere. D’altronde, non avrei potuto fare altro, poiché, fino alla riforma del ’69, a chi si diplomava geometra risultavano precluse tutte le altre facoltà.
D.: Quindi ha potuto studiare matematica grazie alla riforma…
R.: Sì, nel ’69 vi fu questa riforma che liberalizzò l’accesso all’università e che cambiò, fra l’altro, il sistema di votazione degli esami di scuola superiore da decimi a sessantesimi. Appena diplomato scelsi, nonostante questo, il corso di laurea in ingegneria. Ma durante l’estate, mentre aspettavo di iscrivermi all’università, su una bancarella trovai per caso un libro di Bertrand Russell, credo la sua famosa Introduzione alla filosofia matematica: lo lessi e ne rimasi affascinato; perciò, se sono diventato matematico, la colpa – o il merito, non so – è di Bertrand Russell! Si trattava di un libro filosofico, nel senso che parlava di logica, di fondamenti della matematica; e non è un caso, forse, che io poi sia giunto ad occuparmi proprio di questo campo. Provenendo da un istituto per geometri, risultava un po’ strano il fatto che avessi scelto questa branca della matematica, più filosofica che applicativa: forse era una reazione, non lo so. All’università non seguii corsi di logica, ma diedi due esami sull’argomento preparandomi autonomamente: per il primo, con il manuale di logica di William Quine, un filosofo dell’Università di Harvard autore di tantissime opere; per il secondo, con un libro – molto più "tosto" – di Joseph Schoenfeld. Svolsi la mia tesi di laurea, che proposi io al mio professore, sugli aspetti metamatematici della matematica: in pratica, sui teoremi di Gödel e su come questi si applicassero a parti della matematica che non fossero l’aritmetica. Quelli di Gödel, infatti, sono teoremi di incompletezza della matematica, e affermano che ci sono delle verità non dimostrabili. Nella versione originale, essi si applicano all’aritmetica, cioè ai numeri interi; ma a me interessava sapere cosa succedesse considerando altri tipi di numeri: negativi, razionali, reali. La cosa interessante, a questo proposito, è che, quando si arriva ai numeri reali, non si ha più incompletezza.
D.: Cos’è la logica matematica, la materia di cui lei si occupa?
R.: La matematica è divisa in tante parti. Molti non considerano la logica come parte della matematica, per i suoi trascorsi filosofici. La logica nacque ai tempi dei Greci, però poi nell’Ottocento diventò "logica matematica", qualunque cosa ciò voglia dire. Sappiamo cos’è la logica: lo studio del ragionamento. Ma bisogna vedere poi a cosa uno riferisce l’aggettivo: se al primo termine, "studio", si tratta dello "studio matematico del ragionamento", cioè dei modi di ragionare usando i mezzi della matematica; se al secondo termine, "ragionamento", si tratta dello "studio del ragionamento matematico", che restringe il campo di studio del ragionamento in generale a quello solo matematico; se ad entrambi i termini, abbiamo lo "studio matematico del ragionamento matematico", ovvero ciò che oggi la logica matematica è diventata. Essa, cioè, studia i ragionamenti che si compiono in matematica e lo fa usando i mezzi della matematica stessa. Perciò, a tutto diritto – oltre che a dovere! – costituisce una parte della matematica; anzi, è un’area che sta a metà tra matematica, informatica e filosofia, tanto è vero che la si insegna in tutti e tre i corsi di laurea. La logica si muove dunque in tre direzioni diverse: quella umanistica, attraverso la filosofia; quella scientifica, attraverso la matematica; e quella tecnologica, attraverso l’informatica. E, come impariamo a scuola, muovendosi in tre direzioni ortogonali si riesce a coprire tutto lo spazio!
D.: Ci diceva che si è occupato di logica fin dalla tesi di laurea…
R.: Sì, fra l’altro il mio professore di logica matematica, Flavio Previale, quando gli consegnai la tesi mi disse: «Questa non è una tesi: è un libro!». Ed era vero, perché, mentre preparavo la tesi – un lavoro di ricerca di vario genere, dal bibliografico allo speculativo – già avevo in mente di scrivere il libro che poi divenne la mia opera principale. Ci vollero però quattordici anni perché vedesse la luce il primo volume del libro, e ben ventiquattro per il secondo. Il titolo era Classical Recursion Theory, "Teoria della ricorsività classica". Una volta laureato, mi interessai soprattutto di un aspetto particolare della logica matematica, e cioè di una delle sue tante sottobranche: la teoria delle ricorsività, che si basa sulla "ricorsione", la quale ha a che fare con quelli che in informatica si chiamano loop, cicli. Il nome odierno di tale sot 7. Piergiorgio Odifreddi tobranca, in grado di rifletterne meglio la natura, è teoria della calcolabilità, perché essa studia le potenzialità e le limitazioni dei computer: ciò che questi possono fare ma anche, e soprattutto, ciò che non possono fare, dal momento che non riescono a calcolare la maggior parte delle funzioni. Questa disciplina, fra l’altro, classifica le funzioni matematiche in base al loro grado di difficoltà di calcolo: al più basso, per esempio, vi sono le funzioni calcolabili, per le quali esiste un programma che consente di trovarne il valore, e che un matematico considera banali. Quindi, la correlazione tra logica e informatica è forte: non a caso, per una quindicina d’anni, dall’83 al 2000, presso l’Università di Torino ho insegnato agli informatici la teoria della calcolabilità, che rappresenta un po’ il fondamento teorico dell’informatica. L’informatica, del resto, nacque così: con un articolo del 1936 in cui Alan Turing, per risolvere un particolare problema legato ai teoremi di Gödel, introdusse un modello astratto di macchina calcolatrice, chiamata ancor oggi "macchina di Turing", riuscendo in questo modo a fornire una definizione precisa di cosa volesse dire "essere calcolabile". Si trattava di un modello teorico, perché i computer arrivarono dopo, realizzati soprattutto da von Neumann; ma segnò, di fatto, la nascita dell’informatica.
D.: Lei poi ha lavorato molto all’estero…
R.: Io non solo ho lavorato parecchio all’estero, ma ho anche viaggiato molto, tenendo sempre distinti il "sacro" e il "profano", dove – tanto per essere chiari – il primo è il viaggiare e il secondo è il lavorare. Iniziai a recarmi all’estero nel ’78. Infatti mi laureai nel ’73; poi, superato un concorso, diventai assistente; e nel ’78, grazie a una borsa di studio per l’estero offerta dal CNR, partii per gli Stati Uniti, dove rimasi due anni. All’epoca in Italia non esisteva ancora il dottorato: così negli Stati Uniti frequentai per due anni il Ph.D., ma senza iscrivermi, perché in realtà io volevo già allora scrivere il mio libro di logica, che, come ho detto, era cominciato con la tesi di laurea. Dal ’74 mi dedicai a questo libro; per cui quando sono andato, il primo anno, all’Università dell’Illinois a Urbana-Champagne, vicino Chicago, e, il secondo anno, all’UCLA di Los Angeles, avevo già un manoscritto di centinaia di pagine, completo di tutti e tre i volumi dell’opera. Di questi tre, poi ne uscirono due, mentre il terzo l’ho in seguito abbandonato, perché mi sono stufato di occuparmi di tali argomenti. Dunque, quando mi recai negli Stati Uniti, volevo vedere che tipi di attività vi si svolgessero nel campo della logica, anche al fine di "turare i buchi" del mio libro. Infatti una persona, quando costruisce qualcosa da sé, si pone poi molte domande a cui non sono ancora state date risposte: in parte cerca di rispondere personalmente, ma la cosa più ovvia è… chiedere in giro! Andai sia a Chicago sia a Los Angeles, perché sulla costa est e sulla costa ovest si studiavano argomenti diversi, in quanto si trattava di due scuole differenti. Poi tornai in Italia e, a distanza di un anno, nell’82, mi recai per lo stesso motivo in Unione Sovietica, dove rimasi per altri due anni come visiting professor: cioè insegnavo, mentre in America ero, praticamente, un post-doc, come si direbbe oggi. All’epoca, per quanto riguarda la logica e, in particolare, la teoria della ricorsività di cui io mi occupavo, l’Unione Sovietica non aveva alcun contatto con l’Occidente, per cui non era chiaro che lavoro svolgesse in quel campo. Andai dunque a vedere di persona: difatti nel mio libro sono riportati molti risultati ottenuti dai russi, anche negli anni precedenti. Poi, nel corso della mia vita, sono stato per un anno, sia pure a varie riprese, in Sud America; per un anno, in un’università della Cina, e per un altro in India; infine, per un semestre, in Australia. Quindi ho girato parecchio!
D.: A un certo punto ha iniziato a insegnare negli Stati Uniti…
R.: Sì. Dopo essere tornato in Italia dalla Russia, nell’85 andai di nuovo negli Stati Uniti, questa volta come professore: insegnai per un anno alla Cornell University, nello stato di New York. Da allora cominciai a "fare avanti e indietro": alla Cornell insegnai vari anni, durante i quali, quando tornavo in Italia, insegnavo all’Università di Torino. Ho condotto questa vita negli ultimi 18-20 anni, e ancora adesso insegno negli Stati Uniti – dove peraltro tengo sempre un corso estivo – ma ci vado sempre meno, anche perché ormai mi interesso di molte altre cose. L’ultima volta in cui mi sono recato in America risale allo scorso anno, e vi sono rimasto per un semestre. Negli Stati Uniti ho tenuto vari corsi universitari, non solo legati alla logica o alla ricorsività; anzi, ho insegnato di tutto, perché lì ti mettono a insegnare ciò di cui hanno bisogno: quindi, se occorre una persona che tenga un corso di analisi, il fatto di essere logico non impedisce loro di assegnarti insegnamenti diversi. Per esempio, a me è capitato di insegnare analisi, calcolo delle probabilità, statistica, matematica finita e programmazione logica. In Italia, invece, c’è la famosa "cattedra": io dal ’99 sono ordinario di logica matematica. Però, anche qui da noi, si può variare abbastanza: infatti, ora insegno fondamenti di matematica e pure logica intuizionista; ma ho tenuto molti altri corsi a informatica ed a matematica.
D.: Quali sono, secondo lei, le migliori università americane?
R.:Dipende dalle specializzazioni. Negli Stati Uniti c’è addirittura una classifica delle università, fatta in base a quello che gli altri dicono di esse, perché nessuno può votare per il proprio ateneo. Esistono università in cui è molto forte, per esempio, la logica matematica, e altre dove lo è l’analisi, e altre ancora che risultano particolarmente valide nel campo della statistica. Quindi, non è che vi sia un’università migliore di tutte le altre. Certo, ci sono quelle grandi e famose – tipo Harvard, Berkeley, Princeton – dove "non ti va mai male", neppure nel caso in cui non risultino le prime nel tuo settore. E poi ci sono quelle più specializzate, magari con un dipartimento che cresce intorno a uno o a due professori; dimodoché, una realtà non grandissima diventa, in quel particolare campo, il top del mondo. In Unione sovietica la situazione era un po’ diversa, per il carattere statale delle università, che invece in America sono, in molti casi, private. Però a Novosibirsk, dove mi trovavo io, c’era la "Città dell’Accademia", un po’ la "Mecca" degli scienziati, equivalente, negli Stati Uniti, all’Institute for Advanced Studies di Princeton.
D.:C’è una differenza che la colpisce particolarmente, tra il sistema universitario americano e quello italiano ?
R.: Rispetto agli Stati Uniti, da noi il sistema universitario è molto sclerotizzato: l’università italiana sta diventando un "liceo superiore". Quando io racconto agli americani come in Italia si svolgono, per esempio, le sessioni d’esame, la loro reazione è a metà strada tra l’incredulità e il "piegato in due" dal ridere: l’idea che uno studente frequenti un corso e possa sostenerne l’esame dopo 8-10 anni, pretendendo inoltre di presentarsi con quello stesso programma, o il fatto che vi siano 7-8 appelli l’anno per un esame, negli Stati Uniti sono considerate cose fuori dal mondo. In America, sai già all’inizio dell’anno accademico quale sarà il giorno in cui sosterrai l’esame. Se, per ben giustificati motivi, non potrai darlo in quella data, dovrai presentarti non l’anno successivo, bensì tre giorni prima o tre giorni dopo, pena la perdita dell’anno stesso. Non solo. Infatti, settimanalmente occorre superare prove, svolgere compiti, e, durante il corso, della durata di tre mesi, ci sono due esami preliminari: dopo un mese, il primo, e dopo un altro il secondo; dopodiché, c’è l’esame finale. Se in America vi fosse il sistema presente qui da noi, ogni mese dovrei assistere ad esami su argomenti che insegnavo dieci anni fa: sarebbe una cosa completamente assurda, del tutto priva di senso! I nostri studenti, fra l’altro, credono che disporre di un appello in più sia un diritto, senza rendersi conto che questo comportamento, invece, indica proprio la mentalità con cui non si dovrebbe studiare: non ha senso prepararsi sugli appunti presi da qualcun’altro, né sostenere un esame dopo otto mesi, un anno o due anni.

59. Intervista a Piergiorgio Odifreddi

Gabriella Zammillo ha incontrato Odifreddi a Cavallino, il 15 giugno 2007, in occasione di un incontro con gli studenti dell’ISUFI e poi a Lecce, il 28 settembre 2007, in occasione dell’evento Notte dei Ricercatori. Non è facile restare insensibili alla sua impertinenza e … simpatia.

 

Intervista a Alfio Quarteroni

Tratto da

M. Bertolani, Professione matematico, Scibooks edizioni, Pisa 2005

Per gentile concessione dell’editore

Alfio Quarteroni

Nato nel 1952 a Ripalta Cremasca, in provincia di Cremona, e laureatosi in Matematica all’Università di Pavia nel 1975, Alfio Quarteroni è un esperto di fama mondiale in analisi numerica e matematica computazionale ed applicata. Dopo la laurea è stato ricercatore presso il CNR fino al 1986, quando ha vinto la cattedra di analisi numerica all’Università di Pavia. Nel 1989 è stato chiamato al Politecnico di Milano, dove tuttora insegna e lavora. Nel 1990 è andato a insegnare per due anni negli Stati Uniti, come full professor, presso l’Università del Minnesota, a Minneapolis. Dal 1992 al 1997 è stato direttore scientifico del centro di ricerca CRS4, fondato da Carlo Rubbia, e dal 1998 è direttore della cattedra di modellistica e calcolo scientifico del Politecnico Federale di Losanna, in Svizzera. Il suo gruppo di ricerca lavora alla risoluzione di problemi nei campi più vari: aeronautico, medico, ambientale, microelettronico, energetico. Ha condotto le simulazioni numeriche per la barca da competizione Alinghi, contribuendo alla sua conquista della Coppa America di vela nel 2003. Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, dal 2004 è membro dell’Accademia dei Lincei. È autore di una dozzina di libri e di oltre 150 pubblicazioni scientifiche.
D.: Professor Quarteroni, ci parli un po’ di lei. Quanti anni ha? Dove vive? Di cosa si occupa?
R.: Ho 52 anni. Quella su dove vivo è una domanda più difficile, perché in questo momento della mia vita vivo in tre posti diversi: a Lodi, in quanto mia moglie è medico, e lavora ed abita là insieme alla nostra seconda figlia, di 15 anni, che frequenta la quinta ginnasio; poi lavoro, in genere, due giorni la settimana presso il Politecnico di Milano e tre presso quello di Losanna. Quindi trascorro gran parte della settimana in Svizzera. All’inizio della carriera mi sono occupato, per alcuni anni, di questioni teoriche dell’analisi numerica; ma poi, negli ultimi 15 anni, ho sposato un po’ più decisamente il settore delle applicazioni in vari ambiti: perciò, credo di potermi considerare un matematico applicato.
D.: Come si è avvicinato alla matematica?
R.: È stato un avvicinamento non premeditato. Io provengo da una famiglia di contadini, e i miei genitori non erano istruiti nel senso moderno del termine: credo non avessero neanche la licenza elementare. Dai miei non ho ricevuto alcuna indicazione precisa in merito al tipo di studi da affrontare. Mio fratello, un po’ più grande di me, leggeva molti libri di narrativa, ma in casa non c’erano testi di argomento scientifico. Si prevedeva che dopo la terza media andassi a lavorare in campagna, come all’epoca – la metà degli anni Sessanta – facevano tutti, in quelle zone rurali. Quando riferii ciò al presidente della commissione d’esame di licenza media, questi mi disse: «No, no, tu devi continuare!». E quando allora posi la questione a mio padre, assolutamente non preparato a una richiesta del genere, egli mi rispose: «Diventa ragioniere, così potrai lavorare in banca». Perciò ho scelto ragioneria in maniera acritica, senza ragioni specifiche. A scuola mi piaceva molto l’economia, e attraverso i miei professori avevo già ricevuto qualche offerta di lavoro in banca. Ma all’esame di maturità, ancora una volta, qualcuno pensò bene di scoraggiare la mia intenzione, consigliandomi di continuare a studiare. A quel punto, la scelta fu piuttosto azzardata. Avevo istintivamente capito che mi piaceva la matematica, senza possedere alcun elemento concreto di riscontro in proposito, poiché a ragioneria non si studiava questa materia. Mi piaceva, inoltre, l’idea di poter usare degli strumenti più quantitativi per l’economia. D’altra parte, consideravo il frequentare l’università un privilegio, per cui alla fine decisi di scegliere una facoltà che mi impegnasse molto e che mi mettesse un po’ alla prova. Così mi iscrissi a matematica, in una maniera tutto sommato non troppo razionale, nonostante mentalmente io lo sia abbastanza.
D.: Quali sono i suoi interessi al di fuori della scienza?
R.: Mi piace molto il calcio, che ho praticato da giovane; oggi sono quello che si potrebbe chiamare un "tifoso medio italiano": tengo per la mia squadra del cuore, nota per il fatto che non vince quasi mai, ma non ne dirò il nome! Mi sono innamorato di questa squadra quando ero piccolo, ed all’epoca vinceva sempre; oggi, invece, sono un tifoso un po’ frustrato e assai temprato dagli eventi. A parte questo mio interesse ludico, mi piace molto leggere e, viaggiando spesso in treno, ho abbastanza tempo per farlo. Leggo sia romanzi sia libri di svago: per esempio, mi piacciono i libri di storia, di narrativa e i gialli. Inoltre, cerco di stare molto con la mia famiglia, quando il lavoro me lo permette: questa, dunque, è l’altra mia attività importante e dominante.
D.: Lei di cosa si occupa nell’ambito della matematica?
R.: Ho iniziato svolgendo una tesi di analisi numerica; oggi cerco di applicare questa materia al settore della matematica riguardante le equazioni alle derivate parziali. Spesso, nelle applicazioni, i fenomeni che si cerca di descrivere matematicamente vengono rappresentati attraverso questo tipo di equazioni: ad esempio, le leggi di conservazione della fisica coinvolgono variazioni nello spazio e nel tempo di certe quantità – le velocità, le densità, le temperature, le concentrazioni, eccetera – le quali conducono ad equazioni contenenti derivate parziali, rarissimamente risolvibili "a mano", con carta e penna. Abbastanza di frequente si può dimostrare che questi problemi ammettono soluzioni, ma quasi mai si riesce a caratterizzarle con formule esplicite: l’analisi numerica, appunto, permette, fra le altre cose, di proporre metodi e algoritmi in grado di fornire una risoluzione approssimata. Essa è pertanto uno strumento importante con cui affrontare problemi reali e dare delle risposte che risultino significative non solo qualitativamente ma anche quantitativamente. La risoluzione effettiva si compie tipicamente ricorrendo a calcolatori, spesso di elevata potenza. Posso dunque dire che faccio calcolo scientifico, finalizzato alla risoluzione di problemi matematici che "modellano" fenomeni della vita reale. In sintesi, le tre parole chiave utili a descrivere la mia attività sono modellistica matematica, calcolo scientifico e analisi numerica. Le relative "applicazioni" ne costituiscono un po’ la motivazione sovrastante.
D.: Il suo, dunque, è un settore moderno e interdisciplinare…
R.: Sì, quello di cui mi occupo io è un settore di collegamento tra tante discipline. La mia matrice culturale è l’analisi numerica, tuttavia oggi cerco di inserire questa disciplina in un contesto più ampio: in pratica, faccio modellistica matematica e numerica. Al fine di descrivere un certo fenomeno, lo si traduce in equazioni: in tal modo si ottiene un "modello matematico" della realtà. Queste equazioni non sono quasi mai risolvibili in forma esplicita e allora, per avere le risposte di cui si necessita, si ricorre all’analisi numerica, agli algoritmi, alla risoluzione al computer, all’interpretazione dei risultati, eccetera. Tutto questo processo va sotto il nome di modellistica matematica e numerica, e fa uso del calcolo scientifico per risolvere il problema. Quindi l’analisi numerica è un ingrediente importante della mia attività, ma non l’unico.
D.: Quali sono, entrando più nel dettaglio, gli altri "ingredienti" della modellistica matematica e numerica? 9. Alfio Quarteroni R: A monte, la fisica matematica, perché uno deve rappresentare dei fenomeni fisici attraverso equazioni: per esempio, la fluidodinamica, l’elettromagnetismo, la meccanica dei solidi. A valle, invece, c’è l’analisi, perché quando ci troviamo ad affrontare le equazioni, ovviamente, dobbiamo cercare di capire se per esse esistano soluzioni e in quali regimi: magari ci sono dei parametri fisici che governano il problema, come ad esempio il numero di Reynolds, che dipende, in particolare, dalla viscosità di un fluido. L’analisi matematica permette di compiere un’analisi qualitativa delle soluzioni, ovvero di sapere in che modo esse dipendano dai dati, quanto siano stabili, se vi sia unicità di soluzione o se invece vi siano soluzioni multiple, e così via. Poi entra in gioco l’analisi numerica, ovvero con metodi numerici si traducono le equazioni che descrivono questi problemi in algoritmi. Infine c’è la risoluzione di tali problemi – diventati ormai, con l’analisi numerica, di dimensione finita – con i calcolatori. Dunque, la modellistica matematica e numerica utilizza linguaggi di programmazione e anche tanta grafica evoluta, che consente di rappresentare soluzioni tridimensionali assai complesse tramite immagini capaci di comunicare informazioni sintetiche ma significative a coloro i quali sono interessati alla soluzione effettiva del problema: un fisico, un biologo, un ingegnere, un medico o qualsiasi altra persona lo abbia posto.
D.: Per lavorare nel suo campo occorre essere matematici?
R.: Gli strumenti che si usano sono di tipo matematico. Alla base c’è un modello matematico, quindi una descrizione matematica di una realtà fisica. Le equazioni che si devono risolvere sono piuttosto complesse: le equazioni alle derivate parziali, infatti, vengono insegnate all’università, ma non sempre in maniera approfondita. Il tipo di equazioni che tante volte affrontiamo non sono mai neppure state viste in un corso universitario di matematica. Quindi chi vuol lavorare in questo campo è di preferenza un matematico, ma nel mio team ho anche tanti ingegneri e tanti fisici. Certo, più difficilmente potrebbe trattarsi, ad esempio, di un biologo o di un sociologo. D’altra parte, quando si deve affrontare un problema sufficientemente grande e complesso, è inevitabile che occorrano tanti "attori" diversi, compresi i medici. Però un individuo, se vuole dominare il settore nella sua globalità, è meglio che sia un matematico. Ciò non vuol dire che debba avere necessariamente una laurea in matematica: se ce l’ha è meglio, ma non è indispensabile; può possedere una laurea in ingegneria o in fisica ed aver poi compiuto un ulteriore corso di studi, specializzandosi nella direzione della matematica applicata.
D.: Quali sono le sedi migliori in cui studiare la modellistica matematica e numerica?
R.: Ci sono varie sedi in cui si pratica la modellistica in senso lato. Direi che tutte le sedi italiane più importanti hanno corsi in grado di formare: ad esempio Roma, Milano, Bologna, Padova, Torino, Pisa, Firenze, Napoli. Se uno pensa specificamente all’analisi numerica, allora per questo tipo di problemi la scelta non si presenta amplissima. Ovviamente io possiedo un bias di base, perché ho studiato a Pavia, la quale forse ancora oggi è la sede italiana che dedica maggiore attenzione agli aspetti dell’analisi numerica riguardanti le equazioni alle derivate parziali. A Pavia lavorano ricercatori di primissimo ordine a livello mondiale: uno su tutti, Franco Brezzi. Oggi, però, esistono anche altre sedi, al di fuori della matematica, dove si può fare modellistica: per esempio, presso il Politecnico di Milano e quello di Torino sono stati istituiti dei corsi di laurea in ingegneria matematica dove si presta moltissima attenzione a questi aspetti, e addirittura si va anche al di là della formazione che si può ricevere all’interno di un ambiente matematico tradizionale. In questi politecnici si cerca di coniugare le conoscenze matematiche – anche quelle teoriche – per l’analisi numerica e per le equazioni alle derivate parziali con le applicazioni che derivano dall’ingegneria. Il piano di studi degli studenti di ingegneria matematica comprende tanti corsi di matematica pura e applicata e molti corsi di ingegneria fondamentale. I due corsi di laurea in ingegneria matematica presenti a Milano e a Torino rappresentano esperienze nuove, perché attivi da appena 4-5 anni. Essi si assomigliano molto, e sono gli unici di questo genere in Italia. Ovviamente, dal momento che insegno al Politecnico di Milano, mi consenta di dire che, per prepararsi a svolgere il lavoro di cui mi occupo io in questo momento, la scelta migliore in assoluto è rappresentata proprio dal corso di ingegneria matematica di Milano.
D.: Corso che ho letto essere stato creato da lei…
R.: Non ci sono paternità assolute, però penso di aver dato insieme al professor Sandro Salsa, direttore del dipartimento, un significativo impulso nel concepire, all’inizio, la struttura del corso. Ci siamo impegnati moltissimo nel cercare di renderlo una realtà, ma è chiaro che questi processi vanno mediati da tanti organismi a livello di dipartimento, di facoltà, eccetera. Il numero di iscritti a questo corso di ingegneria matematica oscilla dai 75 agli 80 ogni anno, rispetto al centinaio di iscritti complessivi dei corsi di laurea in matematica delle due università milanesi. Gli studenti del Politecnico, che vanta una grandissima tradizione, provengono da sempre un po’ da tutta Italia; quindi sono veramente motivati, perché venire a studiare a Milano è molto impegnativo sia dal punto di vista economico sia per i disagi che si riscontrano in una città così grande e frenetica. Inoltre, dai test d’ingresso effettuati dallo stesso Politecnico di Milano, si rileva con una certa regolarità che gli studenti che poi scelgono ingegneria matematica sono tra i – se non addirittura i – migliori in assoluto, come media di base, tra gli studenti che si iscrivono alle altre facoltà o agli altri corsi di laurea del Politecnico.
D.: Chi si laurea in ingegneria matematica, in pratica è più matematico o più ingegnere?
R.: Il corso di ingegneria matematica fa parte della facoltà di ingegneria, per cui lo studente che ne esce alla fine è, formalmente, ingegnere. Questo aspetto si rivela molto importante, perché permette di superare una delle riserve psicologiche che tanti validi studenti hanno sempre avuto: chi è molto bravo vorrebbe fare matematica, però magari il papà, temendo che l’unico sbocco professionale di questo corso di laurea sia l’insegnamento, lo scoraggia e gli consiglia di iscriversi a ingegneria. Chi si laurea in ingegneria matematica si sente davvero un elemento di collegamento fra i due mondi – la matematica e l’ingegneria – e riceve effettivamente una formazione integrata: è un ingegnere in grado di utilizzare bene tanto quanto un matematico gli strumenti della matematica necessari per la sua professione. Oppure, se vuole, è un matematico; ma con in più, rispetto a un matematico applicato che si sia formato in un corso di laurea in matematica appartenente alla facoltà di scienze, determinate conoscenze di ingegneria di base, utilissime quando dovrà entrare in azienda, fare il ricercatore e trattare problemi reali, o interfacciarsi con persone che possiedono un background di ingegneria, di fisica, o, comunque, più applicato. Di fronte a uno strumento nuovo – per esempio un reattore, un miscelatore, un dispositivo elettronico – ci si può porre essenzialmente due tipi di domande: «Come funziona?» e «Perché funziona?». La prima, riguardante anche l’uso che posso fare dello strumento, riflette il tipico punto di vista dell’ingegnere: devo utilizzare uno strumento e quindi voglio capirne bene la struttura funzionale, per impiegarlo nella maniera più idonea per trarne beneficio. Il fisico e il matematico, invece, si pongono più a monte, nel senso che vogliono capire quali princìpi primi fanno funzionare lo strumento. Noi, nella scelta degli argomenti del piano di studi, abbiamo cercato di favorire il suddetto tipo di integrazione culturale, in modo tale che lo studente possa capire bene perché certe strutture funzionano e come egli possa intervenire per farle funzionare ancora meglio.
D.: Lei, ora, che materie insegna? E dove?
R.: Dal punto di vista didattico, qui in Italia sono ordinario di analisi numerica dal 1986. Al Politecnico di Milano tengo un corso base di analisi numerica e uno più avanzato, che si chiama "modellistica numerica per problemi differenziali". Al Politecnico di Losanna pure tengo vari corsi: analisi numerica, per gli ingegneri di varie estrazioni; un corso specialistico legato alla modellistica matematica, alla facoltà di scienze della vita; un altro corso specialistico – sempre di modellistica – per gli ingegneri matematici e per gli ingegneri fisici. A Losanna sono inoltre direttore della cattedra di modellistica e calcolo scientifico. In Svizzera esistono due sole università federali: il Politecnico di Zurigo e quello di Losanna, strutture gemelle che sono anche le più avanzate e internazionali del paese. Per darle un’idea, più del 70 percento dei professori sono stranieri, una percentuale assolutamente non confrontabile con le nostre: il numero di professori stranieri al Politecnico di Milano si conta sulle dita di una mano. Gli studenti di dottorato là sono per i due terzi stranieri; quelli del primo livello sono per più di un terzo stranieri. La struttura è molto piramidale, e i professori sono pochissimi: il professore ordinario, che è "direttore della cattedra", ha la possibilità di crearsi il proprio team, costituito da un numero variabile di persone; attualmente, io nella mia cattedra ne ho venti.
D.: Quali sono state le tappe principali della sua carriera?
R.: Mi sono laureato nel 1975 a Pavia e, dopo pochi mesi, nella stessa città sono diventato ricercatore al Consiglio Nazionale delle Ricerche, presso l’Istituto di Analisi Numerica, che era famoso in tutto il mondo e che esiste tuttora. Il direttore era all’epoca il professor Enrico Magenes, uno dei matematici italiani più noti, in Italia e non solo. Il mio relatore di tesi era il già citato professor Franco Brezzi, l’odierno direttore dell’Istituto, oggi chiamato IMATI. Vi sono rimasto come ricercatore per dieci anni, fino all’86, quando ho vinto un concorso per professore ordinario. Ho insegnato per tre anni analisi matematica e analisi numerica all’Università Cattolica di Brescia, dove sono stato direttore del dipartimento di matematica. In seguito, nell’89, sono giunto al Politecnico di Milano e, quasi in contemporanea, mi hanno offerto una cattedra negli Stati Uniti, presso l’Università del Minnesota a Minneapolis, dove esiste una scuola di matematica molto importante. Lì sono stato un paio d’anni, dal ’90 al ’92; ma siccome mia moglie ed io avevamo due figlie piccole e preferivamo che studiassero in Italia, poi sono rientrato. Nel frattempo, il professor Carlo Rubbia aveva da poco fondato a Cagliari il CRS4, un centro di ricerca avanzata, con l’idea di chiamare a lavorarvi anche persone provenienti dall’estero. Mi ha chiesto di dirigere uno dei suoi quattro gruppi, quello di matematica applicata e simulazione; perciò, tornato dagli Stati Uniti, ho ripreso la mia cattedra al Politecnico di Milano e ho cominciato a "pendolare" tra Milano e Cagliari. Dopo tre anni sono diventato direttore scientifico di quel centro, dove ho lavorato fino al ’97.

61. Lo scaffale dei libri

Ian Stewart, Com’è bella la matematica. Lettere a una giovane amica, Bollati Boringheri, 2006. – Michael F. Atiyah, Siamo tutti matematici, Di Renzo Editore, 2007. – Amir D. Aczel, Il Taccuino Segreto di Cartesio, Storia di un genio del Seicento e della misteriosa formula matematica che non volle rivelare, Mondatori, 2006. – Bruno D’Amore, Matematica dappertutto. Percorsi matematici inusuali e curiosi, Pitagora Editrice, Bologna, 2007. – Roberto Lucchetti, Passione per Trilli. Alcune idee dalla matematica, Springer, 2007. – Rodolfo Clerico e Piero Fabbri, Rudi simmetrie, CS libri, 2007.

 

Generalizzazione dell’equazione logistica

L’equazione logistica può descrivere lo sviluppo di una popolazione biologica (batteri, animali ecc.)che cresce fino al raggiungimento di un valore costante nel tempo. Tale crescita sarà provocata da una fonte energetica da cui tale popolazione si nutre. E’ lecito supporre che sia una singola fonte energetica rinnovabile erogata in modo costante nel tempo in un ambiente privo di materia inquinante verso una popolazione omogenea di una singola specie.

La talpa

La talpa

Un mucchio di terra è stato depositato a fianco a un muro, formando metà triangolo equilatero di 5 metri di base e 10 metri di lato.

Una talpa si ostina a esplorare il mucchio di terra, seguendo la seguente strategia.

Parte da A. Procede lungo il muro fino a raggiungere B. Si porta in C che è il punto medio del lato obliquo del triangolo. Procede parallelamente al terreno e arriva in D. Si porta in E punto medio di AC. Parallelamente al terreno arriva in F. Si porta in G punto medio di AE. Prosegue l’esplorazione seguendo lo stesso metodo fino a raggiungere A.

Quanti metri percorre complessivamente la talpa?

Soluzione

 

soluzione

La soluzione di Pietro Paolo Mazzarà

La soluzione di Patrizia Landi

 

La matematica degli indovinelli

In queste poche pagine cercherò di mettere in evidenza l’importanza della conoscenza di semplici concetti matematici nella risoluzione degli indovinelli. Poiché i quesiti sono posti sottoforma di gioco, di ricreazione, il lettore non deve pensare che ciò rappresenti una banalizzazione della matematica, anzi, come dice Gianfranco Bo nel suo ottimo sito web, “la matematica ricreativa è vera matematica, ha un’antichissima tradizione e il suo ruolo è fondamentalmente educativo”. Non solo, “la matematica ricreativa è basata su una vastissima collezione di problemi che hanno lo straordinario potere di generare entusiasmo, attenzione e curiosità nei confronti della matematica. E di sviluppare le abilità matematiche che sono in noi.

La macchina dei divisori

Una macchina costituita da un numero infinito di ruote dentate collegate da una catena a una ruota motrice. Le ruote hanno un numero di denti progressivamente maggiore: ad ogni giro della prima ruota, la seconda fa mezzo giro, la terza 1/3 di giro e così via. Ogni ruota ha un dente metallico che a ogni giro completo fa accendere una lampadina, rappresentata con uno smile. Per avviare la macchina, inserire il numero di cui si vogliono conoscere i divisori, premere il tasto azzurro e la macchina parte.