L’interferenza della luce

Nel caso delle once acustiche, abbiamo parlato del fenomeno dell’interferenza, e abbiamo visto che ci sono dei casi in cui l’interferenza è costruttiva, e altri in cui è distruttiva.

Nel primo caso le onde che adiamo a sovrapporre sono tali per cui i rispettivi punti di massimo e di minimo corrispondono, nel secondo caso, invece, in presenza del minimo di un’onda vi è il massimo dell’altra.

In generale, sia che le onde diano un’interferenza costruttiva, sia che diano un’interferenza distruttiva, si dice che le sorgenti che le emettono sono coerenti quando la differenza di fase delle onde emesse rimane costante nel tempo.

Vediamo ora alcune condizioni che permettono di stabilire quando l’interferenza tra due onde, le cui sorgenti sono coerenti, sia un’interferenza costruttiva.

Consideriamo due onde  $φ_1$  e  $φ_2$  che si intersecano in uno stesso punto, situato a distanze diverse dalle rispettive sorgenti. Le onde in questione, però, giungono nel punto P sempre in fase, cioè ogni volta che il massimo di $φ_1$  si trova nel punto P, si intersecherà sempre con il massimo di  $φ_2$, e ogni volta che vi sarà il minimo dell’una, vi sarà anche quello dell’altra.

interferenza-costruttiva
Interferenza costruttiva.

 

In questo caso, la differenza delle distanze dalle sorgenti al punto P è costante; si può affermare che se la differenza delle distanze delle sorgenti dal punto P è uguale ad un multiplo intero della lunghezza d’onda delle due onde identiche emesse da queste, allora la sovrapposizione delle onde nel punto P da luogo ad un’interferenza costruttiva.

$d(S_1 , P) – d(S_2 , P) = kλ $

Come possiamo immaginare, nel caso in cui in un punto Q le onde si intersechino in modo che, in presenza del massimo di una si sovrappone il minimo dell’altra, si avrà interferenza distruttiva.

 

Interferenza-distruttiva
Interferenza distruttiva.

 

Possiamo, quindi, affermare che le sorgenti identiche che emettono onde identiche ψ1 e ψ2 danno interferenza distruttiva se la differenza delle loro distanze dal punto Q è uguale ad un multiplo intero della lunghezza d’onda sommato alla metà della lunghezza d’onda stessa:

$d(S_1 , Q) – d(S_2 , Q) = kλ + λ/2$

Notiamo che, in entrambi i casi, la sostante k può anche assumere valori negativi, nel caso in cui la distanza della prima sorgente dal punto considerato sia minore della seconda.

 

Esercizio

Consideriamo due sorgenti luminose che emettono onde uguali di lunghezza d’onda pari a  $8,0 * 10^(-7)m$; supponiamo che le onde emesse si incontrino in un punto P distante, dalle rispettive sorgenti, rispettivamente  $d_1=120 * 10^(-7)m$  e  $d_2=364 * 10^(-7)m$.  In base alle informazioni fornite, l’interferenza tra le due onde sarà costruttiva o distruttiva?

Per rispondere alla domanda, operiamo sulle rispettive distanze delle due sorgenti rispetto al punto di incontro. Calcolando la loro differenza, e relazionandola alla lunghezza d’onda delle onde emesse, possiamo capire che tipo di interferenza si creerà tra le due onde:

$d_1 – d_2 = 120 * 10^(-7) – 364 * 10^(-7) = -244 * 10^(-7) m $

Dato che questo valore non è un multiplo intero della lunghezza d’onda, possiamo concludere che l’interferenza non sarà costruttiva.

Vediamo ora se riusciamo a trovare un intero relativo k che soddisfa la seguente equazione:

$d_1 – d_2 = (k + 1/2)λ $

Ricaviamo k:

$k = frac(d_1 – d_2)(λ) – 1/2 $

Sostituiamo i valori numerici:

$k = frac(-244 * 10^(-7))(8,0 * 10^(-7)) – 1/2 = 30$

Concludiamo che interferenza tra le onde è di tipo distruttivo.

 

L’interferenza della luce

L’interferenza nel caso delle onde luminose si può osservare con un semplice esperimento.

Si considera una parete liscia che presenta due fenditure parallele. L’esperimento consiste nel proiettare un fascio di luce monocromatica sulla parete, ed osservarne i fenomeni che si creano su una parete retrostante; si esaminano due casi: quando una delle due fenditure è chiusa e quando entrambe siano aperte.

Nel primo caso si proietta la luce sulla parete chiudendo una delle due fenditure; si osserva sulla parete retrostante una striscia di luce continua di forma rettangolare.

Se, invece, lasciamo aperte entrambe le fenditure, sulla parete retrostante osserviamo, nella superficie del rettangolo precedente, strisce di luce intervallate da strisce di ombra.

 

interferenza

 

Possiamo interpretare questo fenomeno dicendo che nelle zone luminose si ha interferenza costruttiva tra le onde provenienti dalle due fenditure; nelle zone scure, invece, si ha interferenza distruttiva.

L’individuazione di questo comportamento da parte della luce ha permesso l’affermazione della teoria ondulatoria su quella corpuscolare; infatti il fenomeno dell’interferenza è un fenomeno tipico delle onde.

 

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L’esperimento di Young

L’affermarsi della teoria ondulatoria della luce sulla teoria corpuscolare fu dovuta in particolare modo all’esperimento condotto dal fisico inglese Thomas Young, grazie al quale fu evidenziato il fenomeno dell’interferenza da parte delle onde luminose; questo esperimento, inoltre, permise anche di determinare la lunghezza d’onda della luce.

L’esperimento consisteva nell’utilizzare una sorgente luminosa monocromatica, che proiettava un fascio di luce all’interno di una fenditura; la luce ottenuta veniva poi convogliata su una parete liscia, che presentava altre due fenditure; passando attraverso di esse, la luce veniva proiettata su uno schermo liscio retrostante.

La luce proiettata non appariva come una striscia luminosa continua, ma presentava l’alternarsi si frange luminose e frange scure, dette frange di interferenza; in particolare, le strisce luminose centrali erano più brillanti di quelle esterne.

L’effetto ottenuto può essere spiegato prendendo in considerazione il fenomeno dell’interferenza luminosa.

Quando la luce passa attraverso la doppia fenditura, il fascio di luce iniziale si divide in due fasci, ognuno dei quali passerà da una delle due fenditure. Ovviamente, i nuovi fasci creati sono uguali tra loro e a quello di partenza. Propagandosi dello spazio, e venendo in contatto tra loro, essi si incontrano, e danno luogo all’interferenza luminosa.

Il fisico Young, quindi, spiego il suo esperimento affermando che le frange luminose fossero dovute all’interferenza costruttiva di onde luminose, mentre le frange scure all’interferenza distruttiva.

 

esperimento-di-young

 

Questo esperimento mostra che la luce non si propaga in linea retta, ma le onde che fuoriescono dalle due fenditure sono onde circolari (o cilindriche, in base alla forma della fenditura).

Questo comportamento è spiegabile considerando un’altra caratteristica della luce, cioè la diffrazione, e il fatto che essa subisca una deviazione della traiettoria nel caso in cui si trovi di fronte ad un ostacolo.

Nel caso delle fenditure, infatti, possiamo considerare che esse agiscano come delle nuove sorgenti luminose, che generano i nuovi fasci di luce, che si diffondono così in tutte le direzioni, dando luogo ad onde sferiche.

Inoltre, possiamo spiegare come mai la striscia luminosa centrale sia più luminosa delle altre: essa, infatti, è equidistante dalle due fenditure, e quindi riceve le onde luminose in fase, in quanto i massimi delle due onde, che sono uguali, partono dalle fenditure nello stesso momento.

 

esperimento-di-young

 

La prima fascia scura laterale, invece, riceve l’onda di una fenditura in modo perpendicolare, e l’onda proveniente dall’altra con un angolo di deviazione rispetto alla normale; di conseguenza, le distanze delle onde ricevute dalle rispettive fenditure è diversa, e esse differiscono per un fattore λ/2.

In questo caso, quindi, la sovrapposizione delle onde da luogo ad un’interferenza distruttiva, che fa si che non arrivi luce e punto considerato, che appare quindi come una striscia oscurata.

 

esperimento-di-young

 

La terza banda luminosa, invece, riceve le onde emesse da entrambe le fenditure con un angolo di deviazione rispetto alla normale;  questa volta. però, la distanza tra il punto di ricezione e le rispettive sorgenti differisce per un multiplo di λ.

In questo caso, quindi, la sovrapposizione delle onde dal luogo ad un’interferenza costruttiva, cosicché la zona considerata presenta una fascia luminosa, che risulta, però, meno brillante di quella centrale.

 

esperimento-di-young

L’esperimento di Young, come abbiamo detto, permise anche di determinare la lunghezza d’onda delle onde luminose. Tale grandezza dipende da tre distanze: la distanza tra le due fenditure dalle quali passano i raggi luminosi (d), la distanza che separa due frange luminose sullo schermo retrostante (y), e la distanza che separa lo schermo da cui partono i due raggi di luce da quello su cui si proiettano le frange (l); la relazione che permette di determinare la lunghezza d’onda è la seguente:

$λ = frac(yd)(l)$

 

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La diffrazione della luce

Come sappiamo, una delle proprietà della luce è quella di propagarsi in linea retta; tuttavia, vi sono delle condizioni che fanno si che questa proprietà venga a cadere.

Quando un fascio di luce è proiettato all’interno di una fenditura, se lo spazio è molto largo, sullo schermo di proiezione appare una striscia di luce ben definita; il confine tra di essa e la zona d’ombra è netto e ben marcato.

Mano a mano, però, che si restringe lo spazio della fenditura, ed essa diventa sempre più sottile, la luce proiettata sullo schermo si allarga sempre di più, invadendo lo spazio della zona d’ombra; si può notare, infatti, che ai lati della fascia luminosa centrale si formano altre frange luminose che si alternano a piccole zone di ombra.

Questo fenomeno viene definito diffrazione della luce, ed è un fenomeno propio delle onde; il fascio di luce originario viene quindi allargato sullo schermo di proiezione, e l’effetto delle bande luminose è dovuto a fenomeni di interferenza caratterizzati da una serie di massimi di intensità luminosa decrescente.

In particolare, la banda centrale, quella più luminosa, si ha in prossimità di quello che si definisce massimo principale, mentre le altre bande laterali sono originate dai massimi secondari.

La sua scoperta di questo fenomeno determinò un punto a favore della teoria ondulatoria su quella corpuscolare.

Esaminiamo il caso della diffrazione nel caso in cui il fascio di luce passi attraverso una singola fenditura di lunghezza a.

Possiamo considerare la fenditura in questione come se essa fosse formata da tante fenditure più piccole, ognuna delle quali può essere considerata la sorgente di onde luminose sferiche.

La fascia centrale luminosa che si forma sullo schermo è generata da un raggio di luce che si proietta in direzione perpendicolare al piano.

Notiamo, infatti, che tutti i punti che partono dalla fenditura hanno, all’incirca, la stessa distanza dal punto di contatto; di conseguenza,  le onde generate da essi giungono sullo schermo in fase, dando luogo a interferenza costruttiva.

 

diffrazione

 

Consideriamo ora un punto di contatto più distante, che darà luogo ad una frangia scura caratterizzata da un minimo. In questo caso, consideriamo due raggi di luce originati in due punti che distano tra loro di a/2.

 

diffrazione

 

Anche in questo caso le onde sono in fase, e arrivano nel punto P dando luogo ad un’interferenza distruttiva; la differenza dei cammini che le onde devono percorrere è data da:

$ ∆L = a/2 * sinθ $

Sappiamo che l’interferenza distruttiva si ha quando la differenza delle lunghezze delle distanze tra le sorgenti e il punto di contatto deve essere uguale alla lunghezza d’onda λ più un fattore λ/2; di conseguenza, per trovare la posizione del primo minimo imponiamo:

$  a/2 * sinθ = λ/2        to         a sinθ = λ$

In generale, possiamo ottenere le posizioni dei minimi successivi con la seguente formula, dove m assume tutti i numeri naturali da 1 in poi:

$a sinθ = mλ    ,    m = 1, 2, 3, ….$

 

Il reticolo di diffrazione

Nel caso in cui le fenditure praticate sullo schermo siano molto sottili e spaziate in maniera regolare si parla di reticolo di diffrazione; in particolare, la distanza tre due fenditure successive si dice passo reticolare.

 

reticolo-di-diffrazione

 

I raggi che escono dalle fenditure con gli stessi angoli di inclinazione sono in fase tra di loro; tali angoli danno luogo a frange chiare di interferenza, e possono essere individuati mediante la seguente formula:

$sin (α_k) = k *λ/d    ,    k = 1, 2, 3, ….$

dove d indica la distanza reticolare, e k è un numero naturale.

L’angolo di inclinazione, quindi, varia in base alla lunghezza d’onda delle onde che stiamo considerando; di conseguenza, per onde diverse, i massimi di luminosità avranno angoli diversi.

Questa proprietà può essere sfruttata per utilizzare i reticoli di diffrazione allo stesso modo dei prismi; infatti anche nei reticoli si ha una separazione dei colori della luce, in quanto ogni colore è caratterizzato a una lunghezza d’onda diversa, e presenta quindi angoli luminosi diversi.

 

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Lo spettro della luce

La luce che colpisce un oggetto è responsabile del colore con il quale ci appare l’oggetto stesso. Infatti, quando gli oggetti sono investiti da un raggio di luce bianca, essi sono in grado di assorbire alcuni colori, e di diffonderne altri; i colori che vengono diffusi sono quelli con cui appare ai nostri occhi l’oggetto esaminato.

Come sappiamo, la luce bianca è data dalla sovrapposizione di tutti i colori che costituiscono lo spettro della luce, cioè l’insieme di tutte le lunghezze d’onda che essa presenta.

A ciascun colore, quindi, corrisponde una determinata lunghezza d’onda e una precisa frequenza.

Abbiamo visto che, nel caso del prisma, era possibile scomporre la luce nei diversi colori dello spettro. E’ possibile notare, esaminando  gli spettri di diverse sorgenti luminose, che gli spettri dipendono proprio dal tipo di sorgente che si sceglie.

In base alle caratteristiche fisiche in cui si trova la sorgente, infatti, possiamo distinguere alcuni tipi di spettri, fra cui in particolare quelli continui e quelli a righe.

 

Gli spettri continui

Gli spettri continui appaiono come una striscia continua di colori, che sfumano l’uno nell’altro senza interruzioni, e presentano quindi tutte le lunghezze d’onda delle radiazioni elettromagnetiche visibili.

Questi spettri sono dati, generalmente, dai corpi solidi o liquidi portati all’incandescenza, come avviene nel caso dei filamenti delle lampadine (dette appunto ad incandescenza), oppure da gas incandescenti compressi: in quest’ultimo caso la luce viene fatta passare attraverso una fenditura, convogliata in un prisma, e proiettata in uno schermo retrostante:

 

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Spettro di emissione continuo

 

Gli spettri a righe possono essere di due tipi, a righe di emissione e a righe di assorbimento.

Nel primo caso, lo spettro appare come un insieme di righe nette di colori diversi, e separate tra loro, su uno sfondo nero;

nel secondo caso, invece, lo spettro presenta uno sfondo colorato, con colori che sfumano l’uno nell’altro come nel caso degli spettri continui, dove però appaiono delle righe nere, nette e staccate tra loro.

 

Gli spettri a righe di emissione

Gli spetti a righe di emissione sono dovuti al fatto che l’energia viene non viene emessa in modo continuo, ma in quantità ben definite, che vennero definite da Planck “ quanti di energia “.

In questo modo, quando gli atomi di un determinato composto chimico (in particolare, gas rarefatti) vengono eccitati, e passano da uno stato energetico ad un’altro, sono poi in grado di rilasciare l’energia assorbita sotto forma di fotoni.

Ogni fotone presenta una determinata frequenza e lunghezza d’onda, ed ogni fotone emesso dalla sorgente corrisponde ad una precisa riga colorata che appare sullo spettro:

 

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Spettro a righe di emissione

 

Ogni elemento chimico emette uno spettro a righe caratteristico; per questo, studiando lo spettro a righe di emissione di un determinato gas, è possibile risalire ai suoi elementi chimici costituenti, se si individuano in esso le righe corrispondenti alle lunghezze d’onda dell’elemento.

 

Gli spettri a righe di assorbimento

Gli spetti a righe di assorbimento, invece, si ottengono quando tra la sorgente luminosa e la fenditura attraverso la quale, poi, la luce viene convogliata nel prisma, si interpone un gas rarefatto freddo.

In questo caso, infatti, il gas è in grado di assorbire parte dell’energia trasportata dal fascio di luce, che corrisponde; l’energia assorbita fa si che alcuni fotoni, corrispondenti a determinate lunghezze d’onda, vengono a mancare al fascio di luce quando esso attraversa il prisma, e così lo spetto che verrà proiettato sullo schermo apparirà con delle righe nere in corrispondenza delle lunghezze d’onda mancanti.

 

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Spettro a righe di assorbimento

 

Questo fenomeno si verifica anche nel caso delle stelle, lo spettro stellare, infatti, è uno spettro continuo, ma poiché nello spazio   sono presenti gas, che vengono attraversati dalla luce, lo spettro stellare appare come uno spettro a righe di assorbimento.

Anche in questo caso è possibile risalire agli elementi chimici presenti nei gas dello spazio che hanno causato l’assorbimento, in quanto ogni riga nera corrisponde alle lunghezze d’onda che sono state assorbite, e che individuano in particolare elemento che ne è stato la causa.

 

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La temperatura e il termometro

Misurare la temperatura

Quando veniamo a contatto con oggetti diversi, riusciamo a percepire una differenza di temperatura tra essi. Ad esempio, toccando una superficie metallica avremo l’impressione di sentire del freddo;  una superficie di legno, invece, ci darà l’impressione di una materiale più caldo.

Le sensazioni che proviamo sono soggettive, e questo spiega come mai nella stessa stagione ci sono persone che si vestono differentemente.

Tuttavia, esiste un metodo di misurazione della temperatura oggettivo, che ci dice realmente quanto caldo o freddo sia un certo materiale, o un certo ambiente. Il termometro, infatti, ci segnala la temperatura esatta del luogo in cui ci troviamo, o dell’oggetto che stiamo considerando.

 

I termometri a mercurio

I termometri moderni sono digitali, e il loro funzionamento si basa sulla tecnologia dei cristalli liquidi. Fino a poco tempo fa, però, si utilizzavano termometri al mercurio, costituiti da un tubo capillare di vetro con all’interno questo metallo.

Il mercurio è l’unico metallo che, naturalmente, si trova allo stato liquido; una delle sue caratteristiche principali è il fatto che esso si dilata in maniera lineare con l’aumentare della temperatura. Di conseguenza, il mercurio sale all’interno del tubo capillare e, attraverso una scala graduata, in base al livello che esso raggiunge, possiamo misurare la temperatura.

 

Il termoscopio 

E’ possibile determinare la temperatura di un liquido costruendo uno strumento simile al termometro, che prende il nome di termoscopio. Il termoscopio è formato da un recipiente di vetro chiuso, all’interno del quale è presente un liquido lubrificante, ad esempio un olio. Dal recipiente si alza un ubichino capillare, all’interno del quale può salire il liquido.

Per tarare il termoscopio è necessario segnare i livelli raggiunti dall’olio in due casi particolari, il caso dell’acqua sotto forma di ghiaccio, e quello dell’acqua in ebollizione.

 

termoscopio
Il termoscopio viene tarato segnando i livelli raggiunti dall’olio nel caso in cui il recipiente è immerso in acqua ghiacciata e in acqua bollente.

 

Immergendo il termoscopio in una vaschetta contenente del ghiaccio, possiamo osservare il livello raggiunto dal liquido nel tubo capillare; l’olio si trova proprio alla base di esso, ed è quindi il livello minimo.

Al contrario, se immergiamo il termoscopio in una vaschetta con dell’acqua bollente, noteremo una situazione differente; che il livello dell’olio, infatti,  salirà all’interno del capillare. La posizione raggiunta dal liquido dopo un certo periodo fornirà la temperatura dell’acqua che bolle.

Per convenzione, si assegnano le temperature di zero gradi centigradi e di cento gradi centigradi alle situazioni, rispettivamente, del ghiaccio e dell’acqua bollente.

Conoscendo le posizioni del liquido alle temperature di zero gradi e cento gradi, e dividendo l’intervallo in cento parti uguali, si ottiene una scala graduata nota come scala Celsius.

Notiamo che per misurare la temperatura di un liquido, o di un corpo in generale, si sfrutta un importante principio: l’equilibrio termico. Infatti, due corpi che vengono messi in contatto, dopo un certo periodo di tempo, raggiungono la stessa temperatura, che viene poi mantenuta nel tempo.

 

La scala Kelvin

La scala Celsius è una scala termometrica molto utilizzata nella vita di tutti i giorni; in fisica, però, molto spesso si utilizza un altro tipo di scala, la scala Kelvin. La scala Kelvin e quella centigrada presentano lo stesso tipo di variazione di temperatura, cioè la variazione di 1 K è proprio uguale alla variazione di 1° C. Tuttavia, le due scale sono legate da una relazione, che permette facilmente di passare dall’una all’altra.

La temperatura in Kelvin si ottiene da quella in gradi centigradi aggiungendo il valore 273,15:

$T_k = t_c + 273,15$

La temperatura in gradi centigradi, invece, si ottiene da quella in Kelvin sottraendo il valore 273,15:

$t_c = T_k – 273,15$

In particolare, la temperatura di 0 K, cioè di -273,15° C, viene definita zero assoluto; questa cifra rappresenta la temperatura più bassa che è possibile raggiungere raffreddando un corpo; non si può scendere, quindi, al di sotto di essa.

 

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La dilatazione dei solidi

La dilatazione lineare 

I corpi solidi hanno una caratteristica molto importante, il fatto che essi tendono ad espandersi quando vengono riscaldati, e a restringersi quando vengono raffreddati. Questo comportamento, inoltre, avviene in maniera regolare, e l’intensità dell’allungamento, o dell’accorciamento, delle lunghezze è direttamente proporzionale all’entità del riscaldamento. In particolare, la variazione della misura segue la legge sperimentale della dilatazione lineare:

$∆l = l – l_0 = l_0 * λ * ∆t$

dove ∆l indica l’allungamento del corpo, ed è dato dalla differenza tra la lunghezza finale del corpo (l) alla nuova temperatura, e la lunghezza iniziale (l0). Il parametro λ viene definito coefficiente di dilatazione lineare, che dipende dal materiale di cui è fatto il corpo in questione; in particolare, questa costante è numericamente uguale all’allungamento di una barra di lunghezza 1 metro, che viene riscaldata di 1° C. La variazione ∆t indica la differenza di temperatura cui è sottoposto il corpo.

La legge scritta nel seguente modo fornisce direttamente il valore della lunghezza finale:

$l = l_0 * (1 + λ * ∆t )$

Come detto in precedenza, la legge è una legge sperimentale, cioè basata non s dimostrazioni matematiche, ma su osservazioni, ed è quindi detta legge fenomenologia. Di conseguenza, sebbene trova particolare riscontro nelle situazioni pratiche, fornisce comunque valori approssimati, e funziona solo in determinati campi di validità. Infatti, la legge risulta inesatta nel caso di valori elevati della variazione della temperatura, ed è inapplicabile se i solido comincia a fondere.

E’ possibile vedere gli effetti dell’allungamento e dell’accorciamento di un corpo sottoposto a calore con uno strumento particolare, la lamina bimetallica. Questo strumento, come dice il nome, è una barretta costituita da due barrette metalliche unite tra loro, costituite da metalli che presentano coefficienti di dilatazione diversi.

 

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Materiali diversi rispondono diversamente al riscaldamento; nell’esempio vengono mostrate due barrette di acciaio e zinco, che possiedono diversi coefficienti di dilatazione.

 

Consideriamo, ad esempio, una lamina bimetallica costituita da barrette di acciaio e zinco di uguale lunghezza a temperatura ambiente.

Quando riscaldiamo la lamina, notiamo che la barretta si curva, in quanto una delle due lamine, in questo caso quella di zinco, se sottoposta a calore si allunga più dell’altra. Ciò è dovuto al fatto che il coefficiente di dilatazione dello zinco è maggiore di quello dell’acciaio; di conseguenza la barretta di zinco subisce un allungamento maggiore rispetto all’altra.

 

La dilatazione volumica

Se sottoposti a calore, i solidi, come abbiamo detto, si dilatano; ciò significa che aumenta non solo la loro lunghezza, ma anche la lori altezza e il loro spessore.

Se consideriamo, come nell’esempio precedente, una barretta di metallo, l’aumento di spessore che essa subisce è minimo rispetto all’aumento della sua lunghezza, per questo risulta trascurabile.

Altri solidi, invece, come il cubo o la sfera, subiscono un’allungamento omogeneo e uguale in tutte le direzioni. Si parla, quindi, di dilatazione volumica.

In questo caso, l’entità della dilatazione si può ricavare per via sperimentale, e si considera la legge della dilatazione volumica seguente:

$∆V = V – V_0 = V_0 * α * ∆t$

dove ∆V indica la dilatazione del corpo, ed è dato dalla differenza tra il volume finale del corpo (V) alla nuova temperatura, e il volume iniziale (V0). Il parametro α viene definito coefficiente di dilatazione volumica; la variazione ∆t indica la differenza di temperatura cui è sottoposto il corpo.

La legge può anche essere scritta nel seguente modo, per ricavare direttamente il valore del volume finale:

$ V = V_0 * (1 + α * ∆t)$

 

Esercizio

Il diamante ha coefficiente di dilatazione lineare $λ = 1,3 * 10^-6 °C^-1$; si consideri un diamante di volume $100 cm^3$  alla temperatura di 0,0°C. Calcolare la temperatura necessaria affinché il volume del diamante aumenti dell’ 1%.

Dai dati forniti dal problema sappiamo che il volume iniziale del solido è:

$V_0 = 100 cm^3 = 100 * 10^(-6) m^3$

Il volume del solido deve aumentare dell’ 1%, quindi il volume finale deve essere:

$V = V_0 + 1%V_0 = V_0 + frac(V_0)(100) = $

$ = (100 * 10^(-6) + 10^(-6)) m^3 = 101 * 10^(-6) m^3$

Sappiamo che la temperatura iniziale è di 0°C, quindi la variazione di temperatura ∆t è pari alla temperatura finale:

$∆t = t – t_0 = t – 0°C = t $

Possiamo quindi applicare la legge sperimentale della dilatazione volumica per determinare il valore di t:

$V – V_0 = V_0 * α * t        to       t = frac(V – V_0)(V_0 * α) $

Nel caso di un solido, si dimostra che il coefficiente di dilatazione volumica è pari a tre volte quello di dilatazione lineare; si ha quindi:

$t = frac(V – V_0)(V_0 * α) = frac(V – V_0)(V_0 * 3λ)$

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo la temperatura finale:

$ t = frac(101 * 10^(-6) – 100 * 10^(-6))(100 * 10^(-6) * 3 * 1,3 * 10^(-6)) = frac(10^(-6))(390 * 10^(-12)) = 2,56 * 10^3 ° C$

 

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Appunti: La dilatazione dei liquidi

 

La dilatazione dei liquidi

La dilatazione volumica

Anche i liquidi (quasi tutti) se riscaldati subiscono una dilatazione; anche in questo caso, è possibile ricavare una legge sperimentale che fornisce l’entità di tale variazione, e tale legge è la stessa che viene utilizzata nel caso dei solidi:

$V = V_0 * (1 + α * ∆t)$

Da notare, però, che la dilatazione che subiscono i liquidi quando riscaldati è notevolmente maggiore di quella subita dai solidi; infatti, il coefficiente di dilatazione volumica α nel caso dei liquidi è dalle 10 alle 100 volte maggiore di quello di un solido.

C’è, però, un liquido particolare il cui comportamento di discosta dal normale, e presenta importanti caratteristiche: l’acqua.

 

Il caso dell’acqua

L’acqua presenta un comportamento anomalo.

Ad esempio, se mettiamo una bottiglia di vetro colma d’acqua in surgelatore, dopo un certo periodo di tempo troveremo la bottiglia rotta. Infatti, raffreddandosi l’acqua sotto forma di ghiaccio aumenta di volume, rompendo così la bottiglia di vetro.

Allo stato liquido, poi, da 0°C a 4°C il volume dell’acqua diminuisce se riscaldata, mentre a temperature maggiori si ha un aumento di volume regolare sotto riscaldamento.

Queste caratteristiche dell’acqua possono spiegare come mai, in caso di temperature molto basse, notiamo uno strato di ghiaccio al di sopra di un recipiente d’acqua, o nel caso di un lago.

Nel caso di basse temperature, infatti, lo strato superficiale dell’acqua comincia a raffreddare e, di conseguenza, diminuisce il suo volume. Come sappiamo, una diminuzione di volume comporta un aumento della densità dello strato superficiale che, quindi, per le leggi di Archimede, tende a scendere verso il basso, permettendo all’acqua più calda che si trova in fondo di risalire verso l’alto.

Questo processo si ripete in continuazione, fino a quando tutta l’acqua non raggiunge una temperatura omogenea, supponiamo di 4°C.

Sotto tale temperatura, come abbiamo visto in precedenza, se raffreddata l’acqua aumenta di volume.

Di conseguenza, poiché lo strato superficiale è continuamente sottoposto a raffreddamento dall’ambiente esterno, si ha ora un aumento del volume di esso, con conseguente diminuzione della sua densità.

A questo punto, essendo lo strato superficiale meno denso dell’acqua sottostante, esso tende a rimanere in superficie; il continuo raffreddamento fa si che questo strato passi dallo stato liquido a quello solido, con formazione di ghiaccio superficiale.

 

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Lo strato ghiacciato, meno denso di quello liquido, resta in superficie.

 

Queste particolari caratteristiche  dell’acqua sono dovute ai legami intramolecolari delle sue particelle; i legami presenti, infatti, sono legami idrogeno, che conferiscono alla struttura molecolare dell’acqua solida una forma più regolare e geometrica rispetto all’acqua allo stato liquido.

 

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Struttura molecolare dell’acqua liquida e del ghiaccio.

 

 

Questo spiega perché, a differenza della maggior parte delle sostanze, lo stato solido dell’acqua presenta una densità minore rispetto a quella dello stato liquido; questa caratteristica è evidente, e spiega perché il ghiaccio può galleggiare sull’acqua.

 

Esercizio

Un cilindro di ferro con area di base di  $30,0 cm^2$  contiene dell’olio per un volume di  $300 cm^3$,  che viene compresso da un pistone. Il coefficiente di dilatazione volumica dell’olio è di  $ 7,2 * 10^-4°C^(-1)$.  Il recipiente viene riscaldato da 50°C a 150°C.

Calcolare l’aumento di volume dell’olio, e determinare di quanto si alza il pistone a causa dell’aumento dell’olio.

 

aumento-volume
Aumento volumico dell’olio in seguito a riscaldamento del recipiente.

Per prima cosa, esprimiamo le grandezze nelle giuste unità di misura; abbiamo, quindi:

$A_b = 30  cm^2 = 30 * 10^(-4)  m^2$

$V_0 = 300  cm^3 = 300 * 10^(-6)  m^3$

Per determinare l’aumento di volume dell’olio, possiamo utilizzare la legge di dilatazione volumica, trovando così il volume finale del liquido:

$V = V_0 * (1 + α * ∆t) = 300* 10^(-6) * [1 + 7,2 * 10^(-4) * (150 – 50)] = 321,6 * 10^(-6) m^3$

Calcoliamo l’aumento di volume ∆V come differenza tra il volume finale e quello iniziale:

$∆V = V – V_0 = 321,6 * 10^(-6) – 300 * 10^(-6) = 21,6 * 10^(-6) m^3 = 21,6 cm^3$

Per rispondere al secondo quesito, calcoliamo l’altezza che raggiunge il livello dell’olio all’interno del cilindro prima e dopo la variazione della temperatura. Per ottenere il valore dell’altezza, dividiamo il volume occupato dall’olio per l’area di base del cilindro; nel primo caso abbiamo:

$h_0 = frac(V_0)(A_b) = frac(300 * 10^(-6) m^3)(30 * 10^(-4) m^2) = 0,1 m$

nel secondo caso, dopo l’aumento di temperatura:

$h = frac(V)(A_b) = frac(321,6 * 10^(-6) m^3)(30 * 10^(-4) m^2) = 0,1072 m$

 

La variazione di altezza si ottiene dalla differenza delle misure nei due casi:

$h – h_0 = 0,1072 – 0,1 = 0,0072 m = 0,72 cm$

 

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La legge di Boyle e i gas perfetti

La legge di Boyle

Consideriamo un gas contenuto in un cilindro mantenuto a temperatura costante, ad esempio immerso in un liquido che permette di mantenere la stessa temperatura quando vi è uno scambio di calore.

Se facciamo variare il volume del gas, aggiungendo o togliendo dei pesi dal pistone, notiamo che la pressione diminuisce o aumenta in modo inversamente proporzionale alla variazione di volume.

Quindi, dimezzando il volume del gas, la sua pressione raddoppia; raddoppiando il volume del gas, la sua pressione si dimezza.

Se il gas viene compresso molto lentamente, la sua temperatura si mantiene costante; altrimenti una compressione determina un aumento della temperatura stessa.

Il comportamento del gas è descritto dalla legge di Boyle:

$p * V = p_1 * V_1 $

La legge di Boyle, quindi, stabilisce che, a temperatura costante, il prodotto del volume di un gas per la sua temperatura rimane costante.

 

I gas perfetti 

In fisica, molto spesso, è conveniente utilizzare un modello di gas che si adatti a delle specifiche condizioni. I gas reali, cioè quelli con cui abbiamo a che fare nel quotidiano, spesso non soddisfano determinate proprietà, e le leggi che abbiamo appena visto non descrivono il loro comportamento.

Per questo, è utile considerare una categoria di gas, che vengono definiti ideali, e sono quelli che soddisfano le due leggi di Gay-Lussac e quella di Boyle. Questi gas, in particolare, devono essere rarefatti, e la loro temperatura deve essere lontana da quella di liquefazione del gas.

Per questo tipo di gas, è possibile sintetizzare le tre leggi precedenti in un’unica legge, che viene definita equazione di stato dei gas perfetti, e che mette in relazioni le tre grandezze fondamentali dei gas: temperatura, volume e pressione:

$p * V = (frac(p_0 * V_0)(T_0)) * T $

E’ stato dimostrato che, per un gas perfetto, a pressione e temperatura fissati, il volume del gas è direttamente proporzionale al numero di moli del gas.

Ricordiamo che per mole si definisce la quantità di sostanza che contiene un numero di Avogadro di particelle ( $6,022 10^23$ ); o anche la quantità di una sostanza che ha massa numericamente uguale al suo peso atomico o molecolare.

La quantità tra parentesi può essere espressa dal prodotto del numero di moli (n) per la costante R, detta costante universale dei gas, che vale:

$ R = 8,31 frac(J)(mol * K) = 0,0821 frac(L * atm)(K * mol) $

L’equazione di stato dei gas perfetti, quindi, assume la seguente espressione:

$ p * V = n * R * T $

Notiamo, quindi, che la pressione e il volume sono direttamente proporzionali al numero di particelle contenute nel gas e alla temperatura (in K) del gas.

Dall’equazione si può ricavare una condizione particolare, che prende il nome di legge di Avogadro. Ricaviamo dall’equazione precedente il numero di moli n:

$ n = frac(p * V)(R * T) $

La legge di Avogadro afferma che volumi uguali di gas diversi, in condizioni di temperatura e pressione uguali, contengono lo stesso numero di particelle.

In particolare, è bene tenere in considerazione che in condizioni normali, cioè alla temperatura di 0°C e alla pressione di 1 atm, una mole di un gas qualsiasi occupa il volume di 22,4 litri.

 

Esercizio

Un gas alla temperatura di 15°C e alla pressione di  $1,1 * 10^5 Pa$  contiene 1,5 moli di gas. Dopo che il gas viene riscaldato, e subisce una trasformazione isobara, il volume che esso occupa è di 38 L. Calcolare il volume iniziale del gas e la sua temperatura finale.

Dall’equazione di stato dei gas perfetti possiamo ricavare il valore del volume iniziale del gas:

$ p * V = n * R * T        to       V = frac(n * R * T)(p)$

Prima di procedere con i calcoli, però, dobbiamo trasformare i dati nelle giuste unità di misura:

$ t = 15° C       to       T = 15 + 273 = 288 K $

$ p = 1,1 * 10^5 Pa = 1,089 atm $

Notiamo che, con le unità di misura che abbiamo scelto, il valore della costante R che dobbiamo utilizzare è il secondo che abbiamo dato.

Possiamo, ora, procedere con i conti:

$  V = frac(n * R * T)(p) =  frac(1,5 * 0,0821 * 288)(1,089) = 32,6 L $

Sapendo, poi, che il volume finale del gas è di 38 L, che la trasformazione avviene a pressione costante, e che il numero di moli resta invariato, possiamo applicare la stessa equazione per ricavare il valore della temperatura finale del gas:

$ T_f = frac(p * V)(n * R) = frac(1,089 * 38)(1,5 * 0,0821) = 336 K = 63° C$

 

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Il calore

Come sappiamo, il calore è in grado di passare da un corpo più caldo ad uno più freddo; proprio per questo si parla di passaggio di calore. In questo modo, quindi, è possibile scaldare un qualsiasi oggetto.

Tuttavia, questo non è l’unico modo per trasferire calore; infatti, si può trasferire calore ad un corpo anche mediante una forza che compie un lavoro. Questo spiega, ad esempio, come mai è possibile accendere un fuoco con il semplice sfregamento di due bastoncini di legno.

Per la prima volta nel 1800, Joule ideò un esperimento che permise di capire quanto lavoro è necessario per aumentare di aumentare la temperatura di una certa quantità d’acqua.

Il suo esperimento si basava proprio sul fatto che il lavoro compiuto dalla forza-peso su dei pesetti provocasse il movimento di alcune eliche presenti all’interno di un recipiente isolato termicamente. Il movimento delle eliche nell’acqua provocava un aumento della temperatura del liquido.

 

calore-lavoro
Relazione tra calore e lavoro: l’esperimento del mulinello di Joule.

 

Conoscendo la quantità d’acqua presente, e la massa dei pesetti, Joule concluse che per aumentare la temperatura di 1 kg di acqua di 1 K è necessario un lavoro di 4186 J.

Il calore e il lavoro, quindi, sono delle grandezze che, per alcuni aspetti, possono essere considerate simili. In particolare, si può notare che sia compiendo un lavoro, sia trasferendo del calore, si ha un passaggio di energia da un sistema ad un altro.

Ad esempio, un forte getto di vapore ad alta pressione è in grado di far ruotare una turbina che, nelle centrali idroelettriche, permette di generare energia elettrica.

Proprio per questo, il calore viene misurato, nel Sistema Internazionale, in Joule, in quanto a questa grandezza si associa un trasferimento di energia.

Una unità di misura alternativa del calore, che non fa parte però del Sistema Internazionale, è la caloria; una caloria corrisponde alla quantità di energia necessaria per far aumentare di 1°C la temperatura di 1g di acqua distillata, portando la sua temperatura da 14,5°C a 15,5°C.

Quando riscaldiamo un corpo, quindi, o compiendo un lavoro su di esso, o trasferendogli del calore tramite un corpo più caldo, stiamo aumentando la sua energia interna. Ciò è vero per la conservazione dell’energia; come sappiamo, l’energia non si crea e non si distrugge, ma si trasforma in altre forme di energia.

 

La capacità termica 

Non tutti i corpi hanno la stessa capacità di assorbire il calore; per questo, una stessa quantità di calore può avere effetti differenti su due corpi diversi.

Per valutare gli effetti del calore sui corpi è necessario considerare la loro capacità termica C; questa viene espressa come rapporto dell’energia assorbita dal corpo sulla differenza di temperatura che esso subisce:

$ C = frac(∆E)(∆T)$

Possiamo affermare che la capacità termica di un corpo è numericamente uguale alla quantità di energia che dobbiamo fornire ad un corpo per far aumentare la sua temperature di 1K.

 

Il calore specifico

La capacità termica di un corpo dipende dalle caratteristiche del corpo stesso, e in particolare aumenta all’aumentare della sua massa. Infatti, la capacità termica è descritta dalla legge:

$ C = c * m$

Nella formula c indica il calore specifico della sostanza.

Il calore specifico di una sostanza, quindi, è numericamente uguale alla quantità di energia che dobbiamo fornire per aumentare la temperatura di una sostanza di 1 kg di 1 K.

Dalle relazione che abbiamo fornito in precedenza, possiamo ricavare una legge che permette di determinare l’energia che viene scambiata quando vi è un aumento di temperatura in un corpo di massa m.

Infatti, abbiamo le seguenti relazioni:

$ C = frac(∆E)(∆T)      to      ∆E = C * ∆T     ,       C = c * m $

Da cui otteniamo:

$∆E = C * ∆T = c * m * ∆T $

La formula precedente è valida sia nel caso in cui si ha una variazione di temperatura dovuta ad un lavoro che viene effettuato, sia quando tale variazione è dovuta ad uno scambio di calore; in quest’ultimo caso, la legge può anche essere scritta nel modo seguente:

$ Q = c * m * ∆T $

Dove Q indica, appunto, il calore che viene scambiato.

 

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Il calorimetro

Il calorimetro

Il calorimetro è uno strumento molto utile che permette di determinare, a partire da quello dell’acqua, il calore specifico di determinate sostanze.

Questo strumento è costituito da un recipiente piuttosto leggero, che non assorba una gran quantità di calore, e isolato termicamente. All’interno del recipiente, riempito con dell’acqua, è posto un termometro che servirà per valutare l’aumento di temperatura di questa in seguito all’aggiunta della nostra sostanza.

 

calorimetro
Il calorimetro

 

Ipotizziamo di voler determinare il calore specifico di una barretta di un certo metallo.

Per prima cosa, dobbiamo conoscere la quantità d’acqua che si sta utilizzando e la sua temperatura iniziale; successivamente possiamo immergere la barretta (di cui conosciamo la massa e la temperatura iniziale) all’interno del calorimetro.

Come sappiamo, quando due corpi di diversa temperatura vengono a contatto, vi è un passaggio di calore dal corpo più caldo a quello più freddo, fino a che entrambi non raggiungono la stessa temperatura.

Anche in questo caso, quindi, indipendentemente da quale dei due sia il corpo più caldo, dopo un certo periodo di tempo, l’acqua del calorimetro e la barretta metallica avranno raggiunto la stessa temperatura, che è una temperatura di equilibrio.

Ipotizziamo che la barretta metallica sia l’oggetto più caldo: in questo caso, la barretta cederà parte del suo calore interno all’acqua, e la quantità di calore ceduto è pari a:

$Q_m = c_m * m_m * (T_e – T_m) $

dove  $c_m$,  $m_m$,  $T_m$  rappresentano, rispettivamente, il calore specifico del metallo, la massa della barretta e la sua temperatura iniziale.

Allo stesso modo, possiamo calcolare quanto calore viene assorbito dall’acqua:

$ Q_a = c_a * m_a * (T_e – T_a) $

dove, anche qui,  $c_a$ ,  $m_a$ ,  $T_a$  rappresentano, rispettivamente, il calore specifico dell’acqua, la sua massa e la sua temperatura iniziale.

Dato che il calorimetro è isolato termicamente, esso non può scambiare calore con l’ambiente esterno; ciò significa che, per la conservazione dell’energia, il calore che viene ceduto dal metallo deve essere uguale a quello che viene acquistato dall’acqua.

Di conseguenza la somma delle quantità di calore scambiate è uguale a zero:

$Q_m + Q_a = 0$

Infatti, dal momento che la temperatura di equilibrio sarà maggiore della temperatura iniziale dell’acqua, il calore assorbito dall’acqua avrà segno positivo; al contrario, la temperatura di equilibrio è minore di quella iniziale del metallo, e quindi il calore ceduto dalla barretta ha segno meno.

Sostituendo a questa uguaglianza le espressioni trovate precedentemente per il calore, possiamo ricavare il calore specifico della barretta di metallo:

$ c_m * m_m * (T_e – T_m) = – c_a * m_a * (T_e – T_a)          to         $

$      c_m = – frac( c_a * m_a * (T_e – T_a))(m_m * (T_e – T_m))$

In alcuni casi, invece, sono noti entrambi i calori specifici delle sostanze che costituiscono la soluzione, ed è necessario calcolare la temperatura di equilibrio che viene raggiunta dopo il loro mescolamento; possiamo utilizzare, quindi, l’equazione precedente per risalire alla temperatura di equilibrio $T_e$:

$ c_m * m_m * (T_e – T_m)  +  c_a * m_a * (T_e – T_a) = 0          to        $

$    T_e =  frac( c_a * m_a *  T_a + c_m * m_m *  T_m)(c_a * m_a + c_m * m_m)$

 

Esercizio

Consideriamo un calorimetro contenente una quantità d’acqua di 0,50 kg alla temperatura di 15°C, e immergiamo in esso in dischetto di piombo di massa 0,30 kg che, inizialmente, si trova alla temperatura di 90°C. Il calore specifico del piombo vale 130 J/kg∙K.

Quanto vale la temperatura di equilibrio raggiunta dal sistema, trascurando il calore che viene ceduto dal piombo al calorimetro?

Dai dati forniti dal problema notiamo che anche in questo caso, il metallo presenta una temperatura superiore a quella dell’acqua in cui viene immerso; di conseguenza, sarà il metallo a cedere calore all’acqua, presentando un valore negativo per la sua quantità di calore scambiato.

Il calore acquistato dall’acqua, invece, avrà segno positivo.

Possiamo procedere applicando la formula vista in precedenza per risalire direttamente al valore della temperatura di equilibrio.

$ T_e =  frac( c_a * m_a *  T_a + c_m * m_m *  T_m)(c_a * m_a + c_m * m_m)$

Prima di procedere con i calcoli, però, trasformiamo le grandezze nelle giuste unità di misura:

$ T_a = 15°C = 288 K$

$T_p = 90°C = 363 K $

Ricordiamo che il calore specifico dell’acqua, anche se non viene fornito tra i dati del problema, è un valore noto; esso corrisponde, infatti, alla quantità di energia necessaria per far aumentare di 1K una massa d’acqua di 1Kg, che sappiamo essere 4186J.

Possiamo procedere sostituendo i valori numerici alla formula precedente:

$ T_e =  frac( 4186 * 0,5 *  288 + 130 * 0,3 *  363)(4186 * 0,5 + 130 * 0,3) = 289,37 K = 16,22° C$

 

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Il potere calorifico

Nell’ambiente in cui viviamo ci sono molte fonti di calore; una delle più importanti è quella proveniente dal fuoco, e in particolare dalla combustione.

La combustione è un processo chimico, che ha per reagenti ossigeno e carbonio, e come prodotti anidride carbonica. La combustione, quindi, può essere scritta come reazione chimica nel modo seguente:

$ C + O_2     to     CO_2 $

Per far avvenire la reazione, però, non è sufficiente che vengano a contatto delle molecole di ossigeno con delle molecole di carbonio, ma è necessario raggiungere un’energia minima che permette di mettere in moto la reazione. Successivamente, la reazione può procedere da sola, fino a quando uno dei due reagenti non sarà completamente esaurito.

Anche in una reazione chimica, quindi, vi è uno scambio di energia; in particolare, in questo tipo di reazione viene prodotta energia, e la reazione si definisce esotermica.

La grandezza che esprime quanto calore viene ceduto o assorbito nel corso di una reazione chimica si definisce entalpia di reazione,  e si indica con il simbolo ∆H. La variazione di entalpia corrisponde alla differenza tra l’entalpia dei prodotti e quella dei reagenti.

Quando si ha un valore negativo di ∆H, cioè quando l’entalpia dei prodotti è minore di quella dei reagenti, significa che nel corso della reazione è stata liberata energia, e la reazione è quindi esotermica.

Nel caso della combustione l’energia interna dei reagenti è maggiore dell’energia interna dei prodotti; sapendo che l’energia non si crea ne si distrugge, ma si conserva, possiamo concludere che parte dell’energia dei reagenti è stata ceduta all’ambiente sotto forma di calore.

Questo spiega perché si utilizzano tutt’oggi i camini di inverno per riscaldare le abitazioni.

Per dare un’idea di quanto calore viene prodotto durante una combustione, si fa riferimento ad una nuova grandezza, definita potere calorifico, ed espressa come rapporto tra il calore prodotto sulla massa di combustibile che è stato utilizzato:

$P_c = frac(Q)(m)$

Questa definizione è utilizzata soprattutto per combustibili liquidi e solidi; dalla formula precedente si può notare che l’unità di misura del potere calorifico è il J/kg.

Spesso, in particolare per combustibili gassosi, si definisce il potere calorifico come rapporto tra il calore prodotto e il volume di combustibile impiegato:

$P_c = frac(Q)(V)$

In questo caso, l’unità di misura del potere calorifico è il  $J/m^3$.

Quando nella reazione di combustione è presenta anche dell’acqua, si deve distinguere il potere calorifico in due tipi:

  • Il potere calorifico inferiore (Qi), che si ha nel caso in cui l’acqua si trova allo stato di vapore;
  • il potere calorifico superiore (Qs), che si ha invece quando l’acqua è allo stato liquido.

Analizzando i valori di entalpia per una stessa reazione nel caso in cui l’acqua si trova sotto forma di vapore, e nel caso in cui si trova allo stato liquido, si noteranno valori differenti di entalpia.

In particolare, la differenza di entalpia nelle due reazioni corrisponde al calore necessario per far passare una mole di acqua (circa 18 g) dallo stato liquido a quello di vapore.

Inoltre, tra il potere calorifico superiore e quello inferiore sussiste la seguente relazione:

$Q_s = Q_i + n * 2500 $

dove n esprime la quantità di acqua presente dei prodotti in seguito alla combustione di 1 kg di combustibile, e 2500 esprime la quantità di energia necessaria per far passare 1 kg di acqua dallo stato liquido a quello gassoso.

 

Esercizio

Quanto calore viene prodotto nella combustione di 1,0 l di alcol etilico, sapendo che la densità dell’alcol è di  $8,1 * 10^2 (kg)/m^3$  ?

Per risolvere il problema dobbiamo conoscere il valore del potere calorifico dell’alcol, che equivale a  $0,28 * 10^8 J/(kg)$ .

Dai dati che abbiamo, possiamo  determinare la massa effettiva dell’alcol che è coinvolti nella reazione, ricordando che la densità è data dal rapporto di massa su volume:

$ d = frac(m)(V)       to       m = d * V $

Possiamo ora ricavare il valore del calore che è stato scambiato durante la reazione:

$P_c = frac(Q)(m)      to      Q = P_c * m = P_c * d * V $

Sostituiamo ora i valori numerici:

$Q = 0,28 * 10^8 * 8,1 * 10^2 * 1,0 * 10^(-3) = 2,27 * 10^7 J$

 

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Trasferimento di calore (la conduzione)

Il calore si può propagare in maniera differente in base allo stato fisico del corpo attraverso cui si diffonde. Nel caso dei corpi solidi il calore si trasmette per conduzione, nel caso dei liquidi per convezione e nel caso dei gas per irraggiamento.

 

La conduzione

Nel caso della conduzione, si ha uno spostamento di calore all’interno del corpo solido, senza che vi sia uno spostamento di materia. E’ bene notare la conduzione consiste in uno scambio di calore tra corpi che sono in contatto tra loro.

In particolare, il passaggio di calore viene descritto dalla seguente legge:

$frac(Q)(∆t) = λ * S * frac(∆T)(d)$

dove Q indica il calore che viene trasferito, e ∆t l’intervallo di tempo impiegato in tale passaggio. Il rapporto Q/∆t da informazioni sulla rapidità con cui avviene il passaggio di calore attraverso lo strato di materia.

λ indica una costante, definita coefficiente di conducibilità termica, e dipende dalla particolare sostanza di cui è fatto lo strato del corpo; il coefficiente può variare con la temperatura e la pressione.

S indica l’area della superficie interessata, ∆T la differenza di temperatura prima e dopo il passaggio di calore, e d lo spessore del corpo.

In particolare, dal coefficiente dipende il grado di conducibilità di un corpo: i corpi che trasmettono più facilmente il calore, cioè i buoni conduttori, sono quelli che hanno alti valori di λ; al contrario, i corpi che hanno valori bassi di λ tendono a non diffondere particolarmente il calore al loro interno.

Ad esempio, i metalli in generale hanno alti valori di λ, e sono degli ottimi conduttori di calore; il legno e i materiali plastici, invece, di solito hanno bassi valori di λ, e il calore si prepara più lentamente attraverso di essi.

Questo spiega perché le pentole che si utilizzano in cucina sono fatte solitamente di metallo, mentre i loro manici (così come i manici degli utensili da cucina) sono generalmente di plastica, e ci permettono di non scottarci quando prendiamo questi oggetti.

Inoltre, si può notare sperimentalmente che la conducibilità termica è influenzata da molti fattori. Ad esempio, le sostanze allo stato solido hanno una conducibilità termica maggiore dei loro corrispettivi in fase liquida, e allo stesso modo, quelle in fase liquida conducono meglio delle corrispettive in fase gassosa.

 

Esercizio

In un appartamento è presente una parete di legno (che comunica con l’ambiente esterno) spessa 20 cm, che si estende per una lunghezza di 5,0 m e per un’altezza di 3,5 m. La temperatura raggiunta all’interno della casa è di 18°C, mentre quella esterna è di 5°C.

Sapendo che il coefficiente di conducibilità termica del legno è di 0,20 W/(mK), quanto calore viene scambiato, in un’intera giornata, tra la stanza e l’ambiente esterno?

 

la-conduzione-di-calore
Parete di un appartamento che separa la zona interza da quella esterna; le due zone si trovano a temperature diverse.

 

Dai dati che ci fornisce il problema, possiamo ricavare diverse informazioni; ad esempio l’intervallo di tempo che dobbiamo considerare è quello di un giorno intero, che espresso in secondi equivale a:

$ 1 d = 24 h = 1440 min = 86400 s$

Poi, sappiamo che lo spessore del materiale attraverso cui passa il calore è di 20cm, cioè di 0,2m; conoscendo poi la sua altezza e la sua larghezza, possiamo risalire alla sua superficie:

$ S = l * h = 5,0 * 3,5 = 17,5 m^2$

Conosciamo, inoltre, la differenza di temperatura tra l’ambiente interno e quello esterno, che equivale a:

$∆T = 18°C – 5°C = 13°C = 286 K$

Possiamo, quindi, utilizzare la formula vita precedentemente per ricavare il valore della qualità di calore che viene scambiata in questa situazione:

$frac(Q)(∆t) = λ * S * frac(∆T)(d)         to       Q = λ * S * frac(∆T)(d) * ∆t $

Sostituendo i valori numerici, otteniamo il calore scambiato:

$ Q = λ * S * frac(∆T)(d) * ∆t = 0,20 * 17,5 * frac(286)(0,2) * 86400 = $

$  =  19656000 J = 2,0 * 10^7 J$

 

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Trasferimento di calore (la convezione e l’irraggiamento)

La convezione

La convezione, come abbiamo già accennato, riguarda il trasferimento di calore attraverso sostanze liquide.

A differenza della conduzione, che prevede lo scambio di calore senza trasferimento di materia, la convezione è un trasferimento di energia che avviene proprio con trasporto di materia.

Lo spostamento di materia dipende dalla presenza delle correnti che vi sono all’interno dei fluidi.

Possiamo riscontrare questo comportamento dei fluidi in moltissime situazioni; ad esempio nel caso di una pentola d’ acqua sui fornelli, o del funzionamento dei termosifoni che permettono di riscaldare un ambiente.

Anche all’interno della crosta terrestre, per esempio, sono presenti delle correnti convettive; queste permettono lo spostamento del magma, e sono responsabili della formazione dei rilievi montuosi.

Il magma più caldo, che si trova vicino al nucleo terrestre, tende a salire verso la superficie (corrente convettiva ascendente), e mano a mano che questo accade, il magma che sale diventa più freddo, e spinge sotto quello che si trova in superficie, formando così una corrente convettiva discendente.

 

moti-convettivi
I moti convettivi all’interno della superficie terrestre.

 

L’irraggiamento

Un importante trasferimento di calore, indispensabile per la nostra sopravvivenza, è quello che riguarda il calore proveniente dal Sole. Come sappiamo, nello spazio vi è una regione di vuoto, cioè assenza di materia; ciò significa, quindi, che è possibile un trasferimento di calore anche in assenza di questa.

Questo particolare tipo di trasferimento è noto come irraggiamento.

L’irraggiamento è dovuto alla presenza di radiazioni elettromagnetiche che vengono emesse dai corpi. Qualunque corpo emette radiazioni, ma queste onde viaggiano su frequenze tali che gli esseri umano non sono in grado di percepire.

Tuttavia, quando le radiazioni provenienti da una sorgente colpiscono un corpo e possono essere assorbite da esso; di conseguenza,  possono aumentare la sua temperatura, in quanto le radiazioni elettromagnetiche trasportano energia.

Come abbiamo detto in precedenza, qualunque corpo è in grado di emettere energia sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, e l’intensità di queste radiazioni dipende da diversi fattori; tra questi la temperatura del corpo e la sua grandezza.

E’ possibile determinare la quantità di energia emessa da un corpo grazie ad una legge sperimentale nota come legge di Stefan-Boltzmann:

$frac(∆E)(∆t) = e * z * S * T^4 $

nella quale ∆E indica la quantità di energia che viene emessa dal corpo, e ∆t l’unità di tempo in cui è avvenuto tale trasferimento.

Inoltre, e rappresenta un numero compreso tra 0 e 1, e dipende dalle caratteristiche superficiali del corpo; S indica l’area della superficie interessata, e T è la temperatura del corpo espressa in K. z è una costante, definita costante di Stefan-Boltzmann, che vale:

$z = 5,67 * 10^(-8) * frac(J)(s * m^2 * K^4) $

Grazie a questa equazione è possibile determinare l’energia emessa da un corpo anche se non possiamo esaminarlo da vicino.

Infatti, grazie a questa legge, per esempio, possiamo conoscere l’intensità della radiazione emessa da una stella; per farlo dobbiamo conoscere la sua temperatura, da distanza dalla Terra, e il valore della sua superficie.

 

Esercizio

Consideriamo una sfera metallica di raggio 4,0 cm, che viene riscaldata fino alla temperatura di 260 k. Sappiamo che il valore di e, in questo caso, e di 0,30;  quanta energia viene emessa dalla sfera in un minuto?

Per determinare l’energia emessa dalla sfera, possiamo ricavare tale valore dalla formula vista precedentemente; moltiplicando entrambi i membri dell’equazione per ∆t:

$frac(∆E)(∆t) = e * z * S * T^4        to       ∆E = e * z * S * T^4 * ∆t$

Conosciamo i valori di e e di z, e sappiamo che il tempo da considerare è di 1 minuto, e quindi di 60 secondi; abbiamo il valore della temperatura e possiamo ricavare il valore della superficie del corpo interessata dall’irraggiamento.

Sapendo che il corpo in questione è una sfera, di cui conosciamo il raggio e ricordando che la superficie sferica si ottiene con la seguente espressione:

$S = 4πr^2 $

la formula precedente diventa:

$∆E = e * z * 4πr^2 * T^4 * ∆t$

Sostituiamo ora i valori numerici e determiniamo la quantità di energia che viene emessa:

$∆E = 0,3 * 5,67 * 10^(-8) * 4π (0,04)^2 * (260)^4 * 60 = 93,7 J $

 

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Il moto browniano

Il moto browniano

Tutti i corpi con cui siamo in contatto sono costituiti da particelle piccolissime, formate da molecole, che sono a loro volta costituite da atomi. Le particelle che formano i solidi sono praticamente immobili, mentre quelle dei liquidi possiedono più gradi di libertà.

Nel caso dei gas, invece, le particelle sono completamente libere di muoversi, e osservando il loro movimento con un microscopio possiamo renderci conto che il loro moto è piuttosto irregolare.

Consideriamo un granello di polvere che si muove in acqua; il suo moto è a zigzag, e viene definito moto browniano, dal nome dello scienziato che per primo studiò tale fenomeno, Robert Brown.

Dagli studi effettuati, si ipotizzò che il moto del granello di polvere fosse dovuto alle particolari interazioni che esso ha con le molecole di acqua; come abbiamo detto in precedenza, le molecole di un fluido sono libere di muoversi, e si muovono con un moto irregolare; nel farlo urtano i corpi che si trovano nel fluido.

Di conseguenza, i granelli di polvere sono continuamente colpiti dalle molecole di acqua che, colpendoli di volta in volta da direzioni differenti, e in numero variabile, causano così, il loro moto a zigzag.

 

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Il moto browniano dei granelli di polvere.

 

Il moto browniano è tipico anche dei gas: le particelle dei gas sono estremamente piccole rispetto agli oggetti con cui vengono in contatto, e per questo, nell’analizzare il loro comportamento, si parla di modello microscopico dei gas.

 

Il modello microscopico del gas perfetto 

Per studiare un gas al livello microscopico, è necessario creare un modello di gas che permette di visualizzare il comportamento di esso quando vi è una variazione nei parametri che lo rappresentano, e in particolare quando variano temperatura e pressione. Per questo, è stato creato un modello di gas perfetto su cui si basa la teoria cinetico-molecolare dei gas. Questa teoria afferma che:

  • I gas sono costituiti da un grandissimo numero di particelle che si muovono incessantemente e con un moto caotico; questo si definisce moto di agitazione termica;
  • il volume complessivo delle particelle di gas è trascurabile rispetto al volume totale che esso occupa;
  • le forze di attrazione tra le particelle di gas possono sono trascurabili;
  • le particelle urtano in maniera elastica le pareti del recipiente;
  • durante il moto, l’energia può essere trasferita tra le particelle, ma l’energia cinetica media non cambia se la temperatura del gas rimane costante;
  • l’energia cinetica media delle particelle è proporzionale alla temperatura assoluta del gas; a temperature uguali corrisponde una stessa energia cinetica media delle molecole;

Nei punti precedenti, che illustrano la teoria cinetico-molecolare dei gas, si è parlato di energia cinetica media delle particelle. Infatti, essendoci un numero grandissimo di particelle all’interno di un gas, non si può determinare l’energia cinetica di ognuna; si possono però prendere in considerazione i valori medi delle grandezze microscopiche.

Ad esempio, possiamo considerare l’energia cinetica media delle particelle di un gas. Se indichiamo con k1, k2, …,kn le energie cinetiche di n particelle, l’energia cinetica media è data dalla formula:

$k_m = frac(k_1 + k_2 + …. + k_n)(n) =frac(1)(n) * \sum_{i=1}^n k_i $

Dal momento, però, che non è possibile conoscere tutti i valori  $k_1$ , $k_2$ , …, $k_n$  delle energie cinetiche delle singole particelle, per calcolare l’energia cinetica media si utilizza il teorema di equipartizione dell’energia:

$k_m = frac(l)(2) * k_B * T $

dove T indica la temperatura assoluta del gas, e $k_B$ è una costante, detta costante di Boltzmann, che vale  $1,381 *10^(-23) J/K $.

l invece indica i gradi di libertà della molecola, cioè il numero di coordinate che ci servono per descrivere il suo moto. Per una molecola monoatomica, costituita da un solo atomo, sono necessarie tre coordinate per descrivere il suo moto (x,y,z); abbiamo quindi:

$k_m = frac(3)(2) * k_B * T $

Consideriamo il caso in cui la molecola è formata da due atomi; ora abbiamo bisogno di conoscere tre coordinate relative al suo baricentro, e due coordinate relative alla sua angolazione; di conseguenza la sua energia cinetica vale:

$k_m = frac(5)(2) * k_B * T $

 

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La pressione dei gas perfetti dal punto di vista microscopico

Come sappiamo, ogni gas contenuto in un recipiente esercita una pressione sulle pareti del recipiente che lo contiene. Interpretando la situazione da un punto di vista microscopico, come abbiamo già visto, notiamo che il gas è formato da un grandissimo numero di particelle che si muovono in maniera caotica e disordinata.

Queste particelle, nel loro moto, urtano inevitabilmente altre particelle e anche le pareti del recipiente. Tra i punti costituenti la teoria cinetico molecolare dei gas, abbiamo visto che tali urti sono urti elastici, e proprio essi sono responsabili della pressione che il gas esercita sul recipiente.

Infatti, ogni particella che urta la parete esercita una forza su di esso, e di conseguenza crea una pressione; sebbene la forza esercitata da ogni particella sia molto piccola, l’insieme delle numerosissime particelle, che si muovono molto rapidamente, crea una pressione totale notevole.

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Gli urti delle particelle contro le pareti del recipiente creano una pressione interna su di esso.

 

Anche in questo caso, come per l’energia cinetica, è stato possibile determinare la forza media che le particelle esercitano sulle pareti del recipiente, e di conseguenza anche la pressione media che ne deriva.

Poiché sono presenti degli urti, la quantità di moto si conserva; di conseguenza, la variazione della quantità di moto della parete è uguale alla variazione della quantità di moto della particella che la urta.

Il modo in cui le particelle urtano le pareti è molto variabile, e in particolare le particelle colpiscono le pareti in direzione obliqua; per questo, nella dimostrazione, per rendere i calcoli più semplici, si suppone che le particelle colpiscano tutte le pareti in modo perpendicolare, e con la stessa velocità. Inoltre, si suppone che il recipiente che contiene il gas sia un recipiente cubico, sul cui spigolo si trovi l’origine di un ipotetico sistema si riferimento in tre variabili:

 

moto-particelle

 

Si utilizza, quindi, il teorema dell’impulso, considerando invece che la forza di una singola particella che agisce in un tempo molto breve, la forza media che viene esercitata in un intervallo di tempo ∆t.

Dal valore della forza media, conoscendo l’area di una singola parete del recipiente, e dividendo per questa il valore della forza, si ottiene un’espressione per la pressione media, che è riassunta nella seguente formula:

$ p = frac(2NK_m)(3V) $

dove N indica il numero di particelle, Km l’energia cinetica media e V il volume occupato dal gas.

 

Esercizio

Consideriamo un recipiente cubico all’interno del quale sono contenute  $2,02 * 10^22$  molecole di un gas perfetto. Si sa che il gas esercita sulle pareti del recipiente una pressione di  $5,50 * 10^4 Pa$, e che il volume che esso occupa è di  $3,38 * 10^-3 m^3$.  Calcoliamo la forza che il gas esercita sulle pareti del contenitore, e l’energia cinetica media delle particelle.

Dato che il recipiente all’interno del quale si trova il gas è di forma cubica, conoscendo il volume del gas possiamo determinare il valore del suo spigolo; infatti, il volume di un cubo si calcola come  $l^3$, essendo l lo spigolo; abbiamo, quindi:

$V = l^3        to      l = root(3)(V) $

Poiché ogni faccia del cubo è di forma quadrata, per determinare l’area di una faccia eleviamo al quadrato il suo lato:

$A = l^2 = (root(3)(V))^2 = V^(2/3) $

Sapendo che la pressione del gas è data dal rapporto della forza media delle molecole sulla superficie su cui è esercitata tale forza (in questo caso consideriamo una faccia), possiamo ricavare la formula inversa:

$ p = frac(F)(A)      to      F = p * A $

e quindi:

$ F = p * A = p *  V^(2/3) $

Sostituendo i valori numerici otteniamo:

$F = 5,05 * 10^4 * (3,38 * 10^(-3))^(2/3) = 11,37 * 10^2 N = 1,14 * 10^3 N $

Determiniamo, ora, l’energia cinetica media delle particelle; per farlo, possiamo utilizzare la formula vista in precedenza, ricavando da essa la formula inversa per  $K_m$:

$p = frac(2NK_m)(3V)     to      K_m = frac(3pV)(2N) $

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo il valore di Km:

$  K_m = frac(3 * 5,05 * 10^4 * 3,38 * 10^(-3))(2 * 2,02 * 10^22) = 12,68 * 10^(-21) J = 1,27 * 10^(-20) J $

 

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La velocità quadratica media e la distribuzione di Maxwell

Quando un gas viene compresso o si dilata, cioè quando viene modificata la sua pressione o il suo volume, sappiamo che anche l’energia cinetica delle particelle cambia; di conseguenza, cambia la loro velocità.

In un gas molto compresso le particelle si muoveranno più velocemente, mentre se il gas si espande la loro energia cinetica sarà minore.

Quando si parla vi velocità delle particelle, però, si può far riferimento a due tipi di velocità.

Possiamo considerare la velocità media delle particelle, espressa come la somma delle velocità delle singole particelle divisa per il numero di particelle:

$v_m = frac(v_1 + v_2 + … + v_n)(N) = 1/N * \sum_{i=1}^N v_i $

Oppure si può parlare di velocità quadratica media; questo tipo di velocità si ricava dalla definizione di energia cinetica media; come sappiamo, infatti, l’energia cinetica media si esprime come somma delle energie cinetiche delle singole particelle diviso il numero di particelle:

$K_m = frac(K_1 + K_2 + … + K_n)(N) = 1/N * \sum_{i=1}^N K_i $

Possiamo esprimere l’energia cinetica di ogni particelle come prodotto della sua massa per la sua velocità al quadrato diviso due (ipotizziamo che le particelle abbiano tutte la stesa massa):

$K_m = frac(K_1 + K_2 + … + K_n)(N) = $

$ = frac(1/2*m*(v_1)^2 + 1/2*m*(v_2)^2 + … + 1/2*m*(v_N)^2 )(N) $

Mettendo in evidenza i termini comuni, otteniamo l’espressione della media dei quadrati delle velocità delle particelle:

$1/2m * frac((v_1)^2 + (v_2)^2 + …. + (v_N)^2)(N) = 1/2 m * (v^2)_m $

La velocità quadratica media si ottiene come radice quadrata della media dei quadrati delle velocità:

$ 〈 v 〉 = sqrt(frac((v_1)^2 + (v_2)^2 + …. + (v_N)^2)(N)) = sqrt((v^2)_m) $

Generalmente, i due tipi di velocità sono diversi, ed in particolare, nel caso dei gas reali, si hanno valori maggiori della velocità quadratica media rispetto alla velocità media; nel caso ideale in cui tutte le velocità  delle particelle sono uguali, si ottengono valori uguali delle due velocità.

La velocità quadratica media può essere espressa con una formula più sintetica, che permette di calcolare il suo valore senza conoscere i valori delle singole velocità delle particelle.

Possiamo ottenere questa espressione sostituendo il valore della velocità quadratica media nell’espressione dell’energia cinetica media:

$K_m = 1/2 m (〈 v 〉)^2 $

Come abbiamo già visto, l’energia cinetica media si esprime con il teorema di equipartizione dell’energia; consideriamo per questa scrittura tre gradi di libertà per le particelle, e quindi la seguente formula:

$K_m = 3/2 k_B * T $

Uguagliando le due espressioni possiamo ricavare la formula per la velocità quadratica media:

$ 1/2 m (〈 v 〉)^2 = 3/2 k_B * T       to       〈 v 〉 = sqrt(frac(3k_B * T)(m)) $

 

La distribuzione di Maxwell

Nei gas reali le particelle che compongono il gas hanno tutte massa diversa e velocità diversa; in particolare, la loro velocità non è costante, e varia continuamente, anche in maniera non prevedibile.

E’ quindi impossibile stabilire, in un preciso momento, la velocità di una particella, così come non ha senso chiedersi quante particelle hanno in un determinato istante, una precisa velocità.

Tuttavia, può essere interessante determinare quante particelle di un gas hanno velocità compresa tra due valori distinti.

Nello studio della distribuzione statistica della velocità, Maxwell ebbe un ruolo fondamentale, in quanto egli fornì una formula che permette di relazionare il numero di particelle di un gas a temperatura T con una velocità, compresa tra v e v+∆v.

La formula che propose è la seguente:

$∆N = frac(4N)(sqrtπ) * (frac(m)(2k_B*T))^(3/2) * v^2 * e^(-frac(mv^2)(2k_B * T)) * ∆v $

In particolare, è possibile esprimere il rapporto ∆N/∆v in un piano cartesiano, ottenendo una particolare curva a campana, che prende il nome di curva di Maxwell, o distribuzione maxwelliana delle velocità.

 

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Curva della distribuzione di Maxwell

 

 

In particolare, l’area compresa tra la cura e l’asse delle ascisse, in un determinato intervallo, è pari al numero delle molecole che hanno velocità compresa tra i due valori di velocità che sono stati scelti come intervallo.

L’area dell’intera distribuzione, invece, fornisce il numero N di particelle totali che compongono il gas.

Dalla forma della curva si può notare che il numero di particelle con velocità particolarmente elevate, o particolarmente piccole, è esiguo, mentre la maggior parte di esse hanno valori di velocità che si avvicinano al valore medio.

 

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L’energia interna

L’energia interna di un corpo viene definita come l’energia totale di tutte le particelle che costituiscono il corpo stesso.

Quindi, l’energia interna di un corpo è data dalla somma di tutte le energie cinetiche, potenziali delle particelle che lo costituiscono.

Nel caso di un gas perfetto, nelle ipotesi della teoria cinetico molecolare, sappiamo che le particelle del gas non interagiscono tra loro;  l’energia che esse possiedono, quindi, è dovuta solamente al loro moto, e pertanto è solo energia cinetica.

Come sappiamo, l’energia cinetica media di una particella di gas perfetto si ottiene con la formula:

$K_m = l/2 k_B * T $

L’energia interna è data dalla somma delle energie cinetiche di tutte le particelle che compongono il gas; se indichiamo con N il numero delle particelle presenti nel gas, possiamo ottenere il valore dell’energia interna (U) moltiplicando l’energia cinetica media di una molecola per il numero di molecole:

$U = N * K_m =  l/2 * N * k_B * T $

dove, lo ricordiamo, l indica il numero dei gradi di libertà della particella, $k_B$  è la costante di Boltzmann e T la temperatura assoluta del gas.

Osserviamo che è possibile esprimere il numero di particelle come prodotto delle moli di gas per il numero di Avogadro; il numero di Avogadro, infatti, esprime proprio il numero di particelle contenute un una mole di qualsiasi sostanza, ed è pari a  $6,022 * 10^23$ .

$N = n*N_A        to       U = l/2 n * N_A * k_B * T $

La costante di Boltzmann si esprime come rapporto tra la costante universale dei gas R e il numero di Avogadro:

$U = l/2 n * N_A * frac(R)(N_A) * T $

Otteniamo, quindi, un’espressione dell’energia interna in funzione del numero di moli del gas:

$U = l/2 nRT $

 

L’energia interna dei gas reali

Una importante differenza tra i due tipi di gas è che per i gas ideali si ipotizza che le particelle non interagiscono tra loro; mentre nel caso dei gas reali non si possono trascurare le forze di coesione tra le molecole.

La presenza di queste forze fa si che, oltre all’energia cinetica, le particelle posseggano anche energia potenziale.

Nel calcolo dell’energia interna, quindi, dobbiamo considerare anche la presenza dell’energia potenziale delle particelle.

L’energia potenziale di un gas reale si definisce come il lavoro che compiono le forze attrattive delle molecole quando il gas viene disgregato, cioè quando le sue molecole vengono allontanate le une dalle altre.

Notiamo che se utilizzassimo la nostra forza per allontanare le particelle, noi staremo compiendo un lavoro positivo, in quanto forza e spostamento hanno stessa direzione e stesso verso; la forza intermolecolare, invece, compie un lavoro negativo, agendo contro lo spostamento. Ne consegue che anche l’energia potenziale del gas reale è negativa.

L’energia interna del gas, infine, è data dalla somma dell’energia cinetica totale delle particelle più l’energia potenziale totale:

$ U = K + E $

 

I contributi delle energie sull’energia interna

Poiché l’energia potenziale è negativa, mentre quella cinetica è sempre positiva, si possono verificare casi in cui l’energia interna risulta positiva, casi in cui invece è negativa, in base a quale delle due energie è maggiore in modulo.

In particolare, in qualsiasi sistema considerato, in generale l’energia cinetica tende a disgregare tale sistema;  infatti le particelle tendono a muoversi e ad allontanarsi disordinatamente. L’energia potenziale, invece, è una misura di quanto siano potenti le forze intermolecolari della sostanza, che tendono invece ad avvicinare le molecole.

I gas, come sappiamo, sono le sostanze più tendenti al “disordine”, in cui le particelle sono più libere di muoversi; il contributo dell’energia potenziale sull’energia interna, infatti, è molto piccolo, e di conseguenza essa è positiva.

Come possiamo immaginare, nel caso dei solidi, invece, le molecole sono legate tra loro da forze molto intense, e la loro forma è ordinata e regolare; per questo, l’energia prevalente è quella potenziale, e di conseguenza l’energia interna dei solidi è negativa.

I liquidi, invece, hanno caratteristiche sia dei solidi che dei liquidi, e rappresentano una situazione intermedia fra essi.

Ad esempio, i liquidi possono prendere la forma del recipiente che li contiene (come i gas); tuttavia le loro particelle non sono sufficientemente libere di muoversi da potersi disgregare (come i solidi). Il contributo che danno le energie cinetica e potenziale sull’energia interna sono pressoché uguali in modulo, e di conseguenza l’energia interna di un liquido è nulla.

 

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I gas reali

I gas reali, a differenza di quelli ideali, sono più complessi e difficili da studiare. Vediamo alcune differenze che essi presentano, e il modo in cui possono essere studiati.

 

L’ equazione di stato dei gas reali

A differenza di un gas ideale, i gas con cui abbiamo a che fare nella vita quotidiana, detti gas reali, presentano situazioni complesse da analizzare.

Per prima cosa un gas ideale può essere considerato rarefatto, cosicché siano trascurabili le interazioni tra le particelle; in un gas reale invece le particelle sono numerosissime e molto ravvicinate tra loro; di conseguenza, esse possono scontrarsi l’un l’altra, e risentono della presenza delle particelle attorno, a causa delle forze intermolecolari.

Inoltre, anche le molecole stesse hanno un volume proprio; il volume che esse occupano nella loro totalità non è più trascurabile rispetto il volume del recipiente, come voleva uno dei punti della teoria cinetico molecolare dei i gas perfetti.

Per studiare i gas reali, quindi, non possiamo più utilizzare le formule che conoscevamo per quelli ideali; infatti, come abbiamo visto, ci sono altre considerazioni di cui dobbiamo tener conto.

Per questo, nella seconda metà dell’ottocento, Johannes van der Waals propose un’equazione, definita in seguito equazione di stato dei gas reali, che è la seguente:

$(p + frac(a)(V_S ^2))(V_S – b) = frac(R)(m_M) * T $

dove i parametri che compaiono sono i seguenti:

  •  p è la pressione del gas reale;
  • Vs è il volume specifico del gas, che si esprime come rapporto del volume occupato dal gas per la sua massa totale (V/M);
  • R è la costante universale dei gas;
  • mM è la massa di una mole del gas;
  • T è la temperatura del gas, in kelvin;
  • a e b sono dei parametri che variano in base al gas reale che si sta esaminando;

In particolare, il rapporto  $a/Vs^2$  descrive l’effetto delle interazioni delle particelle del gas;  Vs – b , invece, è detto covolume ed esprime il volume occupato dalle molecole per unità di massa.

Nel caso, però, in cui il gas è particolarmente rarefatto, le interazioni tra le particelle e la pressione che esse esercitano sono piuttosto piccole; i parametri a e b possono, quindi,  essere considerati nulli, ottenendo così l’equazione di stato dei gas perfetti.

Come sappiamo, i gas in generale, sia quelli ideali che quelli reali, presentano un noto incessante delle particelle che li costituiscono, e possiedono un’elevata energia cinetica, che prevale sull’energia  potenziale.

La presenza, però, di un moto delle particelle interne si verifica in qualunque corpo, indipendentemente dallo stato di aggregazione in cui esso si trova.

 

Il moto di agitazione termica

I tre stati di aggregazione (solido, liquido e gas) presentano caratteristiche ben differenti; tuttavia, vi è un comportamento che li accomuna.

Sia nei gas, che nei liquidi che nei solidi vi è un moto incessante delle particelle, più o meno evidente a seconda dello stato di aggregazione; questo è dovuto alla temperatura del corpo, e viene definito moto di agitazione termica.

Infatti, l’energia cinetica media di traslazione delle particelle di un corpo è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta del corpo;  questo aspetto riguarda qualsiasi oggetto.

Nel caso dei gas si manifesta con maggiore intensità, infatti le particelle del gas si muovono con velocità elevate e in maniera caotica. Lo stesso avviene per i liquidi, se pur in modo minore.

I solidi, come sappiamo, sono costituiti da particelle legate tra loro da forze molto intense, e le molecole sono disposte ordinatamente a formare un reticolo cristallino. Tuttavia, anche in questo caso, queste particelle oscillano in continuazione attorno ad un punto di equilibrio; per questo si parla di agitazione termica anche per i solidi.

 

 

I passaggi di stato: fusione e solidificazione

Come sappiamo, in natura sono presenti tre stati di aggregazione: solido, liquido e gassoso.

Lo stato fisico in cui si trova un corpo, però, più variare in base alla variazione di alcuni parametri che lo riguardano; tra questi vi sono la temperatura e la pressione.

Esaminiamo ora il modo in cui avvengono il passaggio dallo stato solido a quello liquido (fusione) e dalla stato liquido a quello solido (solidificazione).

 

La fusione

La fusione, come abbiamo detto in precedenza, è il passaggio di stato dallo stato solido a quello liquido; possiamo osservare questo fenomeno anche nel quotidiano, lasciando per esempio un cubetto di ghiaccio al sole: noteremo che nel giro di poco tempo, questo si sarà trasformato completamente in acqua.

 

fusione
Il processo di fusione: l’energia viene fornita dall’ambiente.

 

La fusione di un corpo segue tre leggi ben precise:

  • ogni sostanza, ad una determinata pressione, ha una temperatura specifica di fusione;
  • durante la fusione del corpo, per tutta la durata del fenomeno, fino a quando tutto il corpo non ha terminato la trasformazione, la sua temperatura rimane costante;

Questo accade perché, inizialmente l’energia, o il calore, che viene fornito serve per aumentare la temperatura del corpo, e di conseguenza l’energia cinetica media delle sue particelle.

Quando si raggiunge la temperatura di fusione, però, le particelle hanno già raggiunto una determinata energia cinetica; questa è sufficiente da permettergli di iniziare a rompere il reticolo cristallino e di opporsi alle forze attrattive.

L’energia che stiamo fornendo, quindi, non servirà più ad aumentare la loro energia cinetica (per questo non aumenta la temperatura), ma verrà impiegata per rompere i legami chimici che tendono unite le particelle.

Ciò significa che, durante il processo di fusione, non aumenta l’energia cinetica della sostanza, ma la sua energia potenziale.

  • se il corpo di massa m si trova già alla temperatura di fusione, l’energia necessaria a fondere completamente il corpo è direttamente proporzionale alla sua massa e al numero di legami del reticolo cristallino;

In particolare, quest’ultima legge può essere espressa dalla seguente formula:

$ ∆E = L_f * m$

dove il simbolo $L_f$  indica una costante, che prende il nome di calore latente di fusione; questa quantità è numericamente uguale all’energia che si deve fornire per fondere completamente 1 kg della sostanza che stiamo considerando.

Nella maggior parte dei casi, questo passaggio di stato avviene con scambio di calore; di conseguenza, possiamo trovare l’energia ∆E scritta come Q.

 

La solidificazione

La solidificazione è il passaggio di stato inverso a quello della fusione; si tratta, quindi, del passaggio dallo stato liquido a quello solido.

Anche in questo caso, molto spesso, il passaggio di stato avviene quando vi è un cambiamento di temperatura; un esempio pratico consiste nel mettere in surgelatore una bottiglietta di acqua; dopo qualche ora l’acqua si sarà trasformata in ghiaccio, in seguito ad una diminuzione di temperatura.

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Il processo di solidificazione: l’energia viene ceduta all’ambiente.

 

Anche in questo caso, vediamo alcune leggi che riguardano la solidificazione:

  • per una qualunque sostanza, ad una determinata pressione, la solidificazione avviene ad una temperatura specifica, detta temperatura di solidificazione; questa è uguale in ogni caso alla temperatura di fusione della sostanza allo stato solido;
  • per la conservazione dell’energia, si ha che l’energia necessaria per fondere una sostanza deve essere uguale in modulo a quella che si deve fornire per solidificare una stessa quantità di quella sostanza;

In particolare, durante la solidificazione la sostanza cede energia all’ambiente; di conseguenza l’energia o il calore che si scambia avrà segno negativo:

$ ∆E = – L_f * m$

Come avviene per la fusione, anche nel caso della solidificazione durante il processo la temperatura della sostanza rimane invariata, fino alla completa solidificazione. In questo caso, infatti, l’energia che viene ceduta dal liquido non servirà più a diminuire l’energia cinetica media delle sue particelle;  servirà invece per permettere la ricostruzione del reticolo cristallino del solido.

 

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I passaggi di stato: vaporizzazione e condensazione

La vaporizzazione e la condensazione sono passaggi di stato che riguardano lo stato liquido e quello gassoso; in particolare, si ha vaporizzazione quando una sostanza allo stato liquido passa a quello gassoso, e condensazione quando un gas passa alla fase liquida.

 

evaporazione-condensazione

 

Così come avviene pera la fusione e la solidificazione, anche i passaggi di stato che riguardano liquidi e gas possono avvenire a causa di una differenza di temperatura, cioè attraverso una passaggio di calore.

Ad esempio, se abbiamo una pentola piena d’acqua sui fornelli, noteremo sul coperchio di essa la formazione di goccioline d’acqua: infatti, l’acqua nella pentola tende ad evaporare, in quanto essa viene riscaldata dal calore del fornello; quando, però, raggiunge la superficie del coperchio, che si trova ad una temperatura molto più bassa, il vapore che si era formato ritorna allo stato liquido.

 

La vaporizzazione

Così come abbiamo visto per gli altri passaggi di stato, anche in questo caso possiamo esaminare delle leggi che descrivono l’evaporazione di un gas:

  • tutti i liquidi presentano, ad una determinata pressione, una temperatura particolare alla quale avviene la loro vaporizzazione, detta appunto temperatura di ebollizione;
  • durante tutta la durata del fenomeno di vaporizzazione la temperatura del liquido si mantiene costante;

Anche in questo caso, il calore che viene fornito inizialmente al liquido serve per aumentare la sua temperatura (e quindi anche l’energia cinetica media delle particelle), fino al raggiungimento della temperatura di ebollizione;

quando questa temperature viene raggiunta, il calore fornito non andrà più ad aumentare la temperatura, ma servirà per rompere i legami tra le particelle del liquido, permettendogli, così, di passare allo stato gassoso.

  • l’energia, o il calore, necessario per permettere ad una sostanza di passare dallo stato liquido a quello gassoso, che si trova alla temperatura di ebollizione, è direttamente proporzionale ala massa del liquido; il valore di tale energia è espresso dalla seguente formula:

$∆E = L_v * m $

dove la costante Lv è definita calore latente di vaporizzazione; essa è numericamente uguale alla quantità di energica necessaria per far passare allo stato di vapore 1 kg di una determinata sostanza.

 

Ebollizione ed evaporazione

Notiamo che la vaporizzazione può essere rappresentata da due fenomeni simili, l’ebollizione e l’evaporazione.

La differenza tra i due fenomeni sta nel fatto che, nel caso dell’ebollizione la temperatura del liquido rimane costante per la durata del fenomeno; nel caso dell’evaporazione, invece, ciò non avviene.

Nel caso del calore latente di vaporizzazione, in particolare, si fa riferimento alla vaporizzazione di una sostanza con mantenimento della temperatura costante durante il fenomeno.

Da notare che durante la vaporizzazione non si ha un passaggio allo stato gassoso di tutte le molecole di liquido contemporaneamente; infatti, quando il liquido viene riscaldato possono passare allo stato di vapore solo le particelle che si trovano sulla superficie di esso, e che hanno raggiunto una velocità (rivolta verso l’alto) sufficientemente elevata da permettere di rompere i legami intermolecolari.

Con l’evaporazione, quindi, si distaccano dal liquido le particelle più veloci, con conseguente diminuzione dell’energia cinetica media delle particelle del liquido.

 

La condensazione 

La condensazione, come abbiamo già visto, è il passaggio di stato inverso alla vaporizzazione, cioè il passaggio dalla fase gassosa a quella liquida.

Anche in questo caso, vediamo che l’energia che occorre fornire per permettere ad un liquido di passare allo stato gassoso è uguale, in modulo, all’energia che la sostanza gassosa cede all’ambiente quando essa passa allo stato liquido durante la condensazione.

Poiché l’energia viene ceduta dal sistema all’ambiente, il calore scambiato avrà segno negativo;  la formula che lo descrive è la seguente:

$∆E = L_v * m $

 

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Il vapor saturo

 

Consideriamo un liquido, ad esempio, l’acqua, chiuso all’interno di un recipiente, riempito per metà da esso. Nella parte superiore del recipiente sono presenti molecole di acqua allo stato gassoso, evaporate dal liquido sottostante.

La quantità di molecole in fase di vapore influenza l’evaporazione stessa del liquido; le molecole di gas, infatti, vendo a contatto con la superficie dell’acqua possono tornare allo stato liquido.

In particolare, all’inizio dell’evaporazione sono presenti poche particelle in fase gassosa, quindi le molecole che si trovano sulla superficie del liquido che che possono staccarsi da esso, passando alla fase di gas, sono più numerose di quelle che vi rientrano.

 

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Con il passare del tempo, le particelle che passano alla fase gassosa aumentano sempre di più in numero, e ciò fa si che vi sia un aumento anche nel numero di particelle che si trovano a contatto con la superficie del liquido, e che quindi possono ritornare in esso.

Questo processo continua fino a quando il numero di particelle che  passa alla fase gassosa uguaglia il numero di particelle che rientra in fase liquida; si stabilisce, così, un equilibrio dinamico tra le due fasi, e da punto di vista macroscopico sembra che l’evaporazione dell’acqua sia terminata.

 

vapor-saturo

 

Quando viene raggiunta questa situazione di equilibrio, il gas presente nella parte superiore del recipiente esercita una pressione sul liquido sottostante e sulle pareti del contenitore; questa pressione viene definita pressione (o tensione) di vapore saturo, e rappresenta la massima pressione che quel gas può esercitare ad una precisa temperatura.

Quando la pressione di vapore del gas uguaglia la pressione atmosferica, la temperatura raggiunta dal gas si definisce temperatura di ebollizione.

Nel caso dell’acqua, ad esempio, la pressione di vapore uguaglia quella atmosferica quando, al livello del mare, la temperatura del liquido raggiunge i 100° C.

Come sappiamo, la pressione atmosferica varia in base all’altitudine a cui ci troviamo. Al livello del mare, ad esempio, la pressione atmosferica è minore di quella che si ha in montagna, di conseguenza la temperatura di ebollizione dell’acqua al livello del mare sarà minore rispetto a quella che si ha ad altitudini maggiori.

In particolare, possiamo notare la presenza della pressione di vapor saturo anche nel fenomeno dell’ebollizione di un liquido. Infatti, quando un liquido viene scaldato da una sorgente di calore, al suo interno si formano delle bollicine di vapore, al cui interno si ha una pressione pari esattamente a quella del vapore saturo.

Con l’aumento della temperatura del liquido, continuando a fornire calore, la pressione di vapore saturo aumenta, fino al raggiungimento della pressione atmosferica; quando questo accade, le bollicine vengono spinte verso la superficie dl liquido (grazie alla spinta di Archimede), e possono distaccarsi da esso, dando luogo, così, all’ebollizione.

 

La sublimazione e il brinamento

In determinate condizioni di temperatura e pressione è possibile il passaggio di stato diretto dallo stato gassoso a quello solido, e viceversa, dallo stato solido a quello gassoso.

Nel caso di sostanze che presentano un’alta pressione di vapore a temperatura ordinaria, e che si trovano allo stato solido, può avvenire il fenomeno della sublimazione, cioè il passaggio diretto dallo stato solido a quello aeriforme.

Tra le sostanze più soggette a brinamento ricordiamo lo iodio e la canfora.

La trasformazione inversa alla sublimazione è il brinamento, cioè il passaggio diretto di un gas allo stato solido. Il brillamento è particolarmente evidente nella formazione della brina sulla superficie delle foglie delle piante; ciò è dovuto al fatto che il vapore acqueo che si trova nell’aria, a causa delle basse temperature, si trasforma in cristalli di ghiaccio che si depositano, poi, sulle superfici con cui vengono a contatto.

Il brinamento può essere osservato anche nel caso dello zolfo; in seguito a raffreddamento a pressione atmosferica, questo passa allo stato solido dando luogo a dei depositi sul terreno.

 

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La temperatura critica

Abbiamo già visto che è possibile far avvenire una passaggio di stato variando la temperatura del corpo in esame. Ad esempio, per condensare un gas, cioè farlo passare alla fase liquida, si può raffreddare il gas mantenendo costante la sua pressione.

Nel caso della condensazione, però, è possibile agire anche modificando la pressione di un gas; infatti, se abbiamo un gas che si trova in un recipiente contenente anche la sostanza allo stato liquido, e comprimiamo il gas, cioè aumentiamo la sua pressione, parte di questo gas passerà alla fase liquida.

Questo è dovuto al fatto che il valore di pressione che viene raggiunto dal gas non può superare il valore della tensione  di vapore, e per questo necessariamente devono diminuire le particelle di gas che occupano quel volume; per questo, alcune di esse, quelle a contatto con la superficie del liquido, rientreranno in esso.

La condensazione mediante variazione di pressione, però, non avviene per tutti i gas. Ad esempio, l’aria che respiriamo, anche se sottoposta a pressioni molto elevate, con passa alla fase liquida.

Nel caso di altri gas, invece, la condensazione tramite variazione di pressione avviene solo a determinate temperature; in particolare, vi è una temperatura, definita temperatura critica, e variabile per ogni sostanza, che rappresenta il valore limite di temperatura per il quale può avvenire la condensazione di tale gas.

La definizione di temperatura critica, inoltre, permette di distinguere due categorie di sostanze gassose, i vapori e i gas.

  • I vapori sono sostanze aeriformi caratterizzate dal fatto possedere una temperatura, allo stato naturale, minore della loro temperatura critica; di conseguenza essi possono condensare se sottoposti a pressione;
  • i gas, invece, si trovano ad una temperatura maggiore della loro temperatura critica; quindi, anche se sottoposti ad elevate pressioni, non possono condensare.

Nei diagrammi di fase è possibile esaminare le proprietà del passaggio di stato da liquido ad aeriforme e viceversa. In tali diagrammi vi è un asse verticale in cui si riportano i valori delle pressioni, e un asse orientale dove invece si hanno valori del volume della sostanza.

Le curve presenti nel diagramma vengono definite isoterme, in questo descrivono trasformazioni della sostanza a temperatura costante.

 

diagramma-di-stato
Diagramma di stato

 

Il vapore acqueo

Il vapore acqueo si trova ovunque nell’ambiente in cui viviamo e nell’aria che respiriamo; in base all’altezza cui si trova esso è sottoposto a pressioni differenti.

La sua temperatura critica è di 374°C, per questo esso condensa facilmente se compresso a temperatura ambiente.

Nei punti in cui la sua pressione supera la tensione di vapore (alla temperatura ambiente cui si trova), il vapore tende a condensare. In particolare, poiché ci troviamo in aria, la condensazione avviene attorno a delle particelle di polvere o di uno che si trovano nell’aria; queste vengono definite nuclei di condensazione; questo fenomeno da luogo alle nuvole o alle nebbie.

Vi sono molti fenomeni atmosferici che sono determinati dalla condensazione del vapore acqueo; ad esempio la brina, dovuta al brinamento del vapore che passa alla fase solida; o le piogge, dovute ad un accumulo di particelle di vapore che, anche all’interno delle nubi, passano alla fase liquida, e ricadono giù; o la neve dovuta, anch’essa, all’accumulo di particelle di vapore nelle nubi, che si trasformano in cristalli di ghiaccio se la temperatura esterna è intorno agli 0°C.

E’ possibile tener conto della quantità di vapore acqueo presente in un determinato ambiente rapportando il valore della pressione di vapore acqueo misurata in un determinato luogo e in un preciso istante, con la  tensione del vapore saturo dell’acqua nelle medesime condizioni.

La grandezza fisica che si ottiene prende il nome di umidità relativa, ed è espressa dalla seguente formula:

$ H_r = frac(p_(acqua))(p_(v. saturo)) $

 

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Il principio zero della termodinamica

Premessa alla termodinamica

Come abbiamo già visto, l’energia può essere trasferita da un corpo ad un altro attraverso uno scambio di calore, o attraverso l’azione di una forza che compie un lavoro.

La termodinamica è la disciplina che studia proprio le leggi con cui i sistemi scambiano energia con l’ambiente.

Ricordiamo che in ambito chimico e fisico si intende per sistema l’insieme di corpi che è oggetto di studio; spesso questi sono racchiusi da una superficie chiusa, che può lasciar passare materia ed energia; l’ambiente, invece, è tutto ciò che è circostante al sistema.

Quando si esamina un determinato sistema, che può essere, per esempio, un cilindro chiuso contenente un gas, esso viene descritto da tre grandezze fondamentali; queste sono il volume, la temperatura e la pressione. Si parla, quindi, di stato del sistema.

Può capitare che il sistema che stiamo considerando presenti al suo interno un qualsiasi fluido, non necessariamente un gas; l’importante è che tale fluido possa essere descritto da un’equazione che relazioni le grandezze fondamentali che descrivono il suo stato. In questo caso, il fluido viene definito, in termodinamica, fluido omogeneo.

Un’importante caratteristica di un sistema è, come abbiamo già visto nel caso dei gas perfetti, l’energia interna; questa viene espressa come energia totale del sistema, cioè somma di tutte le energie del sistema stesso.

 

L’energia interna

L’energia interna è una funzione di stato, cioè una grandezza fisica che dipende solo dalle condizioni iniziale e finale del sistema; questa grandezza non dipende dalle trasformazioni intermedie che esso ha subito nel passaggio tra i due stati.

La variazione di energia interna ∆U, infatti, è data dalla differenza dell’energia interna nello stato finale e quella nello stato iniziale:

$∆U = U_f – U_i $

nel calcolo non si tiene conto della particolare trasformazione che ha portato a questa variazione di energia.

L’energia interna di un sistema, inoltre, dipende dalla quantità di materia che costituisce il sistema fisico in questione, o dal numero di particelle che lo costituiscono; infatti, come sappiamo, l’energia interna può essere espressa, nel caso di un gas perfetto, dalla seguente formula:

$U = l/2 Nk_BT $

dove N indica proprio il numero di molecole del gas.

Una grandezza come l’energia interna, che dipende dalla quantità di materia del sistema in esame, viene definita grandezza estensiva. Le grandezze che invece non dipendono dalla massa o dalle molecole del sistema fisico oggetto di studio vengono dette intensive.

Con queste premesse possiamo esaminare il comportamento dei sistemi fisici quando avvengono scambi di calore, e quindi di energia, da un sistema all’altro, o con l’ambiente esterno.

 

Il principio zero della termodinamica

Il principio zero della termodinamica trova applicazione in tutti i casi in cui il sistema in esame presenti la stessa pressione e la stessa temperatura in tutti i suoi punti; ovvero che esso si trovi in equilibrio termodinamico.

L’equilibrio termodinamico prevede che il corpo in questione sia in equilibrio anche da punto di vista meccanico, termico e chimico; cioè che la risultante delle forze esterne che agiscono sul sistema sia uguale a zero; che la temperatura del corpo sia uniforme in ogni suo punto; e che la struttura interna e la composizione chimica del corpo rimangano inalterate.

Sotto queste ipotesi possiamo enunciare il principio zero, secondo il quale se un corpo A è in equilibrio termico con un corpo B, e anche un corpo C è in equilibrio termico con B, allora i corpi A e C sono in equilibrio termico tra loro.

Per esempio, ipotizziamo di misurare con un termometro la temperatura di un corpo A, e di ottenere un valore di 30° C. Ciò significa che, se il termometro inizialmente era azzerato, ora si è instaurato un equilibrio termico tra i due corpi; sia A che il termometro si trovano infatti alla temperatura di 30°C.

Se il termometro viene messo in contatto con un corpo B e la sua temperatura non varia, significa che il termometro è in equilibrio termico anche con B; di conseguenza anche il corpo B avrà una temperatura di 30°C. Possiamo concludere che i corpi A e B sono in equilibrio termico tra loro.

 

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Il lavoro termodinamico

Quando un sistema subisce una trasformazione quasistatica, viene compiuto un lavoro. Ad esempio, se consideriamo un gas racchiuso all’interno di un recipiente dotato di pistone; se scaldiamo il sistema, vi sarà un aumento del volume del sistema, e un conseguente innalzamento del pistone.

In questo caso, il sistema sta compiendo un lavoro positivo.

Se, invece, comprimiamo il pistone, facendo diminuire il volume del gas, siamo noi che compiamo un lavoro positivo;  il lavoro compiuto dal gas, invece, avrà segno negativo.

In generale, possiamo esprimere il valore del lavoro che viene compiuto come prodotto della pressione del gas per la variazione di volume che esso subisce:

$ W = p * ∆V $

Questa formula spiega, quindi, il segno del lavoro; nel caso in cui il gas si espande, il volume finale è maggiore di quello iniziale, quindi il lavoro ha segno positivo. Nel caso in cui, invece, il gas viene compresso, il volume finale è minore di quello iniziale, quindi il lavoro compiuto dal gas è negativo.

In generale, se osserviamo un grafico pressione-volume, possiamo da questo ricavare il valore del lavoro compiuto dal gas durante la trasformazione. Il modulo del lavoro, infatti, è dato dall’area della regione compresa tra la curva e l’asse orizzontale; esso è quindi dato dall’integrale della funzione che rappresenta la curva.

Notiamo, quindi, che nel caso delle trasformazioni isocore, in cui si ha ∆V = 0, effettivamente non è possibile calcolare tale area, che risulterà quindi pari a zero.

 

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Lavoro e trasformazioni quasistatiche

 

Vediamo ora il caso di una trasformazione ciclica, cioè una trasformazione per cui li stato iniziale del sistema corrisponde allo stato finale.

Durante la trasformazione, il sistema subisce sia una fase di compressione, sia una fase di espansione; a queste due fasi corrispondono, rispettivamente, un lavoro negativo e un lavoro positivo; calcolando la loro somma otterremo il lavoro complessivo.

Rappresentando la situazione in un grafico pressione-volume notiamo che il lavoro finale è dato dall’area della regione racchiusa all’interno del grafico; questa è ottenuta come differenza delle aree della parte superiore (cioè della espansione) e della parte inferiore (cioè della compressione) del grafico.

 

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Lavoro e trasformazioni cicliche

 

Il lavoro, a differenza dell’energia interna, non è una finzione di stato; di conseguenza non dipende esclusivamente dallo stato iniziale e da quello finale della trasformazione, ma dipende proprio dal tipo di trasformazione.

Dal momento che il lavoro è dato proprio dall’area sottesa dalla curva della trasformazione, a parità di punto iniziale e di punto finale, due trasformazioni che presentano curve differenti avranno anche valori differenti delle aree che esse sottendono.

 

Esercizio

Consideriamo un gas perfetto contenuto in un recipiente dotato di pistone mobile. Il gas si espande compiendo un lavoro positivo pari a 4500 J. Sapendo che la trasformazione è isobara, e il valore della pressione è di  $2,5 * 10^5 Pa$, e che il gas raggiunge un volume finale di  $45 dm^3$, quale era il volume iniziale del gas?

Come abbiamo visto in precedenza, il lavoro compiuto dal gas durante una trasformazione è dato dal prodotto della pressione del gas per la variazione di volume (volume finale meno volume iniziale).

$W = p * ∆V = p * (V_f – V_i)$

Da questa relazione, quindi, possiamo ricavare la formula inversa per il valore del volume iniziale:

$V_i = frac(-W + p * V_f)(p) = – fracW/p + V_f $

Ricordiamo che il valore del volume deve essere espresso in metri cubi, quindi occorre trasformare il valore del volume finale:

$ 45 dm^3 = 45 * 10^(-3) m^3 = 0,045 m^3$

Sostituiamo i valori numerici e calcoliamo il valore del volume occupato inizialmente dal gas:

$V_i = – fracW/p + V_f  = – frac(4500)(2,5 * 10^5) + 45 = 0,027 m^3 = 27 dm^3$

 

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Primo principio della termodinamica

Consideriamo un gas perfetto contenuto in un recipiente dotato di pistone mobile.

Ipotizziamo di far espandere il gas a pressione costante (per esempio fornendogli calore), in modo che il suo volume passi da quello iniziale ($V_A$) a quello finale ($V_B$).

Dalla variazione di volume, e quindi anche di temperatura, possiamo affermare che nella trasformazione è variata anche l’energia interna del gas, e in particolare si ha una variazione di energia interna pari a:

$∆U = U_B – U_A = l/2 Nk_BT_B – l/2 Nk_BT_A $

Dato che stiamo fornendo calore al gas, la temperatura finale sarà maggiore della temperatura iniziale, e di conseguenza avremo un valore di energia interna positivo.

Possiamo analizzare la variazione di energia interna anche da un altro punto di vista.

Come sappiamo, durante l’espansione un gas compie un lavoro positivo sul pistone, che viene sollevato; di conseguenza, il sistema perde una parte della sua energia iniziale. D’altra parte, però, avendo assorbito del calore dall’ambiente esterno mediante riscaldamento, il gas ha anche guadagnato energia.

Dal principio di conservazione dell’energia, possiamo enunciare il primo principio della termodinamica, per cui la variazione di energia interna del gas deve essere uguale al calore che viene assorbito meno il lavoro che viene svolto:

$ ∆U = Q – W$

Nel nostro esempio abbiamo considerato l’espansione di un gas, ma il principio può essere applicato a qualsiasi tipo di trasformazione, e ha validità non solo per i gas, ma per qualsiasi sistema.

In altri casi, quindi, la variazione di energia interna può assumere valori negativi.

Esaminiamo, quindi, le applicazioni del primo principio della termodinamica nel caso di altri tipi di trasformazioni.

 

Trasformazioni isobare

Le trasformazioni isobare sono, come abbiamo visto nell’esempio precedente, trasformazioni a pressione costante.

In questo tipo di trasformazioni, per il primo principio della termodinamica, la quantità di calore scambiato si ottiene come somma della differenza di energia interna e del lavoro svolto dal gas sella trasformazione.

Infatti, durante una trasformazione isobara, se viene fornito calore, una parte di esso servirà ad aumentare la temperatura del gas, e quindi si avrà una aumento dell’energia interna, e un’altra parte servirà a far compiere lavoro al gas.

Ricordando che il lavoro compiuto dal gas durante una trasformazione si determina come prodotto della pressione per la variazione di volume, il calore sarà dato dalla seguente formula:

$ Q = ∆U + W = ∆U + p*∆V $

 

Trasformazioni isocore

Le trasformazioni isocore, ricordiamo, sono quelle che avvengono a volume costante. Come abbiamo già visto, il lavoro eseguito dal gas durante una trasformazione di questo tipo è nullo, in quanto la variazione di volume è pari a zero. (L = p∆V = 0)

In questo caso, quindi, applicando il primo principio troviamo che la variazione di energia interna del gas è pari alla quantità di calore che viene scambiato; il calore scambiato può essere trovato dalla seguente formula:

$Q = ∆U = U_f – U_i =   l/2 nRT_f – l/2 nRT_i = l/2 nR (T_f – T_i) $

 

Trasformazioni isoterme

Le trasformazioni isoterme avvengono a temperatura costante, quindi possiamo affermare che la variazione di energia interna del gas è nulla, in quanto ∆T = 0.
Dal primo principio della termodinamica, quindi, possiamo dedurre che la quantità di calore che viene scambiata nella trasformazione è uguale al lavoro che viene compiuto dal gas.

Sappiamo che il lavoro svolto da un gas durante una trasformazione isoterma si ottiene calcolando l’area sottesa dalla curva di trasformazione in un intervallo di volumi. Tale area può essere ottenuta come integrale, in tale intervallo, della funzione che esprime la curva di trasformazione.

Dai calcoli, si ottiene che il calore scambiato è dato dalla seguente formula:

$Q = W = nRT ln(frac(V_f)(V_i)) $

 

Trasformazioni cicliche

Le trasformazioni cicliche sono caratterizzate dal fatto che lo stato finale del sistema coincide con lo stato iniziale.

In particolare, quindi, la temperatura finale del sistema sarà uguale a quella iniziale, cosicché la sua variazione di energia interna sarà nulla.

Come nel caso delle trasformazioni isoterme, quindi, abbiamo che il calore scambiato durante la trasformazione è uguale al lavoro compiuto dal gas; questo è dato dall’area contenuta nella curva chiusa che rappresenta tale trasformazione.

 

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Trasformazioni adiabatiche e calore specifico

 

Le trasformazioni adiabatiche sono trasformazioni che avvengono senza scambi si calore con l’ambiente esterno; ciò significa che il sistema è isolato termicamente, e può essere formato, ad esempio, da un gas contenuto in un thermos.

Nelle trasformazioni adiabatiche, dunque, il calore che viene scambiato è pari a zero, e quindi, dal primo principio della termodinamica, si ha che il lavoro che compie il gas durante la trasformazione è uguale alla variazione negativa di energia interna.

$W = -∆U$

Di conseguenza, se il gas si espande adiabaticamente esso avrà una temperatura finale minore di quella iniziale, quindi la sua energia  interna diminuisce, e la variazione è negativa; il lavoro che compie il gas durante la trasformazione, quindi, è un lavoro positivo.

Se, invece, si ha una compressione adiabatica del gas, attraverso un aumento della pressione, l’ambiente esterno compie un lavoro positivo sul sistema; quindi il lavoro compiuto dal gas sarà un lavoro negativo. Ciò significa che l’energia interna del gas aumenta in seguito alla trasformazione;  si ha quindi anche un aumento della temperatura del gas.

Se rappresentiamo in un grafico pressione-volume la curva di una trasformazione adiabatica, notiamo che essa assomiglia molto a quella di una trasformazione isoterma, ma scende più velocemente verso il basso:

 

trasformazione-isoterma-adiabatica

 

 

I calori specifici di un gas perfetto

Come sappiamo, il calore specifico di un corpo può essere ottenuto come rapporto del calore che viene scambiato sul prodotto della massa per l’unità di tempo:

$ C = frac(Q)(m*∆T)$

Nel caso di un gas la quantità di calore che viene scambiata dipende dal tipo di trasformazione che esso compie.

Nel caso di una trasformazione isocora il calore è uguale alla variazione di energia interna (Q = ∆U); nel caso di una trasformazione isoterma o ciclica esso è uguale al lavoro svolto dal gas (Q = W); nel caso di una isobara si ottiene come somma dell’energia interna con il lavoro svolto (Q = ∆U + p∆V).

Nel caso di una trasformazione isocora, quindi, il lavoro svolto dal è nullo;  tutto il calore che viene fornito servirà ad aumentare l’energia interna del gas, e di conseguenza la sua temperatura.

Per la trasformazione isobara, invece, il calore che viene fornito serve in parte per un aumento della temperatura, e in parte per permettere al gas di compiere lavoro.

A parità di calore, quindi, se facciamo compiere ad un gas una trasformazione isocora avremmo un aumento di temperatura maggiore rispetto ad una sua trasformazione isobara.

Una conseguenza di questo fatto è che il calore specifico di un gas a pressione costante è maggiore del calore specifico dello stesso gas a volume costante; infatti nel primo caso di ha un minore aumento di temperatura, e nella formula ∆T si trova al denominatore.

Si può dimostrare, inoltre, che il calore specifico di un gas può essere calcolato conoscendo la sua massa molare M.

In particolare, nel cado di un gas perfetto a volume costante avremo la seguente relazione:

$c_v = l/2 * R/M $

dove l indica il numero di gradi di libertà delle particelle.

Mentre, nel caso di un gas perfetto a pressione costante, il calore specifico è dato dalla seguente formula:

$c_P = frac(l+2)(2) *R/M $

 

Esercizio

Un gas perfetto subisce una trasformazione isocora, assorbendo una quantità di calore pari a  $1,2 * 10^3 J$.  Mediante tale trasformazione, il gas passa subisce una variazione di temperatura di 15°C. Sapendo che la massa del gas è di 25g, quanto vale il suo calore specifico?

Nel caso di una trasformazione a volume costante sappiamo che tutto il calore che il gas assorbe servirà ad aumentare la sua temperatura.

In questo caso, quindi, possiamo utilizzare la seguente formula per determinare il calore specifico del gas:

$c = frac(Q)(m*∆T) $

Ricordiamo che la massa di esprime in kg, quindi occorre trasformare il valore di massa che abbiamo: 25g = 0,025 kg.

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo il calore specifico del gas;

$c = frac(1200)(0,025*15) = 3200 frac(J)(kg*K) $

 

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Le macchine termiche

 

Le macchine termiche

Le macchine termiche sono degli apparecchi che sfruttano le trasformazioni termodinamiche di una data sostanza per produrre lavoro; il lavoro prodotto può essere poi riutilizzato.

Come abbiamo visto nel caso dei gas, se l’ambiente compie un lavoro positivo del gas, ad esempio attraverso una compressione, se la temperatura è costante, esso assorbe una quantità di calore pari al lavoro che viene svolto. L’energia assorbita permetterà al gas di compiere un lavoro positivo per riespandersi, fino a tornare alla situazione iniziale.

Questo tipo di funzionamento, però, non è utile in termini di lavoro; il lavoro effettuato dall’ambiente sul gas è uguale, in modulo, a quello che i gas può effettuare sull’ambiente, e ciò non è vantaggioso in termini pratici.

Occorre, quindi, trovare delle strategie per rendere il gas capace di compiere un lavoro utile senza che l’ambiente compia un lavoro iniziale su di esso; un modo per farlo ,ad esempio, è quello di raffreddare l’ambiente circostante, così da determinare una compressione naturale del gas. Quando il gas si espanderà compierà un lavoro utile, che può essere sfruttato; abbassando di nuovo la temperatura, poi, il sistema ritornerà nella situazione iniziale, e il gas potrà di nuovo compiere lavoro.

Sfruttando un ciclo di trasformazioni di questo tipo è possibile creare una macchina che produca lavoro utile;  è proprio su questo principio che si basa il funzionamento delle macchine termiche.

La macchina termica, quindi, effettua delle trasformazioni che sono di tipo ciclico, cioè trasformazioni per cui il sistema ritorna esattamente al punto di partenza in seguito alla trasformazione.

 

Una centrale idroelettrica

Un esempio di macchina termica è una centrale idroelettrica; il suo funzionamento si basa su una sorgente calda, che fornisce calore alla macchina, e una sorgente fredda, che permette alla macchina di ritornare al punto di partenza alla fine del ciclo.

 

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Esempio di funzionamento di una centrale idroelettrica.

 

Una parte del calore iniziale che viene fornito alla macchina servirà per scaldare una certa quantità di acqua, che, attraverso una pompa giungerà in una caldaia; qui verrà trasformata in vapore. Il vapore creatosi viene poi convogliato verso una turbina, dove azionerà il movimento delle pale presenti, compiendo così un lavoro utile. Questo lavoro viene sfruttato da un alternatore per produrre energia elettrica.

Dalla turbina, però, non tutto il vapore verrà utilizzato per compiere lavoro; una parte di esso viene convogliato verso la sorgente fredda. In questo modo, il ciclo si chiude, e la macchina si ritrova nella situazione di partenza, potendo cominciare un nuovo ciclo.

In generale, la sorgente fredda non mantiene la sua temperatura quando il ciclo si chiude; infatti, venendo a contatto con il vapore caldo, e dovendolo raffreddare, la sua temperatura subirà un aumento.

In termodinamica, però, al fine di semplificare lo studio di determinati fenomeni, si prendono in considerazione le cosiddette sorgenti ideali di calore, queste si definiscono tali perchè l’aumento (o la diminuzione) di temperatura è così piccolo da essere considerato trascurabile.  Le sorgenti ideali, quindi, mantengono la loro temperatura invariata, qualunque sia la quantità di calore che esse cedono o assorbono.

 

Il lavoro di una macchina termica

Con queste considerazioni, possiamo dare un’espressione del lavoro che viene prodotto nel caso di una macchina termica. Sappiamo, dal primo principio della termodinamica, che per una trasformazione ciclica il lavoro effettuato è uguale in modulo alla quantità di calore scambiato:

W = Q

Nel caso di una macchina termica dobbiamo considerare sia il calore che la macchina assorbe dalla sorgente calda (Qc) sia quello che essa cede alla sorgente fredda (Qf); quindi, il lavoro ottenuto può essere calcolato nel seguente modo:

$W = Q_c + Q_f = Q_c – |Q_f| $

Dalla formula, quindi, possiamo notare che non tutto il calore scambiato serve a produrre lavoro; vi è una parte di calore che viene sottratta, ed è quella che permetterà di ricominciare il ciclo di produzione.

 

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Il secondo principio della termodinamica

Primo enunciato 

Il primo enunciato del secondo principio della termodinamica fu proposto da Lord Kelvin. Come abbiamo già visto, nel caso di una macchina termica, parte dell’energia che viene prodotta durante il ciclo non viene utilizzata per produrre lavoro; questa viene convogliata verso la sorgente fredda, per poter permettere al ciclo di chiudersi e di ricominciare.

L’enunciato di Lord Kelvin afferma che è impossibile ottenere una trasformazione che abbia come unico risultato il fatto di assorbire una determinata quantità di calore da una sola sorgente e di trasformarla completamente in lavoro.

Egli afferma, quindi, che durante il ciclo di una macchina termica necessariamente il lavoro che viene ottenuto dalla macchina deve essere minore del calore che essa riceve dalla sorgente calda; una parte di esso, infatti, viene ceduto alla sorgente fredda.

Notiamo che questa enunciazione del secondo principio sottolinea il fatto che l’assorbimento di calore, che viene poi trasformato in lavoro, deve essere l’unico risultato della trasformazione. Se così non fosse, l’enunciato sarebbe falso. Ad esempio, nel caso delle trasformazioni isoterme abbiamo visto che il calore che viene scambiato nella trasformazione è proprio uguale al lavoro compiuto dal gas (Q = W); in questo caso, infatti, tale lavoro non è l’unico risultato della trasformazione; nel passaggio dallo stato iniziale a quello finale, infatti, vi è anche una variazione di volume del gas.

 

Secondo enunciato 

Il secondo enunciato del secondo principio della termodinamica fu proposto da Rudolf Clausius; egli afferma che è impossibile ottenere una trasformazione che abbia come unico risultato il fatto di far passare calore da un corpo più freddo ad uno più caldo.

Questa enunciazione non afferma che è impossibile il passaggio di calore da un corpo più freddo ad uno più caldo.

SI afferma però che questo processo non può avvenire in maniera spontanea; è necessario che vi sia un lavoro esterno al sistema che permetta tale passaggio.

Un esempio di questo fatto è il funzionamento di un congelatore; esso, infatti, per mantenere al suo interno una temperatura bassa deve cedere calore all’ambiente esterno. Essendo la temperatura del congelatore molto più bassa di quella esterna, il passaggio di calore è, per così dire, contro natura; infatti questo avviene verso un ambiente che si trova a temperatura maggiore.

Di conseguenza, il passaggio non potrebbe avvenire spontaneamente; questo spiega il motivo per cui il congelatore deve essere collegato ad una fonte di energia, quella elettrica, che gli permetta di compiere tale lavoro.

 

Terzo enunciato

Nell’enunciazione del terzo enunciato del secondo principio dobbiamo introdurre una nuova grandezza fisica, definita rendimento della macchina termica.

Tale grandezza esprime l’efficienza con cui la macchina, assorbendo una data quantità di energia, riesce a trasformarla in lavoro; questa grandezza è espressa come rapporto del lavoro totale che viene sviluppato in un circo e la quantità di calore che la macchina riceve dalla sorgente calda:

$η = frac(W)(Q_c)$

Possiamo esprimere il lavoro di una macchina termica come differenza del calore che viene assorbito dalla sorgente calda e quello che viene ceduto alla sorgente fredda; sostituendo tale espressione nella formula precedente, otteniamo la seguente espressione:

$η = frac(Q_c – |Q_f|)(Q_c) = 1 – frac(|Q_f|)(Q_c)$

Il rendimento della macchina termica, quindi, è un valore sempre compreso tra 0 e 1; infatti, in modulo, il calore ceduto è sempre minore o uguale del calore acquistato.

Dall’enunciato di Lord Kelvin, però, sappiamo che una parte di calore acquistato non può contribuire al rendimento della macchina, e quindi necessariamente il calore ceduto deve essere diverso da zero.

$Q_f ≠ 0     to      frac(|Q_f|)(Q_c) ≠ 0      to      η ≠ 0 $

 

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Appunti: Il terzo principio della termodinamica

Appunti: Le macchine termiche

 

Trasformazioni termodinamiche

Abbiamo già visto in precedenza che esistono alcuni tipi di trasformazioni che avvengono mantenendo costante uno dei parametri fondamentali, come nel caso delle trasformazioni isobare, isocore e isoterme.

Vediamo, ora, altre due importanti categorie di trasformazioni, che sono le perforazioni reversibili e irreversibili.

 

Trasformazioni reversibili

Come sappiamo, una trasformazione termodinamica fa si che, partendo da uno stato iniziale i, il sistema arriverà ad uno stato finale f, avendo modificato, nel corso della trasformazione, alcuni delle sue proprietà.

Supponiamo di voler riportare il sistema dallo stato finale a quello iniziale, cioè di voler compiere una trasformazione inversa.

 

Trasformazioni irreversibili

Supponiamo che sia possibile riportare il sistema allo stato originale; lo stato, quindi, può tornare a quello che era prima della trasformazione. La trasformazione che il sistema ha subito viene definita reversibile. In questi casi, sia il sistema che l’ambiente ritornano allo stato originale mediante una trasformazione inversa.

Se non è possibile, invece, riportare il sistema nello stato originale senza modificare l’ambiente circostante, si dice che la trasformazione è irreversibile.

In generale, in natura, quasi tutti i fenomeni spontanei sono irreversibili; infatti, in genere, non è possibile far ritornare sia il sistema che l’ambiente alle condizioni che avevano nello stato iniziale.

Tuttavia, in termodinamica è spesso conveniente lavorare con fenomeni reversibili; grazie ad essi, infatti, è possibile studiare determinate caratteristiche delle trasformazioni.

In generale, affinché una trasformazione sia reversibile è necessario che siano soddisfatte determinate condizioni:

  •  la trasformazione deve essere quasistatica;

In una trasformazione quasistatica, infatti, in ogni istante la pressione e la temperatura del sistema differiscono di una quantità infinitesima rispetto allo stato precedente.

Gli stati che rappresentano la trasformazione sono praticamente infiniti; tuttavia si può ipotizzare di considerare due stati intermedi della trasformazione, nei quali è avvenuta uno scambio infinitesimo di calore ∆Q.

 

trasformazioni-termodinamiche
Dettaglio di un tratto infinitesimo della curva della trasformazione.

 

 

E’ possibile riportare il sistema allo stato precedente fornendo al sistema uno scambio di calore opposto, cioè -∆Q.

Operando in questo modo per tutti gli stati intermedi infinitesimi della trasformazione è teoricamente possibile far ritornare il sistema alla situazione originaria.

  • Il sistema scambi deve scambiare calore solamente con sorgenti ideali di calore.

In questo caso, infatti, è possibile che nella trasformazione vi sono sorgenti che cedono calore, e altre che lo ricevono; questo processo è responsabile di una modifica dell’ambiente. Nel processo inverso è possibile ritornare alla situazione originaria semplicemente con uno scambio inverso di calore; si opera in modo che le sorgenti che prima ne avevano ceduto, ora ne acquistino una quantità uguale, e viceversa.

 

Il caso delle combustioni

Le combustioni non rappresentano trasformazioni reversibili. Quando si sfrutta una combustione per aumentare la temperatura di un determinato sistema, ad esempio, sembrerebbe possibile far tornare il sistema alla situazione iniziale semplicemente mettendolo in un ambiente più freddo del precedente. Questo, in effetti, permetterebbe al sistema di riacquistare la sua temperatura iniziale.

Tuttavia, affinché la trasformazione sia reversibile, è necessario che anche l’ambiente torni nella sua condizione iniziale. Come sappiamo, le combustioni avvengono con consumo di ossigeno e carbonio e produzione di anidride carbonica.

Di conseguenza, in seguito alla reazione, la composizione di questi elementi nell’ambiente è variata rispetto alla situazione iniziale, e non è possibile in alcun modo ripristinarla attraverso un processo inverso.

  •  Durante la trasformazione deve essere assente qualsiasi forza dissipativa.

Possiamo immaginare, quindi, che la maggior parte (se non tutte) delle trasformazioni che avvengono in natura sono irreversibili; infatti è impossibile eliminare del tutto le forze dissipative che agiscono nel corso della trasformazione, come ad esempio le forze di attrito.

Nel caso in cui agisse una forza di attrito, infatti, non sarebbe sufficiente invertire semplicemente i processi di trasformazione, fornendo quantità opposte di scambi di calore. Vi è, infatti, un lavoro che viene svolto anche dalla forza di attrito nel corso della trasformazione, che da luogo ad una quantità di energia che viene dissipata; di conseguenza, la quantità di calore da fornire nel processo inverso dovrebbe essere maggiore di quella che è stata scambiata nel processo iniziale.

 

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Il teorema di Carnot

Enunciato del teorema

Nell’enunciato del teorema di Carnot si fa riferimento ad un particolare tipo di macchina termica, che viene definito reversibile.

Una macchina termica reversibile è uno strumento che permette di compiere una trasformazione ciclica reversibile.

E’ importante sottolineare che non esistono macchine termiche capaci di produrre lavoro utile sfruttando una sola sorgente di calore. Come sappiamo, infatti, una parte energia che viene prodotta non si trasforma in lavoro, ma viene convogliata ad una seconda sorgente (più fredda) per permettere al ciclo di ricominciare.

Una macchina termica reversibile quindi, deve funzionare con due sorgenti di calore, che si trovano a temperature differenti: chiamiamo con T1 la sorgente che si trova a temperatura minore (definita fredda) e con T2 quella a temperatura maggiore (calda).

Il teorema di Carnot afferma che se si considerano due macchine termiche, di cui una reversibile e l’altra no, il rendimento della macchina termica è sempre maggiore o uguale del rendimento dell’altra; i due rendimenti possono essere uguali solo nel caso in cui entrambe le macchine siano reversibili.

$η_R  ≥  η $

In particolare, dal teorema di Carnot segue un importante corollario che afferma che tutte le macchine reversibili che lavorano tra le stesse temperature e utilizzano le stesse sorgenti di calore hanno lo stesso rendimento, indipendentemente dalle loro caratteristiche di funzionamento. Inoltre, il rendimento della macchina di Carnot dipende esclusivamente dalle temperature tra le quali esse lavora, e non dal particolare fluido o gas che essa impiega.

Per questo, è particolarmente utile studiare il funzionamento delle macchine termiche il cui funzionamento si basa sull’utilizzo di un gas perfetto.

In questo caso, infatti, è possibile dimostrare che sussiste la seguente relazione:

$frac(|Q_2|)(|Q_1|) = frac(T_2)(T_1)$

dove si indicano con  $T_1$  e  $T_2$  le temperature delle sorgenti di calore, e con  $Q_1$  e  $Q_2$  i calori che vengono scambiati dal sistema con le due sorgenti di calore.

Il rendimento di una macchina di Carnot, quindi, può essere espresso nel seguente modo:

$η_c = 1 – frac(|Q_2|)(|Q_1|) = 1 – frac(T_2)(T_1)$

Questa relazione, individuata per un gas perfetto, ha validità per macchine termiche reversibili che lavorano con qualsiasi tipo di fluido, in quanto, come abbiamo detto in precedenza, il rendimento di tali macchine dipende solo dalle temperature tra le quali esse lavorano.

 

Il ciclo di Carnot

Una macchina di Carnot esegue una particolare trasformazione ciclica, che viene definita, appunto, ciclo di Carnot.

Questa trasformazione è costituita da quattro fasi che si susseguono, che sono: un’espansione temperatura costante, un’espansione adiabatica, una compressione a temperatura costante e infine un’altra compressione adiabatica.

Consideriamo il caso di un gas contenuto all’interno di un cilindro dotato di pistone mobile.

  • Nella seconda trasformazione, il gas continua ad espandersi, ma questa volta il recipiente viene isolato; in questo modo non vi sono scambi di calore con l’esterno.
  • Durante la prima espansione, che può avvenire grazie ad una diminuzione della pressione esterna sul pistone, il gas si espande;  la sorgente di calore mantiene costante la sua temperatura. In questo caso, il gas compie un lavoro positivo; per mantenere la sua temperatura costante esso assorbe calore dalla sorgente calda (Q2).
  • Nella terza trasformazione il gas viene compresso grazie ad un aumento della pressione esterna sul pistone; la sua temperatura viene mantenuta costante dalla sorgente. In questo caso, quindi, il gas compie un lavoro negativo; per mantenere costante la sua temperatura, quindi, cede calore alla sorgente fredda (Q1).
  • L’ultima trasformazione è una compressione adiabatica; il gas continua ad essere compresso, ma questa volta il sistema è isolato termicamente, e non può scambiare calore con l’esterno; la sua temperatura subirà, quindi, un aumento, fino a tornare a quella che si aveva all’inizio delle trasformazioni.

E’ possibile rappresentare in un piano pressione-volume la curva che descrive un cilc di Carnot:

 

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Rappresentazione del ciclo di Carnot in un piano pressione-volume.

 

Alla fine del ciclo la macchina di Carnot compie un lavoro pari a:

$W = Q_2 – |Q_1| $

che si ottiene calcolando l’area della parte di piano racchiusa dal grafico della trasformazione ciclica.

 

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La disuguaglianza di Clausius e l’entropia

La disuguaglianza di Clausius

Come sappiamo, due macchine termiche reversibili sono in grado di produrre lo stesso lavoro se operano tra le stesse temperature.

Ipotizziamo che la temperature della sorgente più fredda sia la stessa per entrambe le macchine, mentre la temperatura della sorgente calda sia diversa; supponiamo, inoltre, che le due macchine prelevino la stessa quantità di calore della sorgente calda.

E’ possibile notare, anche per via sperimentale, che anche se le macchine prelevano la stessa quantità di energia, il loro rendimento sarà diverso, in quanto il calore prelevato dalla sorgente a temperatura minore risulta meno utile dell’altro.

Il calore in generale è energia in transito, ma se tale calore si trova a bassa temperatura, risulta energia più degradata.

Consideriamo, ora, una macchina termica che, nel suo ciclo, compia n (i = 1,…,n) trasformazioni, e quindi subisca n scambi di calore (che possono essere considerati infinitesimi, e per questo vengono indicati con ∆Qi). Chiamiamo le temperature a cui avviene lo scambio di calore in ciascuna trasformazione Ti.

Clausius affermò che la somma dei quozienti tra i calori scambiati e la temperatura a cui avviene lo scambio, durante tutto il corso della trasformazione, è sempre minore o uguale a zero.

$ frac(∆Q_1)(T_1) + frac(∆Q_2)(T_2) + …+ frac(∆Q_n)(T_n) = \sum_{i = 1}^n frac(∆Q_i)(T_i) ≤ 0 $

Questa disuguaglianza prende il nome di disuguaglianza di Clausius.

Si può dimostrare che, nella formula precedente, il segno uguale vale solo se la macchina termina è reversibile, e in questo caso si parla di uguaglianza di Clausius; in tutti gli altri casi, la somma è minore di zero.

 

L’entropia

Dalla disuguaglianza di Clausius possiamo introdurre una nuova grandezza fisica, che prende il nome di entropia.

In particolare, si definisce la variazione di entropia nel passaggio da uno stato A ad uno stato B, nel caso di una trasformazione reversibile, come la sommatoria di tutti i quozienti tra il calore scambiato e la temperatura alla quale avviene lo scambio:

$S(B) – S(A) = ((\sum_{i = 1}^n frac(∆Q_i)(T_i))_(AtoB))^(rev) $

Anche l’entropia, come l’energia interna, è una funzione di stato, cioè dipende solamente dagli stati iniziale e finale, e non dal cammino che si è compiuto durante la trasformazione, purché la trasformazione sia reversibile.

Come nel caso dell’energia interna, anche per l’entropia esiste un livello zero, in cui l’entropia è nulla, e tale stato è arbitrario; tuttavia, si sceglie per convenzione lo stato zero quello in cui si trova un cristallo perfetto alla temperatura di 0 K.

E’ possibile determinare, a partire da tale scelta, l’entropia di qualsiasi altro stato dalla definizione precedente; notiamo, quindi, che con questa scelta del livello zero, l’entropia di tutti gli stati possibili risulta positiva.

 

Esercizio

Consideriamo una macchina termica che, in un ciclo completo di funzionamento, preleva 3,20 kJ di calore dalla sorgente calda alla temperatura di 620 k, e cede 2,24 kJ di calore alla sorgente fredda. E’ noto che la somma dei quozienti tra il calore scambiato e la temperatura a cui avviene lo scambio nel corso della trasformazione ha la seguente espressione:

$\sum{i = 1}^2 frac(∆Q_i)(T_i) = – 2,23 J/K $

Calcolare la temperatura alla quale si trova la sorgente fredda.

Per risolvere il problema è conveniente esplicitare la sommatoria, perché in questo caso la trasformazione avviene in pochi stati.

Possiamo, quindi, scrivere la sommatoria nel seguente modo:

$\sum_{i = 1}^2 frac(∆Q_i)(T_i) =  frac(∆Q_1)(T_1) + frac(∆Q_2)(T_2) = – 2,23 J/K $

dove indichiamo con  $Q_2$ il calore che viene acquistato dalla sorgente calda, e con $Q_1$  quello ceduto alla sorgente fredda. Da questa scrittura, possiamo ricavare la formula inversa per trovare la temperatura della sorgente fredda, cioè  $T_1$:

$T_1 = frac(Q_1 * T_2)(-Q_2 – T_2 * 2,23) $

Ricordiamo che il calore ceduto, per convenzione, ha segno negativo, quindi dovremmo mettere un – davanti a Q1; inoltre, è necessario esprimere il calore scambiato in J, apportando la giusta trasformazione.

Sostituendo i valori numerici, quindi, otteniamo la temperatura della sorgente di calore più fredda:

$T_1 = frac(-2,24 * 10^3 * 620)(-3,20 * 10^3 – 620 * 2,23) = 303 K $

 

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L’entropia nei sistemi isolati e non isolati

L’entropia nei sistemi isolati

Un sistema isolato è un sistema che non scambia né materia né energia con l’ambiente.

Supponiamo che in un sistema isolato avvengano delle trasformazioni; la natura di tali trasformazioni influenza l’entropia del sistema.

Infatti, se in tale sistema avvengono solamente trasformazioni reversibili, allora l’entropia del sistema rimane costante.

Altrimenti, se le trasformazioni che avvengono nel sistema sono irreversibili, si ha un aumento di entropia.

Possiamo verificare quanto detto considerando una trasformazione in cui avvengono, spontaneamente, un certo numero di scambi di calore infinitesimi, indicati con ∆Qi. In particolare, se lo scambio di calore avviene tra due corpi, si avrà una cessione di calore da parte di quello più caldo, che si trova ad una temperatura Tc, e un acquisto di calore da parte di quello più freddo, a temperatura Tf; ovviamente Tf < Tc.

Quando si calcola la variazione di entropia, si deve considerare la variazione lungo la trasformazione reversibile; come sappiamo, la variazione di entropia è definita come somma dei calori scambiati sulla temperatura alla quale avviene lo scambio. Nel nostro caso, quindi, considerando negativa la quantità di calore che viene ceduto, abbiamo la seguente variazione di entropia:

$∆S_i = frac(∆Q_i)(T_c) – frac(∆Q_i)(T_f) $

Questa quantità è certamente positiva, in quanto la temperatura del corpo caldo ($T_c$) è maggiore di quella del corpo freddo ($T_f$).

Di conseguenza, anche la variazione di entropia dell’intero sistema sarà positiva, in quanto sarà la somma di tutte le variazioni di entropia dei singoli passaggi, che sono quantità positive.

In particolare, anche l’Universo può essere considerato un sistema isolato, in quanto non esiste niente di più esterno ad esso con cui possono avvenire scambi di calore o energia. Poiché nell’universo avvengono di continuo trasformazioni naturali, che sono quindi irreversibili per la maggior parte, si ha un continuo aumento di entropia.

 

L’entropia nei sistemi non isolati

Nei sistemi non isolati possono avvenire scambi di energia (sistemi chiusi), o anche di materia (sistemi aperti), con l’ambente circostante.

In un sistema di questo possono avvenire anche dei passaggi di calore da un corpo più freddo ad uno più caldo, come nel caso di un frigorifero. Questo passaggio innaturale può avvenire solo grazie ad un lavoro esterno che viene compiuto sul sistema; nel caso del frigorifero, ad esempio, esso riceve energia elettrica da una sorgente esterna, e questo gli permette di compiere un lavoro contro natura.

In questo caso, quindi, poiché il calore ceduto è in modulo maggiore di quello acquistato, nel sistema si ha ∆Q < 0, e di conseguenza anche ∆S < 0.

Occorre, però, fare una distinzione: i casi reali di trasformazioni di questo genere spesso si discostano da quelli ideali.

In un caso ideale, infatti, l’entropia del sistema in esame e l’entropia del sistema con cui interagisce (e che compie lavoro su di esso) sono uguali in modulo, ma hanno segno opposto, perché uno cede calore e l’altro l’acquista. Di conseguenza, la variazione totale del sistema risulta nulla.

Nel caso reale, invece, la variazione totale di entropia risulta positiva, in quanto il valore di entropia del sistema che compie lavoro (che è positiva) è maggiore di quella del sistema in esame (negativa).

Possiamo quindi affermare che in generale, nel caso reale, una trasformazione che avviene in un sistema fisico non isolato provoca una diminuzione di entropia nel sistema fisico, e un aumento di entropia nell’universo.

 

Esercizio

In un sistema chiuso, cioè che permette scambi di calore con l’esterno, in un secondo si ha una dispersione di calore pari a 18,0 kJ. E’ noto che la temperatura esterna al sistema è di 270 K e quella interna è pari a 300 K; quanto vale l’aumento di entropia determinato da questo passaggio di calore?

Calcoliamo la variazione di entropia come somma dei rapporti del calore scambiato sulla temperatura di scambio. In questo caso, essendoci una dispersione di calore, in calore passa dal sistema all’ambiente, quindi si avrà un segno negativo nella variazione di calore relativa alla temperatura interna.

Applicando la definizione di variazione di entropia abbiamo:

$∆S_i = frac(∆Q)(T_E) – frac(∆Q)(T_I)$

Sostituendo i valori numerici si ottiene:

$∆S_i = frac(∆Q)(T_E) – frac(∆Q)(T_I) = frac(18 * 10^3)(270) – frac(18 * 10^3)(300) = 6,67 J/K$

 

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Secondo principio e microstati

 

E’ possibile interpretare il secondo principio della termodinamica osservando i sistemi fisici da un punto di vista molecolare.

Ricordiamo che il secondo principio afferma che non è possibile che l’unico risultato di una trasformazione termodinamica sia quello di compiere lavoro usufruendo di una sola fonte di calore.

Questa affermazione può essere confermata anche dall’esperienza quotidiana; gli eventi che potrebbero contraddire il principio, infatti, sono talmente rari da non trovare riscontro in natura.

Ad esempio, consideriamo una macchinina che si sposta su una pista priva di attrito all’interno di una teca; supponiamo che essa incontri la resistenza dell’aria. La macchinina viene in contatto con le particelle di aria, che la urtano da tutte le direzioni e in maniera caotica.

All’inizio il sistema possiede l’energia cinetica della macchinina e l’energia cinetica delle particelle. Se la macchina cessa di dare gas, è destinata a fermarsi, perdendo la sua energia cinetica, ma aumentando l’energia totale del sistema; infatti essa provoca un aumento della sua temperatura.

Per la conservazione dell’energia, il sistema possiede la stessa energia che aveva all’inizio, ma sotto altre forme.

Possiamo definire “energia ordinata” l’energia cinetica del disco, in quanto essa è data dal movimento di un corpo le cui particelle si muovono tutte con la stessa direzione e la stessa velocità; l’energia  delle particelle di aria, invece, è un’energia “disordinata”; ogni particella, infatti, possiede velocità diversa dalle altra, sia in direzione che in modulo. I vettori che rappresentano le forze di interazione tra le molecole sono diversi per ognuna di esse.

Nell’esempio precedente, notiamo che l’energia ordinata della macchinina si è trasformata in energia disordinata del sistema; questo fenomeno avviene in generale, con il passare del tempo.

Possiamo osservare il secondo principio della dinamica da un nuovo punto di vista; teoricamente, dal punto di vista fisico, sarebbe possibile che le particelle di aria cedessero parte della loro energia cinetica alla macchinina mettendola in moto, dopo che essa si era fermata; sappiamo, però, che in realtà questo non accade. E in effetti, se fosse vero, andrebbe contro l’enunciato di Kelvin.

In ogni sistema, quindi, avviene una trasformazione di energia dalle forme più ordinate verso le forme più disordinate; questo spiega anche come mai l’energia derivante da fonti di calore a più alta temperatura è più preziosa per compiere lavoro di quella proveniente da fonti a bassa temperatura, considerata degradata.

 

Gli stati microscopici

Nello studio di un gas, come abbiamo visto, è necessaria la conoscenza del suo stato, cioè della sua pressione, temperatura e del suo volume; questo grandezze possono essere descritte come stato macroscopico del gas.

Possiamo, quindi, definire anche lo stato microscopico del gas, o microstato, come una determinata configurazione dei suoi costituenti microscopici. Questa configurazione si è data dalla conoscenza delle caratteristiche fisiche delle particelle del sistema in un preciso istante.

Ogni microstato può essere relazionato ad un macrostato; infatti, le proprietà dello stato macroscopico del gas sono date da grandezze che possiedono valori medi delle grandezze relative al microstato. Di conseguenza, per ogni microstato possiamo individuare uno e un solo macrostato.

Al contrario, è possibile associare ad un macrostato molti microstati, purché essi abbiamo uguali i valori medi relativi alle grandezze fisiche. In particolare, il numero di microstati che corrispondono allo stesso macrostato viene definito molteplicità.

La molteplicità di un sistema ci consente anche di capire il comportamento di un gas, e in particolare come mai esso tenda ad espandersi spontaneamente occupando tutto lo spazio a disposizione. Ipotizziamo di avere un microstato composto da due particelle; esaminiamo tutti i microstati possibili, cioè tutte le combinazioni possibili che le particelle possono presentare:

 

microstati-distribuzione
Combinazioni possibili della distribuzione delle particelle.

Osserviamo che la configurazione più probabile che le particelle possono assumere è quella in cui esse si trovino distribuite uniformemente nello spazio a disposizione. Lo stato in cui le particelle sono distribuite ugualmente a destra e a sinistra, può essere considerato il più disordinato; questo esempio, quindi, sostiene l’ipotesi che più è alto il gradi di disordine di un microstato, maggiore è la probabilità che esso si verifichi spontaneamente.

 

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L’equazione di Boltzmann e il terzo principio della termodinamica

L’equazione di Boltzmann

Ludwig Boltzmann riesci a formulare un’equazione che relazionasse una caratteristica dei macrostati con l’entropia ad essi relativa; in particolare, egli scoprì che l’entropia di un macrostato aumenta con l’aumentare del numero di microstati che corrispondono ad uno stesso macrostato, cioè all’aumentare della  molteplicità di un macrostato.

L’equazione che descrive questo fenomeno prende il nome di equazione di Boltzmann, ed è la seguente:

$S(A) = k_B * ln(W(A)) $

dove A indica il macrostato, W la sia molteplicità e  $k_B$  è una costante, definita costante di Boltzmann, e vale  $1,38 * 10^-23 J/K$.

Notiamo che nel caso di un cristallo perfetto allo zero assoluto, in cui si ipotizza che tutti le particelle che lo costituiscano siano immobili, l’entropia risulta nulla, come risulta anche dalla scelta di livello zero di entropia per definizione. Infatti, se tutte le particelle di un corpo sono immobili, esiste un solo microstato possibile, e di conseguenza anche il numero di macrostati è 1; poiché il logaritmo naturale di 1 è zero, da qui il risultato.

Inoltre, notiamo che poiché ogni macrostato ha molteplicità maggiore o uguale a 1, ed è l’argomento di un logaritmo naturale, l’entropia data da questa formula sarà sempre positiva.

L’equazione di Boltzmann è anche una conferma del fatto che se un sistema termodinamico viene lasciato evolvere spontaneamente, la configurazione che esso tenderà ad assumere è quella che porterà il sistema ad una forma più disordinata; in altra parole, il sistema tenderà ad evolversi verso forme ad entropia maggiore.

L’evoluzione di un sistema è evento casuale e basato sulle leggi della probabilità, e infatti ogni microstato ha la stessa probabilità di realizzazione degli altri; tuttavia, nel caso dei macrostati si ha una probabilità maggiore di realizzazione per quelli che hanno una molteplicità maggiore, cioè quello che si trova in una conformazione più disordinata.

 

Esercizio

Come varia l’entropia di un sistema in cui, mediante una trasformazione da uno stato iniziale A ad uno stato finale B, il numero di microstati raddoppia?

Supponiamo che nello stati iniziale A sia presente un numero di microstati pari a x:

$W(A) = x$

L’entropia relativa a questo stato è data dall’equazione di Boltzmann:

$S(A) = k_B * ln(W(A)) = k_B * ln(x) $

Se nel passaggio da A a B il numero di microstati raddoppia, in B si avrà un numero di microstati pari a 2x:

$W(A) = 2x$

e la relativa entropia sarà quindi:

$S(B) = k_B * ln(W(B)) = k_B * ln(2x) $

Calcoliamo ora la variazione di entropia, cioè l’entropia dello stato finale meno quella dello stato iniziale:

$S(B) – S(A) =  k_B * ln(W(B)) –  k_B * ln(W(A)) = k_B * ln(2x) – k_B * ln(x) $

Applicando le proprietà della differenza di logaritmi, abbiamo che:

$∆S = k_B * ln(frac(2x)(x)) = k_B * ln(2)$

Svolgendo i calcoli, otteniamo la seguente variazione di entropia:

$∆S =  k_B * ln(2) = 1,38 * 10^(-23) * ln(2) = 0,957 * 10^(-23) J/K$

 

Il quarto enunciato del secondo principio

Il secondo principio della termodinamica trova un’ulteriore formulazione che riguarda l’evolversi del sistema in maniera spontanea.

Quando un sistema si evolve spontaneamente, deve essere valida la conservazione dell’energia; di conseguenza, l’energia del sistema nello stato iniziale deve essere uguale a quella dello stato finale. Supponiamo che siano possibili diversi stati finali che rispettino la conservazione dell’energia, ma che presentano variazioni di entropia differenti.

Si può dimostrare che lo stato finale che verrà raggiunto spontaneamente dal sistema è quello che presenta una maggiore variazione di entropia; se la variazione di entropia è negativa, lo stato finale non potrà essere raggiunto spontaneamente.

 

Il terzo principio della termodinamica

Il terzo principio della termodinamica afferma che lo zero assoluto, cioè la temperatura di 0 K, che corrisponde a -273,15° C, è la temperatura limite; questa, quindi, non può essere raggiunta da un corpo mediante procedure che prevedono un numero finito di trasformazioni.

Quindi, non è possibile raffreddare un corpo oltre lo zero assoluto, e non è possibile neanche raggiungere tale temperatura.

Il terzo principio della termodinamica è noto anche come legge di Nernst, da nome del fisico tedesco che per la prima volta mise in luce questa importante scoperta.

 

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Caratteristiche dei liquidi

I liquidi 

I liquidi sono sostanze che hanno caratteristiche intermedie tra solidi e gas; essi, infatti, hanno un volume proprio (come i solidi) e assumono la forma del recipiente che li contiene (come i gas). Solitamente, a differenza dei gas, i liquidi sono difficilmente comprimibili. Notiamo, quindi, che i liquidi hanno alcune caratteristiche che li accomunano ad un solido, e altre che invece li accomunano ad un liquido.

In ogni caso, una sostanza può passare da uno stato di aggregazione all’altro in base alle condizioni ambientali in cui si trova; ciò significa che, in seguito a variazioni di temperatura e pressione, è possibile che una sostanza cambi il suo stato di aggregazione.

 

La pressione

La pressione è una grandezza fisica che esprime quanto una forza è concentrata su una superficie. Può essere utile considerare questa grandezza fisica, in quanto, molto spesso, applicando una forza della stessa intensità su due superfici di diversa estensione, si ottengono degli effetti diversi.

Un classico esempio è il caso in cui si cammina sulla neve; sebbene la forza-peso dell’uomo rimanga sempre la stessa, camminando con sei semplici scarponi è molto più faticoso procedere, perché la superficie di appoggio è piuttosto piccola; indossando delle racchette, invece, la camminata sarà molto più agevole, perché la forza-peso è distribuita su una superficie maggiore.

 

forza-pressione
La diversa distribuzione di una forza su una superficie implica un diverso effetto della forza sul corpo su cui agisce.

 

La pressione si definisce come rapporto della forza premente (perpendicolare alla superficie) e l’area della superficie stessa:

$ p = frac(F)(S)$

La pressione, quindi, è direttamente proporzionale alla forza che agisce, e inversamente proporzionale alla superficie su cui essa è applicata.

Nel sistema internazionale l’unità di misura della pressione è il Pascal; questa grandezza corrisponde alla pressione esercitata dalla forza di $1 N$ su una superficie di $1 m^2$.

Nel caso di un corpo che si trova su un piano inclinato, la pressione che questo esercita sulla superficie è minore di quella che si avrebbe se il piano fosse orizzontale. Quindi, uno stesso corpo può esercitare pressioni diverse in base a come è disposta la superficie in cui si trova.

 

La pressione dei liquidi

Molti liquidi, a parità di peso, possono occupare un volume diverso; per questo, è utile considerare una grandezza che tiene presente questo aspetto, e che si definisce peso specifico. Il peso specifico è espresso come rapporto tra il peso di un liquido e il volume che esso occupa:

$P_S = frac(F_P)(V)$

Inoltre, si considera anche la densità, espressa invece come il rapporto tra la massa di un liquido e il volume che esso occupa:

$d = frac(m)(V)$

Dalle due relazioni precedenti, si ricava che il peso specifico di un liquido può essere ottenuto moltiplicando la sua densità per la costante di gravitazione g:

$ V = frac(m)(d) = frac(F_P)(P_S)      to       P_S = frac(F_P * d)(m) = frac(m * g * d)(m) = g * d$

Quando un liquido si trova all’interno di un recipiente, su di esso agisce la forza-peso; anche i liquido, infatti, come i solidi, hanno una massa. La forza-peso fa si che il liquido eserciti una pressione sul fondo e sulle pareti del recipiente, e questa pressione viene definita pressione idrostatica.

La pressione idrostatica dipende da determinati fattori, quali la grandezza del recipiente in cui è contenuto il liquido, il volume del liquido e la sua densità.

A parità di volume e di recipiente, ad esempio, l’acqua e la benzina hanno pressioni idrostatiche differenti. Il peso specifico dell’acqua, infatti,  è maggiore di quello della benzina; ciò implica che l’acqua risulta più pesante a parità di volume.

La pressione idrostatica di un liquido può essere calcolata grazie alla legge di Stevino; questa afferma che tale pressione è data dal prodotto tra il peso specifico del liquido e l’altezza che esso raggiunge all’interno del recipiente; o anche, come abbiamo visto, dal prodotto della densità per g per l’altezza del liquido:

$p_l = P_S * h = g * d * h$

La pressione idrostatica, quindi, non dipende dalla forza del recipiente o dalla sua area di base; essa dipende solamente dalla profondità e dal peso specifico del liquido che in esso è contenuto.

 

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Il principio di Pascal

Abbiamo visto in precedenza che un liquido contenuto in un recipiente esercita, a causa della forza-peso dovuta alla sua massa, una pressione sulle pareti e sul fondo del recipiente.

Supponiamo di applicare una forza esterna al liquido, e quindi di esercitare una pressione su di esso; possiamo notare che la pressione si trasmette all’interno del liquido.

Questo fatto può essere evidenziato, ad esempio, considerando una bottiglia di plastica piena d’acqua; se la bottiglia è senza tappo ed esercitiamo una pressione su di essa, stringendola in basso, notiamo che l’acqua fuoriesce dalla bottiglia.

Questo comportamento dei liquidi è espresso dal principio di Pascal; questo afferma che quando viene esercitata una pressione sulla superficie di un liquido, essa si trasmette con la stessa intensità su ogni superficie in contatto con il liquido stesso; ciò avviene indipendentemente da come è la sua orientazione.

Consideriamo un recipiente di plastica contenente dell’acqua; questo recipiente presenta, sulla sua superficie, dei piccolissimi fori, talmente piccoli che l’acqua non è in grado di fuoriuscirne con la pressione che essa esercita dovuta solamente alla forza-peso.

Ipotizziamo di esercitare una forza esterna spingendo un pistone sull’imboccatura del recipiente; la pressione che si viene a creare fa si che l’acqua riesca a fuoriuscire dai buchi.

In particolare, notiamo che l’acqua zampilla allo stesso modo da ogni buco; ciò dimostra che la pressione che stiamo esercitando si distribuisce in maniera uniforme su tutto il liquido nel recipiente.

 

pressione-liquido
La pressione si distribuisce uniformemente nel liquido all’interno del recipiente.

 

Come abbiamo visto, per la legge di Stevino la pressione esercitata da un liquido in un recipiente aumenta con l’aumentare della profondità del liquido stesso.

Per la legge di Pascal, inoltre, la pressione di diffonde su tutte le pareti del recipiente; esse, infatti,  risultano sottoposte a delle forze interne perpendicolari alla loro superficie. Tali forze, quindi, risulteranno sempre più intense mano a mano che ci avviciniamo al fondo del contenitore, dove è esercitata la massima pressione.

Questo spiega come mai nei laghi artificiali lo spessore delle dighe in prossimità del fondale è sempre maggiore dello spessore che si ha vicino alla superficie dell’acqua.

 

La botte di Pascal

Blaise Pascal, intorno alla metà del 1600, enunciò il suo principio, per spiegare il comportamento dei liquidi;  egli ricorse ad un esempio noto come botte di Pascal.

 

botte-Pascal
Esperimento di Pascal per mostrare il comportamento dei fluidi.

 

L’esperimento prevedeva di collegare una botte piena d’acqua ad un tubicino lungo e sottile inserito dall’alto; attraverso il tubicono si versa dell’acqua fino ad un’altezza h.

L’esperimento mostra che le il tubo è sufficientemente lungo la botte si può spezzare, facendo fuoriuscire l’acqua al suo interno. La pressione che si crea è indipendente dalla quantità d’acqua che il tubicino contiene; essa dipende solamente dall’altezza h che essa raggiunge dentro il tubo.

Questa pressione riesce a far esplodere la botte perché le sue pareti sono sottoposte ad una pressione uguale a quella che sarebbe prodotta da una quantità d’acqua contenuta in un cilindro che ha per base la base della botte e come altezza quella raggiunta dall’acqua nel tubo (h).

 

Esercizio

Consideriamo due contenitori cilindrici che hanno entrambi un volume di 10 L. Il primo cilindro ha un’altezza di 60 cm, mentre il secondo è alto 15 cm. Calcoliamo il valore della pressione esercitata sul fondo dei cilindri dalla forza-peso dell’acqua contenuta in essi, nel caso in cui essi siano pieni.

(La densità dell’acqua è di $1,00 * 10^3 kg/m^3$)

 

Per risolvere il problema, ricordiamo che la legge di Stevino; sappiamo che la pressione esercitata da un liquido in un recipiente si ottiene come prodotto della costante di gravità g per la densità del liquido per l’altezza che esso raggiunge all’interno del recipiente.

In questo caso, essendo entrambi i cilindri pieni, l’altezza raggiunta dall’acqua è pari all’altezza del cilindro stesso.

Applicando, quindi, la legge di Stevino troviamo, nel primo caso:

$p_1 = g * d * h = 9,8 * 1,00 * 10^3 * 0,6 = 5,88 * 10^3 Pa $

Nel secondo cilindro, invece, si ha:

$p_2 = g * d * h = 9,8 * 1,00 * 10^3 * 0,15 = 1,47 * 10^3 Pa $

Notiamo, quindi, che la pressione esercitata dall’acqua nel cilindro più basso è notevolmente minore.

 

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I vasi comunicanti

I vasi comunicanti sono dei recipienti, di forme e dimensioni anche diverse tra loro, collegati da un tubo attraverso il quale può fluire un liquido. L’acqua versata in qualunque di essi, passando attraverso il tubo, può raggiungere anche gli altri, cosicché il livello raggiunto dall’acqua è lo stesso in tutti i recipienti.

 

vasi-comunicanti
Esempio di vasi comunicanti: i vasi hanno forma e dimensione diversa, ma il livello raggiunto dall’acqua al loro interno è lo stesso.

 

Il principio si basa sul fatto che, quando si versa dell’acqua all’interno di un recipiente aumenta il livello dell’acqua in esso, e di conseguenza aumenta anche la pressione all’interno di tale recipiente.

L’aumento di pressione fa si che il liquido tenda a spostarsi dal recipiente in cui ha altezza maggiore a quello (o quelli) in cui ha altezza minore, fino a quando non si raggiunge un nuovo equilibrio, e il suo livello sia uguale in tutti i recipienti.

 

vasi-comunicanti
Il liquido si sposta dalla condizione di pressione maggiore a quella di pressione minore; passa, cioè, dal recipiente più alto a quello più basso.

 

Questo fenomeno accade indipendentemente dal numero dei recipienti che vengono collegati e dal tipo di liquido che si sta utilizzando.

Tuttavia, la validità del fenomeno è riservata a recipienti che siano sufficientemente ampi; infatti, il principio dei vasi comunicanti non ha validità nel caso di tubicini troppo sottili, detti capillari.

 

Vasi comunicanti con miscele di liquidi

Il principio dei vasi comunicanti può non valere se utilizziamo, in uno stesso recipiente, due liquidi diversi e non miscelabili.

Consideriamo, ad esempio, due vasi comunicanti contenenti dell’acqua allo stesso livello. Aggiungiamo in uno di essi dell’olio che, come sappiamo, è insolubile con l’acqua e, avendo una densità minore, resta in superficie.

Possiamo notare che il livello complessivo dei fluidi nei recipienti è ora diverso; si conclude che l’olio non influisce sulla pressione totale che si esercita sul primo recipiente.

 

vasi-comunicanti
Il principio dei vasi comunicanti non vale se si utilizzano in un recipiente due liquidi diversi.

 

Infatti, sulla superficie che separa l’acqua dall’olio agiscono due pressioni contemporaneamente che si bilanciano; si ha una pressione verso il basso dovuta dall’altezza dell’olio, e una pressione verso l’alto dovuta alla colonna d’acqua.

Di conseguenza, poiché tali pressioni sono uguali e opposte, possiamo affermare che le altezze raggiunte dai liquidi nei recipienti sono inversamente proporzionali ai loro pesi specifici:

$p_o = p_a      to     P_S(o) * h_o =  P_S(a) * h_a$

Questo fenomeno, però, può rivelarsi utile se dobbiamo ricavare il peso specifico di un liquido sconosciuto; infatti, conoscendo il peso specifico del liquido presente nei vasi comunicanti, e conoscendo le altezze che i liquidi raggiungono dopo l’aggiunta del liquido incognito e non miscelabile, possiamo ricavare il peso specifico del liquido incognito sfruttando la relazione precedente:

$ P_S(l_(n)) * h_(l_(n)) = P_S(l_(x)) * h_(l_(x))       to        P_S(l_(x)) = frac(P_S(l_(n)) *  h_(l_(n)))(h_(l_(x))) $

 

Esercizio

Consideriamo un tubo a forma di U all’interno del quale vengono posti dell’acqua e un liquido che non si miscela con essa. La densità di quest’ultimo liquido è 0,92 volte la densità dell’acqua. Determinare il rapporto tra l’altezza della colonna di liquido incognito e quella della colonna d’acqua.

La densità dell’acqua è nota, e sappiamo che essa vale $1,00 * 10^3 (kg)/m^3$. Di conseguenza, dato che la densità del liquido incognito è 0,92 volte quella dell’acqua, possiamo ricavare la densità del liquido moltiplicando quella dell’acqua per 0,92:

$d_l = d_a * 0,92 = 1,00 * 10^3 * 0,92 = 0,92 * 10^3 (kg)/m^3 $

Dato che la tesi del problema è il rapporto tra le due altezze, non è necessario conoscere una delle due altezze che i liquidi raggiungono; possiamo semplicemente applicare la relazione vista il precedenza, in quanto un tubo a forma di U può essere considerato come dei vasi comunicanti.

Ricordiamo che possiamo ottenere il peso specifico di un liquido come prodotto della costante di gravitazione g per la densità del liquido; infatti, per la legge di Stevino vale:

$p_l = P_S * h = g * d * h $

Sostituendo, quindi, le grandezze nell’uguaglianza data dal principio dei vasi comunicanti, otteniamo:

$P_S(a) * h_a = P_S(l) * h_l       to      g * d_a * h_a = g * d_l * h_l$

$     to        d_a * h_a =  d_l * h_l $

Il rapporto tra le altezze dei liquidi, quindi, è uguale al rapporto inverso delle rispettive densità:

$d_a * h_a =  d_l * h_l      to     frac(h_l)(h_a) = frac(d_a)(d_l)$

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo il valore di tale rapporto:

$frac(h_l)(h_a) = frac(d_a)(d_l) = frac(1,00 * 10^3)(0,92 * 10^3) = 1,09$

 

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La legge di Archimede

La spinta idrostatica

Quando un corpo viene immerso in un liquido, esso è sottoposto a delle forze dovute alla pressione idrostatica.

Supponiamo di immergere un corpo cubico in un recipiente di acqua. Le facce laterali del cubo sono sottoposte delle forze di uguale intensità, in quanto esse si trovano alla stessa profondità; tuttavia, le forze hanno verso opposto, essendo entrambe rivolte verso l’interno del cubo, di conseguenza la loro risultante è nulla.

 

Forze che agiscono su un corpo immerso in un fluido
Forze che agiscono su un corpo immerso in un fluido

 

Invece, le forze che agiscono sulle facce superiore e inferiore sono diverse, in quanto le facce si trovano a diverse profondità, e risentono di diverse pressioni. In particolare, la faccia inferiore si trova ad una profondità maggiore, quindi la forza che agisce su di essa (F2) è maggiore di quella che agisce sulla faccia superiore (F1). Le due forze hanno stessa direzione ma versi opposti, e sono entrambe rivolte verso il centro del cubo; la loro risultante, quindi, è un vettore rivolto verso l’alto.

Questa risultante rivolta verso l’alto prende il nome di spinta idrostatica, o spinta di Archimede.

 

Il principio di Archimede

Quando un corpo solido viene  immerso in acqua, notiamo che il livello dell’acqua all’interno del recipiente aumenta; quindi, a cauda della presenza del corpo, una certa quantità di acqua viene spostata verso l’alto e, in particolare, tanto maggiore è il volume del corpo, tanta più quantità d’acqua verrà spostata.

Il volume di acqua spostato a causa della presenza del corpo è proprio uguale al volume del corpo stesso che viene immerso.

Il principio di Archimede mette in evidenza la relazione che vi è tra il peso del liquido spostato e la spinta che il corpo riceve verso l’alto. Il principio afferma che un corpo immerso in un liquido riceve da questo una forza diretta verso l’alto uguale in modulo al peso del liquido che sposta.

$ F_A = g * m = g * d * V$

Un corpo immerso in acqua, però, non galleggia sempre; ci sono corpi, infatti, che possono affondare in acqua.

Quando un corpo è immerso in un liquido su di esso agiscono sempre due forze, la spinta di Archimede e la forza-peso. Si intuisce che se la spinta di Archimede è maggiore della forza-peso, allora il corpo galleggerà in acqua; ciò accade, ad esempio, quando il peso specifico del corpo è minore di quello del liquido.

Nel caso in cui, invece, la forza-peso è prevalente, il corpo tenderà ad affondare; ciò accade quando il peso specifico del corpo è maggiore di quello del liquido in cui è immerso.

Possiamo anche affermare che un corpo affonda se la sua densità è maggiore di quella del liquido in cui si trova, mentre darà spinto verso l’alto della sua densità è minore; nel caso in cui la densità del corpo è uguale a quella dei liquido, esso tenderà a galleggiare in esso, rimanendo immerso nel liquido senza risalire.

 

La spinta aerostatica

Il principio di Archimede si può applicare anche nel caso di solidi immersi in un gas. Infatti, anche in questo caso un corpo che si trova in aria riceve da essa una spinta verso l’alto uguale al peso dell’aria spostata. Tale spinta prende il nome di spinta aerostatica; possiamo calcolare questa grandezza come prodotto del peso specifico del gas per il volume di gas spostato:

$S = P_S * V$

 

Esercizio

Un cubetto metallico galleggia rimanendo completamente immerso nel mercurio, che ha densità $d = 13,6 * 10^3 (kg)/m^3$. Sapendo che la lunghezza  di un lato del cubo è di 1,00 cm, quanto vale la massa del cubo?

 

Come abbiamo visto in precedenza, un corpo immerso in un liquido galleggia in esso, senza ricevere una spinta dall’alto e senza affondare, nel caso in cui la sua densità sia proprio uguale a quella del liquido in cui si trova.

Di conseguenza, in questo caso possiamo affermare che la densità del cubetto di metallo è proprio uguale alla densità del mercurio.

Sapendo quanto vale il lato del cubo possiamo risalire al suo volume; prima di procedere, però, esprimiamo le grandezze nelle giuste unità di misura: 1,00 cm = 0,01 m.

$V_C = l^3 = (0,01m)^3 = 0,000001 m^3 = 10^(-6) m^3$

Il prodotto della densità del corpo per il suo volume fornisce la sua massa:

$ m = d * V = 13,6 * 10^3 * 10^(-6) = 13,6 * 10^(-3) kg = 13,6 g$

 

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La pressione atmosferica

Introduzione

La Terra è circondata da uno spesso strato di aria, l’atmosfera; come sappiamo, anche l’aria ha una massa, e di conseguenza essa è sottoposta alla forza peso terrestre. L’aria, quindi, esercita una pressione su tutti i corpi che si trovano sulla superficie terrestre, e questa pressione viene detta pressione atmosferica.

Come sappiamo, la pressione si esercita con la stessa intensità su tutte le superfici e da ogni angolazione; questo spiega come mai non ci accorgiamo della presenza dell’atmosfera, e in particolare come mai riusciamo a respirare; infatti, sebbene siamo sottoposti ad una pressione esterna, una pressione uguale e contraria si esercita anche sulle nostra superfici interne, e le due pressioni si bilanciano.

 

Pressione esercitata sul recipiente dal liquido (internamente) e dall’aria (esternamente)
Pressione esercitata sul recipiente dal liquido (internamente) e dall’aria (esternamente)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti i corpi sottoposti alla pressione atmosferica, quindi, non risentono di questa, e non si spostano ne si deformano.

 

L’esperimento di Torricelli

Già nella prima metà del 1600 fu inventato da Evangelista Torricelli un esperimento che mette in evidenza la presenza della pressione atmosferica e permette di misurarla.

L’esperimento consiste nel riempire un tubicino di vetro graduato (chiuso ad una estremità ed aperto nell’altra) di mercurio, e successivamente di capovolgere il tubicino appoggiando l’estremità aperta in una vaschetta contenente anch’essa del mercurio.

A differenza di come si possa immaginare, il tubicino non si svuota completamente;  all’interno di esso rimane del mercurio il cui livello raggiunge i 76 cm (al livello del mare).

 

 

Esperimento di Torricelli
Esperimento di Torricelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per spiegare questo esperimento, facciamo riferimento al principio di Pascal. Poiché nel tubicino, tra l’estremità chiusa e il mercurio, non c’è aria, su questo mercurio non vi è pressione.

Al contrario, sul mercurio della vaschetta agisce la pressione atmosferica che, come sappiamo dal principio di Pascal, si diffonde in maniera uniforme su tutto il liquido. Tale pressione, quindi, è presente anche sullo strato di mercurio che separa quello della vaschetta da quello del tubo. In questo punto particolare, quindi, agiscono due pressioni: la pressione idrostatica del mercurio nel tubo, che è diretta verso il basso, e la pressione atmosferica che si trasmette nel mercurio della vaschetta, che invece spinge verso l’alto.

Dato che il mercurio nel tubo è in equilibrio, si deduce che queste due pressioni sono uguali in modulo.

Si conclude, quindi, che la pressione atmosferica al livello del mare è uguale alla pressione idrostatica esercitata da una colonna di mercurio alta 76 cm.

A volte, spesso in campo medico, come unità di misura della pressione si utilizza il torr, in onore proprio dell’esperimento di Torricelli. Un atmosfera corrisponde a 760 torr, o anche 760 millimetri di mercurio.

L’esperimento  dipende dal tipo di liquido che si sceglie; infatti, se per esempio utilizzassimo l’acqua al posto del mercurio, la colonna di liquido all’interno del tubicino dovrebbe raggiungere un’altezza di 10 m per essere in equilibrio.

 

La misura della pressione atmosferica 

Dalla legge di Stevino sappiamo che la pressione si calcola dal prodotto del peso specifico del liquido per l’altezza che esso raggiunge.

Nel caso della colonnina di mercurio, abbiamo un’altezza di 76 cm, cioè 0,76 m, e il peso specifico del mercurio è di $133280 N/m^3$. Applicando la legge, quindi, possiamo trovare il valore della pressione atmosferica in Pascal:

$p = P_S * h = 133280 frac(N)(m^3) * 0,76 m = 101300 Pa$

Conoscendo il valore della pressione atmosferica, possiamo anche risalire al valore della forza che essa esercita su una determinate superficie di area A. La pressione, infatti, è data dal rapporto tra la forza e la superficie su cui essa è applicata, quindi dalla formula inversa si ha:

$ p = frac(F)(A)      to      F = p * A $

 

Esercizio

All’interno di un pallone agisce una pressione di 2 atm dovuta all’aria compressa presente al suo interno. Calcolare l’intensità della forza esercitata dall’aria che agisce su una porzione di pallone di area $1 cm^2$.

Come sappiamo, la pressione esercitata all’interno del pallone è la stessa in ogni suo punto. Quindi, anche in una porzione di $1 cm^2$ agirà la pressione di 2 atm. Per calcolare l’intensità della forza anche l’area produce in questa area è sufficiente applicare la formula precedente; ricordiamoci però di esprimere prima le grandezze nelle giuste unità di misura.

Ricordiamo, quindi, che $1 cm^2 = 10^-4 m^2$ e che 1 atm = 101300 Pa.

$ F = p * A = 2*101300 Pa * 1 * 10^(-4) m” = 202600 * 10^(-4) N = 20 N$

 

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Corrente e portata di un fluido

La portata di un fluido

Quando si studia il moto di un fluido è importante conoscere il tipo di corrente che lo caratterizza, cioè il suo modo di procedere, il movimento ordinato che esso compie.

Ad esempio, nel caso di un fiume la corrente è rappresentata dal suo modo di percorrere il letto scendendo verso valle.

Notiamo che quando si parla di corrente si fa sempre riferimento ad un moto ordinato; nel caso, ad esempio, di un sasso lanciato in acqua, gli schizzi che vengono prodotti non rappresentano una corrente.

Per descrivere l’intensità della corrente di un fluido si considera il rapporto tra il volume di fluido che, nell’intervallo di tempo considerato, attraversa una determinata sezione trasversale della conduttura in cui si trova. (La conduttura può essere un tubo all’interno del quale scorre il liquido, o nel caso di un fiume il suo letto.)

Tale rapporto prende il nome di portata del liquido (o del gas):

$ q = frac(∆V)(∆t)$

La portata di un liquido può essere costante nel tempo, qualunque sia la sezione della conduttura considerata; in questo caso la corrente si dice stazionaria.

Quando si lascia un rubinetto aperto, e non si agisce su di esse per modificare il flusso, il getto d’acqua che fuoriesce fornisce lo stesso volume di liquido in ogni secondo; perciò, in questo caso si ha una corrente stazionaria.

Nel momento in cui il rubinetto viene chiuso, la quantità di acqua che ne fuoriesce diminuisce in ogni secondo fino ad esaurirsi completamente; in questo caso, quindi, non si ha una corrente stazionaria.

 

L’equazione di continuità

La portata di un fluido è direttamente proporzionale sia all’area della sezione della conduttura, via alla velocità del fluido, secondo la seguente legge:

$q = S * v$

Ciò significa che possiamo avere la stessa portata di un fluido in due diverse situazioni:  in un tratto di conduttura piuttosto piccolo in cui il fluido si muove velocemente; oppure in un tratto di conduttura più ampio, in cui però la velocità del fluido è minore.

Una corrente, quindi, può essere stazionaria anche se la sua conduttura non è omogenea, ma presenta tratti più stretti e tratti più larghi; la condizione è che la sua portata sia costante nel tempo nei diversi tratti.

Una delle caratteristiche dei liquidi è il fatto che essi, nella maggior parte dei casi, sono incomprimibili;  il loro volume, cioè, non viene modificato anche nel caso in cui si applica una pressione su di essi.

Quando un liquido fluisce in una conduttura, il volume di liquido che si trova in una determinata sezione, fluendo attraverso essa, ne sposta una uguale quantità che si trova in un’altra sezione; il volume di liquido spostato, quindi, è lo stesso.

Sappiamo che l’area della conduttura attraverso la quale fluisce il liquido è inversamente proporzionale alla velocità con cui esso vi scorre. In particolare, considerando la portata del liquido costante in tratti diversi, possiamo stabilire la seguente relazione:

$S_A * v_A = S_B * v_B$

Dove con A e B indichiamo i tratti che stiamo considerando; $S_A$ e $S_B$ sono, quindi, le aree che il fluido attraversa; $v_A$ e $v_B$ le relative velocità del fluido quando passa attraverso quelle sezioni.

 

portata-fluidi
La portata di un fluido è differente a seconda della sezione del tratto di tubo che sta attraversando.

 

La relazione precedente prende il nome di equazione di continuità; essa ha validità solo nel caso in cui la conduttura esaminata non presenta sorgenti né pozzi, cioè se non sono presenti diramazioni o altre tubature che si immettono in essa.

 

Esercizio

Consideriamo un tubo di plastica all’interno del quale, nel tratto iniziale, in cui la sezione ha una raggio di 5,0 cm, l’acqua fluisce con una velocità di 1,5 m/s. Nel tratto finale il tubo si restringe, e il raggio della sezione misura 2,5 cm. Determinare la velocità dell’acqua nel tratto finale.

Il problema può essere risolto con l’equazione di continuità; possiamo, quindi, determinare le aree delle sezioni del tratto iniziale e in quello finale:

$S_i = 2πr_i = 2π*0,05 m = 0,31 m^2$

$S_f = 2πr_f = 2π*0,025 m = 0,16 m^2$

Applicando l’equazione, possiamo ricavare la velocità finale:

$S_i * v_i = S_f * v_f           to       v_f = frac(S_i * v_i)(S_f) = frac(0,31*1,5)(0,16) = 2,9 m/s$

 

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L’equazione di Bernoulli e l’effetto Venturi

L’equazione di Bernoulli

Quando un fluido si muove all’interno di una conduttura, può capitare che essa non sia regolare; ad esempio, esso può presentare restringimenti e allargamenti; oppure può essere per alcuni tratti orizzontale e per altri in discesa, può presentare delle curvature, ecc.

Tutti questi aspetti fanno si che studiare il moto del fluido risulti molto complicato; infatti, vi sono molte grandezze relative al fluido che si possono modificare in maniera repentina e difficile da prevedere.

Tra queste possono essere modificate la velocità del fluido, la pressione che esso esercita sulle pareti della conduttura, la quota a cui si trova.

Quando si studiano i fluidi, quindi, molto spesso si assume che il fluido in questione sia incompressibile, che la corrente sia stazionaria (cioè che la portata del fluido sia costante nel tempo) e si trascurano gli attriti del fluido con le pareti della conduttura e gli attriti interni.

Sotto queste ipotesi, Bernoulli formulò una legge che permette di relazionare la velocità, la pressione e la quota cui si trova un fluido:

$ p + 1/2dv^2 + dgy = cost$

Nella formula indichiamo con d la densità del fluido, con y la sua quota; g è l’accelerazione di gravità e vale $9,81 m/s^2$.

La formula prende il nome di equazione di Bernoulli.

L’equazione, quindi, afferma che in due posizioni diverse all’interno di una conduttura (che indichiamo con A e B), che differiscono per valori di velocità, pressione e quota del fluido, rimane in ogni caso costante quella particolare relazione che vi è tra le grandezze.

Abbiamo, quindi, la seguente uguaglianza:

$ p_A + 1/2dv_A^2 + dgy_A = p_B + 1/2dv_B^2 + dgy_B $

 

L’effetto Venturi

Esaminiamo il caso particolare in cui la conduttura sia orizzontale; per tutto il suo percorso, quindi, il fluido si troverà sempre alla stessa quota, e avremo quindi che $y_A$ = $y_B$ per ogni posizione.

La legge di Bernoulli, quindi, assume la seguente forma:

$ p_A + 1/2dv_A^2  = p_B + 1/2dv_B^2  $

Poiché la densità del liquido rimane la stessa, l’equazione mostra che se la pressione nel primo tratto (A) è maggiore di quella nel secondo tratto (B), necessariamente la velocità del fluido in A deve essere minore di quella in B.

Questo particolare effetto è noto come effetto Venturi.

Un esempio di applicazione dell’effetto Venturi è quello del nebulizzatore a bocca.

In questo caso l’aria che viene soffiata dalla bocca all’interno della cannuccia si comporta come un fluido incompressibile, e con il suo flusso aspira il fluido contenuto nel serbatoio; questo risale lungo il tubicino e viene poi nebulizzato all’estremità di esso.

Ciò accade perché dove il tubo si restringe la velocità dell’aria aumenta (equazione di continuità); dall’equazione di Bernoulli sappiamo che in tale zona la pressione dell’aria (p) è minore di quella atmosferica (p0) che agisce sulla superficie della vernice nel serbatoio. Per questo, la vernice viene aspirata verso l’alto e sprizzata fuori dal getto d’aria che incontra all’estremità del tubicino.

 

nebulizzatore-a-bocca
Esperimento del nebulizzatore a bocca.

 

Esercizio

Consideriamo una conduttura orizzontale all’interno della quale scorre dell’olio d’oliva, con densità $d = 920 kg/m^3$. La conduttura presenta due tratti diversi: nel primo tratto, quello più stretto, l’olio scorre con una velocità di 4,0 m/s, ed esercita una pressione di $5,1 * 10^4 Pa$. Nel secondo tratto, invece, la velocità dell’olio è di 2,0 m/s. Calcolare la pressione esercitata dall’olio nel secondo tratto.

Il problema può essere risolto con la legge derivante dall’effetto Venturi, in quanto la conduttura che stiamo considerando si trova in orizzontale, e quindi la quota del liquido in due tratti differenti è sempre la stessa. Indichiamo, quindi, con 1 il primo tratto e con 2 il secondo; abbiamo la seguente relazione:

$ p_1 + 1/2dv_1^2  = p_2 + 1/2dv_2^2  $

Dalla relazione precedente, possiamo ricavare il valore della pressione nel secondo tratto:

$p_2 = p_1 + 1/2dv_1^2 – 1/2dv_2^2$

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo il valore della pressione nel secondo tratto:

$p_2 = 5,1 * 10^4 + 1/2*920*4^2 – 1/2 *920*4^2 = 56520 Pa = 5,7 * 10^4 Pa$

In accordo con l’effetto Venturi, troviamo che la pressione nel secondo tratto, in cui il fluido si muove con velocità minore, è maggiore di quella nel primo tratto, deve invece la velocità dell’olio è maggiore.

 

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L’attrito nei fluidi e nell’aria

Introduzione

La presenza di un fluido in un recipiente fa si che i corpi che si muovano al suo interno risentano della sua presenza, e siano sottoposti ad una forza di attrito dovuta ad esso, l’attrito viscoso.

La viscosità di un fluido, quindi, indica la resistenza che il fluido oppone allo scivolamento; essa quindi oppone al moto dei corpi che si trovano all’interno del fluido.

Nell’esaminare il comportamento di un fluido, e l’attrito che esso può generare, supponiamo che la conduttura in cui esso si trova è regolare, e che il fluido proceda con una velocità relativamente bassa, così da non generare vortici e altri fenomeni che potrebbero rendere difficile il suo studio.

In queste condizioni, il moto del fluido viene definito in regime laminare; il fluido, cioè, si comporta come se fosse composto da soliti lamine che scorrono l’una sull’altra.

Quando il fluido scorre nella conduttura, la lamina che si trova nello strato più basso risente dell’attrito con la parete del recipiente, e il suo moto è rallentato; questo rallentamento viene trasmesso, sebbene con intensità minore, anche alle lamine degli strati superiori; così nel procedere il fluido presenta una situazione di questo tipo:

 

fluido
Rappresentazione di un fluido come se fosse composto da lamine.

 

 

Il coefficiente di viscosità

Dagli esperimenti effettuati, è stato possibile formulare una legge che esprime la forza necessaria per mantenere in moto uno strato di fluido come rapporto tra l’area della lamina moltiplicata per la velocità del fluido, e la densità di questo; tale rapporto, poi, è moltiplicato per una costante, detta coefficiente di viscosità, che dipende dal tipo di fluido e dalla sua temperatura.

$F = η * frac(S*v)(d)$

Il coefficiente di viscosità, come dice il nome stesso, sarà tanto maggiore quanto intense sono le forze di attrito interno del fluido.

Come sappiamo, un fluido oppone resistenza ai corpi che si muovono al suo interno; la forza di attrito che agisce su di essi dipende non solo dal tipo di liquido che stiamo considerando, ma anche dalla forza del corpo.

Per semplicità, consideriamo una sfera che si trova all’interno di un fluido. La forza di attrito viscoso cui essa è sottoposta è data dalla legge di Stokes:

$F_v = 6π*η * r * v$

dove η è il coefficiente di viscosità del fluido, v è la velocità con cui il corpo si muove all’interno di esso, e r è il raggio della sfera.

 

La caduta nell’aria

Anche l’aria genera una forza di attrito viscoso che si esercita sui corpi che si muovono in essa. Questo spiega, ad esempio, come mai le automobili da corsa sono più appiattite di quelle normali;  si cerca infatti di ridurre al minimo la superficie esposta al contatto dell’aria per ridurre l’attrito.

Anche un corpo in caduta libera è sottoposto alla forza di attrito viscoso dovuta all’aria; di conseguenza il suo moto dipende dalla composizione di due forze: la sua forza peso e la forza di attrito.

La forza di attrito tende ad aumentare mano a mano che aumenta la velocità del corpo in caduta, fino a raggiungere l’intensità della forza-peso, per poi mantenersi costante. Da questo momento, poiché le forze sono uguali in modulo, ma hanno verso opposto, la loro risultante è nulla, e il corpo scende a velocità costante, che prende il nome di velocità limite.

Anche in questo caso, il valore della velocità limite dipende da diversi fattori, fra cui anche la forma del corpo che è in caduta.

Per semplicità, vediamo il caso in cui il corpo in caduta sia una sfera di raggio r. Sapendo che la forza di attrito uguaglia la forza peso, possiamo scrivere:

$F_v = F_p$

Conoscendo l’espressione della forza di attrito viscoso per una sfera, dalla delle di Stokes, e sapendo che la forza peso si calcola come prodotto di massa per accelerazione di gravità, possiamo sostituire tali espressioni dell’uguaglianza precedente:

$F_v = F_p        to       6π*η * r*v = m*g$

Possiamo, ora, ricavare il valore della velocità limite per una sfera in caduta:

$v = frac(m*g)(6π*η*r)$

 

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Le leggi di Keplero

Fin dai tempi di Aristotele il modello cosmologico ritenuto esatto era quello che prevedeva la Terra al centro del Sistema Solare, e tutti i pianeti, compreso il Sole, che ruotavano attorno ad essa (modello geocentrico).

Nel corso del 1600, però, Niccolò Copernico propose un modello cosmologico che si basava sul fatto che il Sole si trovasse al centro del Sistema Solare, e i pianeti ruotassero attorno ad esso (modello eliocentrico).

Keplero, astronomo tedesco, perfezionò il modello eliocentrico proposto da Copernico, che presentava alcune lacune;  Copernico supponeva, infatti, che le orbite percorse dai pianeti fossero orbite circolari, il che non permette di spiegare completamente il moto dei pianeti attorno al Sole.

Le deduzioni di Keplero furono esposte in tre leggi, note appunto come leggi di Keplero.

 

Prima legge di Keplero

Keplero ipotizzò che le orbite dei pianeti attorno al Sole non fossero orbite circolari, ma orbite ellittiche; in particolare, il Sole si trova esattamente nella posizione di uno dei due fuochi di tale ellisse.

 

orbite-ellittiche
Le orbite dei pianeti attorno al Sole sono ellittiche, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi.

 

Ricordiamo che i fuochi sono punti interni all’ellisse tali che la somma delle distanze dei punti dell’ellisse da essi rimane costante.

Durante il suo moto, un pianeta può trovarsi in diverse posizioni rispetto al Sole: la posizione di maggior distanza dal Sole prende il nome di afelio, mentre quella di minor distanza viene detta perielio.

 

Seconda legge di Keplero

La seconda legge di Keplero afferma che il raggio vettore che determina la posizione di un pianeta (che parte, quindi, dal Sole e ha come estremo la posizione occupata dal pianeta) spazza aree uguali in tempi uguali.

 

 

raggio-vettore
Il raggio vettore spazza aree uguali in tempi uguali.

 

Questa legge ci suggerisce, quindi, che un pianeta si muoverà con velocità maggiore quando si trova nei pressi del perielio, ed è quindi più vicino al Sole, rispetto a quando esso si trova nell’afelio.

In riferimento al moto terrestre, possiamo notare che la primavera e l’estate, che si hanno quando la Terra si trova più lontana dal Sole, sono stagioni più lunghe dell’inverno e l’autunno, in quanto in quest’ultime la Terra è più vicina al Sole, e percorrerà la sua orbita con velocità maggiore.

 

La terza legge di Keplero 

Chiamiamo T il periodo di rivoluzione del pianeta attorno al sole, e con a il semiasse maggiore dell’ellisse.

La terza legge di Keplero afferma che il rapporto tra il quadrato del periodo di rivoluzione e il cubo del semiasse maggiore è costante:

$ frac(T^2)(a^3) = cost$

Quindi, sappiamo che il quadrato del periodo di rivoluzione è direttamente proporzionale al cubo del semiasse maggiore; quindi, all’aumentare della distanza di un pianeta dal Sole, aumenta il tempo che esso impiega a percorrere la sua orbita.

Il valore di tale costante dipende dal corpo celeste che stiamo considerando; ad esempio, i pianeti che orbitano attorno al cole possono avere costanti diverse dei satelliti che orbitano attorno ad un pianeta.

Poiché le orbite dei pianeti sono quasi circolari, spesso per comodità si approssimano le loro orbite alle circonferenze; nella terza delle, ad esempio, si sostituisce al semiasse maggiore il raggio della circonferenza.

 

Esercizio

Il periodo orbitale della Terra è di 365,26 d, e la distanza media Terra-Sole è di $1,50 * 10^11 m$. Sapendo che il periodo dell’orbita di Marte è di 686,98 d, calcolare la distanza media di Marte dal Sole.

 

Come abbiamo detto in precedenza, la terza legge di Keplero funziona anche se approssimiamo le orbite dei pianeti con delle circonferenze; per questo, è possibile considerare delle orbite circolari che hanno raggio uguale alla distanza media Pianeta-Sole.

Per prima cosa, trasformiamo i dati nelle giuste unità di misura, in quanto il periodo dei pianeti va espresso in secondi, e non in giorni:

$ 365,26 d = 365,26*24*06*60 s = 3,16 * 10^7 s$

$ 686,98 d = 686,98*24*06*60 s = 5,94 * 10^7 s$

Applicando la terza legge di Keplero ai dati relativi al moto terrestre, possiamo determinare il valore della costante:

$ frac(T_T ^2)(R_(T-S) ^3) = frac((3,16 * 10^7 s)^2)((1,50 * 10^11 m)^3) = $

$= frac(9,98 * 10^14 s^2)(3,38 * 10^33 m^3)= 2,95 * 10^-19 s^2/m^3 $

Applichiamo, ora, la terza legge di Keplero con i dati relativi a Marte, e ricaviamo la formula inversa per trovare il raggio dell’orbita (supposte circolare) attorno alla quale ruota il pianeta:

$ frac(T_M^2)(R_(M-S) ^3) = cost      to      R_(M-S) = root(3)(frac(T_M^2)(cost))$

Sostituiamo i dati trovati precedentemente:

$R_(M-S) = root(3)(frac(T_M^2)(cost)) =  root(3)(frac(35,28 * 10^14 s^2)(2,95 * 10^-19 s^2/m^3)) =$

$ = root(3) (11,96 * 10^33 m^3) = 2,29 * 10^11 m$

 

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La gravitazione

Sappiamo che i pianeti, ruotando attorno al Sole, non percorrono traiettorie rettilinee, ma percorrono delle orbite.

Viene spontaneo chiedersi, quindi, cos’ è che permette ai pianeti di rimanere lungo tale traiettoria, e di non uscirne fuori. Si deduce che sui pianeti agisca una forza che permette loro di mantenere tale moto.

Isaac Newton ipotizzò che questa forza fosse la stessa che è responsabile della caduta di una mela a Terra e che, in generale, attrae gli oggetti sulla superficie terrestre. Tale forza non è una caratteristica propria del pianeta Terra, ma si tratta di una forza attrattiva che si esercita tra due masse qualunque, che si trovano ad una certa distanza l’una dall’altra.

Egli riuscì a dimostrare che questa forza, che prende il nome di forza gravitazionale, è direttamente proporzionale alle due masse in questione, e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza; Newton espose tale concetto nella legge di gravitazione universale:

$ F_(1,2) = F_(2,1) = G * frac(m_1 * m_2)(r^2) $

dove $m_1$ e $m_2$ sono le masse dei corpi in questione, r è la distanza che li separa, $F_(1,2)$ e $F_(2,1)$ sono le forze attrattive che i corpi esercitano l’uno sull’altro.

Nella formula compare inoltre una costante G, che prende il nome di costante di gravitazione universale, e vale:

$G = 6,67 * 10^-11 * frac(N*m^2)(kg^2)$

Dalla legge di gravitazione universale notiamo che, tenendo fisse le masse, se la distanza tra i corpi diminuisce, la forza attrattiva che vi è tra essi aumenta; allo stesso modo, se la distanza tra i corpi è fissa, la forza aumenta se aumentano le masse (o anche semplicemente una massa).

Da notare che la legge di gravitazione universale permette di ricavare l’accelerazione di gravità presente sui pianeti.

Infatti, possiamo considerare la forza peso come caso speciale di forza attrattiva di due corpi: uno quello della Terra, e l’altro quello del nostro oggetto, ad esempio una mela.

La forza attrattiva tra essi è la seguente:

$F_P = G * frac(m * M_T)(R_T ^2) = m * (frac(G*M_T)(R_T ^2)) $

Sappiamo, dal secondo principio della dinamica, che una forza può essere espressa come il prodotto della massa del corpo su cui agisce per l’accelerazione che essa imprime a tale corpo ($F = m*a$); in particolare, nel caso della forza-peso l’accelerazione in questione è g, l’accelerazione di gravità: $F = m*g$.

Uguagliando le due scritture precedenti, abbiamo la seguente relazione:

$ g = frac(G*M_T)(R_T ^2)$

Conoscendo, quindi, il valore della costante G, la massa e il raggio terrestri, è possibile risalire al valore di g.

Notiamo che il valore di g è indipendente dalla massa del corpo che stiamo considerando; di conseguenza, anche se all’apparenza può sembrare strano, un blocchetto di cemento cade con la stessa accelerazione di una pallina di carta, se essi partono dalla stessa distanza rispetto al centro della Terra.

Da notare, poi, che non tutti i punti della superficie terrestre si trovano alla stessa distanza dal centro; ciò significa che in cima ad una montagna avremmo un’accelerazione di gravità leggermente minore rispetto ad una posizione al livello del mare.

 

Esercizio

Consideriamo due corpi di massa m1 = 140 kg, e m2 ignota. Sappiamo che i corpi stanno per scontrarsi, e quando si trovano alla distanza di 1,00m l’uno dall’altro, la forza di attrazione gravitazionale che vi è tra essi vale 1,71 μN. Calcoliamo la massa del secondo corpo.

Per determinare la massa m2 del secondo corpo possiamo applicare la legge di gravitazione universale, e ricavare da essa la formula inversa:

$ F = G * frac(m_1 * m_2)(r^2)      to      m_2 = frac(F*r^2)(G*m_1) $

Ricordiamoci, prima di sostituire i dati numerici, di esprimere le grandezze nelle giuste unità di misura; esprimiamo, quindi, la forza in Newton:

$ 1,71 μN = 1,71 *10^-6 N$

Possiamo ora determinare il valore di $m_2$:

$ m_2 = frac(F*r^2)(G*m_1) = frac(1,71 * 10^-6 N * (1,00 m)^2)(6,67 * 10^-11 * frac(N*m^2)(kg^2) * 140 kg) = 0,00183 * 10^5 kg = 183 kg $

 

 

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Il moto dei satelliti

I satelliti che orbitano attorno alla Terra restano in movimento grazie alle stesse leggi che governano il moto dei pianeti attorno al sole, cioè le leggi di Keplero. Le orbite dei satelliti sono orbite ellittiche, di cui la Terra occupa uno dei due fuochi.

Per semplicità, si considerano le orbite dei satelliti circolari, la Terra di forma sferica e massa uniforme, e il satellite come corpo puntiforme.

Il meccanismo con cui una satellite viene messo in orbita può essere spiegato considerando un razzo che viene sparato verso l’alto da un determinato punto della superficie terrestre.

Quando il razzo si trova ad una determinata distanza dalla superficie, esso spara orizzontalmente un proiettile, imprimendogli quindi una velocità che ha direzione perpendicolare a quella della superficie terrestre.

 

proiettile sparato perpendicolarmente alla normale alla superficie terrestre
Il proiettile viene sparato perpendicolarmente alla normale alla superficie terrestre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La velocità che viene impresa al proiettile è tale da permettere al proiettile di continuare ad orbitare attorno alla Terra senza cadere giù. Infatti, sebbene il proiettile è costantemente attratto dalla forza gravitazionale, la superficie sferica della Terra fa si che il proiettile riesca sempre a sfuggirli sotto, senza cadere su di essa.

Notiamo che la velocità che viene impressa inizialmente al proiettile deve avere un valore preciso, contenuto in un determinato intervallo possibile; una velocità maggiore o minore, rispetto a tale intervallo, non permetterebbe al proiettile di rimanere in orbita.

Le velocità ritenute possibili consentono al proiettile di compiere orbite paraboliche attorno alla superficie terrestre; inoltre, la minima velocità accettabile determina un orbita quasi circolare attorno alla Terra.

Con velocità minori il proiettile non riuscirebbe ad entrare in orbita, e ricadrebbe sulla sulla Terra.

Con velocità maggiori, invece, il proiettile sfuggirebbe all’attrazione gravitazionale, e la sua traiettoria è rappresentata da una curva iperbolica. Le traiettorie possibili iperboliche ed ellittiche sono infinite.

Vi è, inoltre, un caso particolare che è quello della velocità di fuga. La velocità di fuga è la velocità minima che permette ad un corpo di sfuggire all’attrazione gravitazionale, ed è tale che consente al corpo stesso di giungere a distanza infinita dal pianeta con la minima velocità, pressoché nulla.

Questa particolare velocità fa si che il corpo lasci l’orbita terrestre compiendo un moto rappresentato da una curva parabolica. A differenza delle altre curve, questa traiettoria è data da un solo valore preciso della velocità.

 

Traiettorie possibili di un satelllite intorno alla terra
Schema riassuntivo delle traiettorie: traiettorie iperboliche, paraboliche, orbite ellittiche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Velocità dei satelliti 

Dato che il satellite ruota attorno ad un pianeta su un’orbita che possiamo considerare circolare, deve necessariamente essere presente una forza centripeta che gli permetta di rimanere in moto.

$ F = m * frac(v^2)(R + h) $

Con R indichiamo il raggio del pianeta, e con h la distanza del satellite dalla sua superficie.

Questa forza centripeta coincide proprio con la forza gravitazionale che il pianeta esercita sul satellite stesso.

$ F = G * frac(m*M)((R + h)^2) $

Possiamo, quindi, uguagliare le due scritture e ricavare così il valore della velocità del satellite:

$m * frac(v^2)(R + h) = G * frac(m*M)((R + h)^2)       to       v = sqrt(frac(G*M)(R + h))$

Notiamo che la massa del satellite non influisce sulla sua velocità, che diminuisce, invece, con l’aumentare della sua distanza dalla superficie del pianeta.

 

Il periodo di rivoluzione di un satellite

Il periodo di un satellite è il tempo che esso impiega a compiere un giro completo attorno al pianeta. Nel caso di un moto circolare, sappiamo che il periodo è dato dal rapporto 2πr/v. Anche in questo caso, possiamo applicare tale formula, ma alla velocità v sostituiamo la formula della velocità del satellite trovata precedentemente:

$T = frac(2π(R + h))(v) = frac(2π(R + h))(sqrt(frac(G*M)(R + h))) = 2π * frac((R + h)^(3/2))(sqrt(G*M)) $

 

I satelliti geostazionari

Un satellite geostazionario è un satellite che appare fermo ad un osservatore che si trova sulla superficie terrestre. Ciò significa, quindi, che il satellite ruota attorno alla Terra con lo stesso periodo terrestre, impiegando cioè un giorno a compiere un giro completo.

Questo tipo di satelliti sono molto utilizzati in campo metereologico o per le comunicazioni; essi si muovono su un’orbita che si trova nello stesso piano dell’equatore, ad una distanza di 35 800 km dalla superficie terrestre.

 

 

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Dimostrazione delle leggi di Keplero

Keplero formulò le sue leggi, che spiegavano il movimento dei pianeti e dei satelliti, come leggi sperimentali, e non fornì, quindi, una dimostrazione concreta della loro veridicità.

Queste leggi possono essere spiegate ora per mezzo dei principi della dinamica e della legge di gravitazione universale.

 

Dimostrazione della prima legge di Keplero

Ricordiamo che la prima legge di Keplero afferma che i pianeti compiono attorno al Sole orbite ellittiche. Su un pianeta che orbita attorno al Sole agisce la forza di attrazione gravitazionale dovuta alle due masse.

Considerando la relazione $F = m*a$, è possibile dimostrare, attraverso procedimenti matematici che sfruttano le proprietà della legge di gravitazione universale, che le traiettorie possibili che un pianeta può compiere durante il suo moto sono solamente tre: l’ellisse, la parabola e l’iperbole.

Di conseguenza, poiché il pianeta compie un percorso chiuso attorno al Sole, esso si muoverà per forza compiendo una traiettoria ellittica o, come caso particolare, con traiettoria circolare.

 

Dimostrazione della seconda legge di Keplero

La seconda legge di Keplero, che afferma che il raggio vettore che collega il Sole con la posizione occupata dal pianeta spazza aree uguali in tempi uguali, può essere spiegata come conseguenza della conservazione del momento angolare.

Consideriamo la Terra quando occupa le posizioni di afelio e perielio rispetto al Sole, cioè quando si trova nelle posizioni di massima distanza e minima distanza da esso.

 

afelio-perielio
La Terra, rappresentata in blu, nelle posizioni di afelio e perielio, di massima e minima distanza dal Sole; $r_A$ e $r_P$ indicano i raggi vettore della posizione della Terra nei due casi.

 

Chiamiamo con $r_A$ la distanza Terra-Sole quando la Terra si trova nell’afelio, e $r_P$ tale distanza quando la Terra si trova nel perielio; chiamiamo inoltre con $v_A$ e $v_P$ le velocità della Terra in afelio e in perielio.

I momenti angolari della Terra nei due punti, come sappiamo, possono essere calcolati come prodotto vettoriale tra il raggio vettore Sole-Terra e la quantità di moto della Terra stessa; sapendo che in P e in A il vettore velocità è perpendicolare al raggio vettore, abbiamo che il modulo del momento angolare è semplicemente $L = M*v * r$, quindi nei due casi si ha:

$ L_P = M_T * v_P * r_P$

$ L_A = M_T * v_A * r_A$

Essendo noti la massa terrestre, la distanza Terra-Sole nell’afelio e nel perielio, e le rispettive velocità, è stato possibile calcolare il memento angolare nei due punti che, effettivamente, è risultato essere lo stesso.

Si può concludere, quindi, che nel perielio, dove il raggio è più piccolo, affinché L rimanga costante, deve necessariamente aumentare la velocità $v_P$; analogamente, nell’afelio, dove invece la distanza è maggiore, la velocità deve essere minore.

 

Dimostrazione della terza legge di Keplero 

La terza legge di Keplero ci fornisce la relazione

$ frac(T^2)(a^3) = cost $

dove T è il periodo di rivoluzione e a è la lunghezza del semiasse maggiore. Per dimostrare questa formula, ricordiamo che nel caso di un moto circolare uniforme (a cui può essere approssimato quello dei pianeti), la velocità è data dal rapporto $(2πR)/T$.

Abbiamo visto che, nel caso dei satelliti, o comunque dei pianeti in orbita, la velocità di percorrenza della traiettoria può essere calcolata come:

$ v = sqrt(frac(G*M)(R))$

Uguagliando le due espressioni noteremmo che il rapporto tra il quadrato del periodo e il cubo del raggio è effettivamente una quantità costante, che dipende dalla massa M, e che varia quindi da pianeta a pianeta.

$ sqrt(frac(G*M)(R)) = frac(2πR)(T)      to       frac(G*M)(R) = frac(4π^2R^2)(T^2)      to        frac(T^2)(R^3) = frac(4π^2)(G*M)$

 

Esercizio

Consideriamo il moto del pianeta Marte attorno al Sole; è noto che le distanze del pianeta dal Sole nel punto di afelio e nel punto di perielio sono, rispettivamente, $r_A = 2,46 * 10^11 m$ e $r_P = 2,05 * 10^11 m$. Calcolare il rapporto tra la velocità di Marte nel punto di afelio e quella nel punto di perielio.

Come abbiamo visto in precedenza, possiamo determinare la velocità di un pianeta in orbita attorno al Sole con la formula:

$ v = sqrt(frac(G*M)(R))$

Le velocità del pianeta nei punti di afelio e perielio, quindi, sono date da:

$ v_A = sqrt(frac(G*M)(r_A))$     ,      $ v_P = sqrt(frac(G*M)(r_P))$

Calcoliamo ora il rapporto tra $v_A$ e $v_P$:

$ frac(v_A)(v_P) = frac(sqrt(frac(G*M)(r_a)))(sqrt(frac(G*M)(r_P))) = sqrt(frac(G*M)(r_A) * frac(r_P)(G*M)) = sqrt(frac(r_P)(r_A))$

Notiamo, quindi, che il rapporto tra le velocità è indipendente dalla massa del pianeta, ma dipende solo dalla sua distanza dal Sole nei due punti. Sostituiamo i valori numerici:

$ frac(v_A)(v_P) = sqrt(frac(r_P)(r_A)) = sqrt(frac(2,05 * 10^11 m)(2,46 * 10^11 m)) = 0,91$

 

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Il campo gravitazionale

La legge di gravitazione universale garantisce che qualsiasi corpo dotato di massa esercita una forza su un altro corpo, anch’esso dotato di massa.

Ciò che è difficile spiegare, però, è come sia possibile che questo avvenga anche nel vuoto.

Infatti, tra i pianeti del sistema solare non è presente materia, ma vi è una regione di vuoto cosmico; attraverso il quale non è possibile trasmettere questo tipo di interazioni.

 

Le masse modificano lo spazio circostante

Per spiegare, quindi, l’esistenza di queste forze a distanza, si suppose che una qualsiasi massa che si trova in uno spazio è in grado di modificare lo spazio circostante semplicemente con la sua presenza.

Si intuisce che, se nello spazio è presente solo tale massa, non si possono notare gli effetti di tale deformazione; tuttavia, se sono presenti anche alti corpi, possiamo notare la deformazione dello spazio grazie agli effetti che questi subiscono.

Questa situazione viene descritta dicendo che la presenza di un corpo crea un campo gravitazionale nello spazio in cui si trova.

Per capire il concetto del campo gravitazionale, osserviamo un esempio.

Consideriamo una sfera che si trova al centro di un tappeto elastico; notiamo che la forza-peso che agisce sulla sfera fa si che il telo si avvalli a causa della sua presenza. La sfera, quindi, ha modificato lo spazio che vi era precedentemente.

Poniamo una sferetta più piccola (massa spia, o esploratrice, o di prova) sul bordo del telo; ci accorgiamo che essa non rimane ferma, ma tende a seguire la curvatura del telo, scivolando verso il centro, dove si trova la sfera più grande.

 

campo-gravitazionale
La sfera più piccola risente della modifica dello spazio da parte di quella più grande.

 

La massa di prova è una massa molto piccola rispetto a quella che crea il campo gravitazionale;  per questo la sua presenza non modifica il campo circostante.

Quindi, questa sferetta si muove non tanto perché è attratta dalla sfera più grande, ma perché risente della deformazione dello spazio che questa ha creato.

Per i pianeti desistemmo solare accade una cosa analoga; essi, quindi, non si muovono perché attratti da una forza gravitazionale verso gli altri pianeti, ma poiché si trovano in un campo gravitazionale creato dal Sole, che è la massa più grande.

 

Il vettore campo gravitazionale

Il vettore campo gravitazionale è una nuova grandezza che permette di studiare gli effetti del campo gravitazionale su una massa di prova; tale vettore è dato dal rapporto del vettore forza con la massa di prova m:

$ vec g = frac(vec F)(m) $

tale vettore non dipende dal valore della massa di prova, ma solamente dalle masse che creano il campo gravitazionale.

Consideriamo un campo gravitazionale generato da una massa M, all’interno del quale si trova una massa di prova m. Il vettore forza e il vettore campo gravitazionale hanno stessa direzione (retta che congiunge le due masse) e stesso verso (diretto da m a M):

 

campo-gravitazionale
La forza F agisce sulla massa m a causa del campo gravitazionale generato dalla massa M.

 

il modulo della forza gravitazionale che agisce sulle due masse è dato dalla legge di gravitazione universale:

$ F = G * frac(m*M)(r^2) $

Il modulo del vettore campo gravitazionale si ottiene dividendo il modulo della forza F per la massa di prova m:

$ g = frac(F)(m) = G * frac(M)(r^2) $

Il modulo di questo vettore è indipendente dalla massa di prova; esso dipende solo dalla massa M che genera il campo.

Inoltre, il modulo del vettore è inversamente proporzionale al quadrato della distanza; se consideriamo, quindi, una massa di prova molto distante da quella che genera il campo, essa risentirà poco della deformazione di esso.

I vettori campo gravitazionale diventano sempre più piccoli a mano a mano che ci si allontana dalla massa generatrice.

Da notare che, a causa dell’effetto del campo gravitazionale, quando una massa di prova si allontana dalla massa che genera il campo, la forza a distanza che agisce sulla massa non diminuisce in maniera istantanea; la diminuzione avviene con un ritardo che è proporzionale alla distanza che separa le due masse.

Questo fatto è spiegabile dalla presenza del campo gravitazionale; infatti, quando la massa m si allontana da M, vi è una variazione del campo gravitazionale, e la velocità con cui esso si propaga coincide con la velocità della luce. Il ritardo con cui diminuisce la forza è dato dal rapporto tra la distanza fra le masse e la velocità della luce:

$ ∆t = frac(r)(c) $

 

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Energia potenziale gravitazionale

La differenza di energia potenziale ∆U tra due punti A e B è definita come l’opposto del lavoro necessario per spostarsi dal punto A al punto B:

$∆U = U_B – U_A = – L_(A,B) $

Questa definizione può essere applicata anche al caso di una massa m puntiforme che viene spostata da un punto A a un punto B nello spazio, e subisce la forza gravitazionale dovuta alla presenza di una massa M. In questo caso, dalla legge di gravitazione universale, si può dimostrare che il lavoro compiuto dalla forza gravitazionale è dato dalla seguente differenza:

$ L_(A,B) = G * frac(m*M)(r_B) – G * frac(m*M)(r_A) $

dove $r_B$ e $r_B$ sono, rispettivamente, le distanze della massa M dai punti A e B; le quantità che compaiono nella formula rappresentano le energie potenziali gravitazionali nei punti B e A.

Notiamo che in questo caso, la differenza di potenziale tra i due punti si trova cambiata di segno:

$U_B – U_A = G * frac(m*M)(r_A) – G * frac(m*M)(r_B) $

Infatti, l’energia potenziale gravitazionale, per definizione, è una quantità negativa; finché i due punti che stiamo considerando sono sufficientemente vicini, l’energia potenziale gravitazionale è negativa, e abbastanza grande in modulo.

Mano a mano che i punti si allontanano, e r aumenta, il modulo di U si avvicina sempre più a zero, e il suo valore massimo viene raggiunto quando i due corpi si trovano a distanza infinita.

Il fatto che questa grandezza sia negativa può essere spiegato perché essa corrisponde al lavoro della forza gravitazionale per allontanare due masse m ed M a distanza infinita, e tale lavoro è negativo, in quanto la forza ha verso opposto a quello dello spostamento.

 

lavoro-contro-forza-gravitazionale
Il lavoro che si deve compiere per allontanare due masse m ed M è opposto alla forza di attrazione gravitazionale.

 

L’energia potenziale gravitazionale, quindi, viene definita nel seguente modo per due masse m e M:

$U = -G * frac(m*M)(r) + k$

Nella definizione è presente una costante k che dipende dalla scelta del livello zero di energia potenziale, che è arbitrario. Tuttavia, solitamente, per semplicità si pone k = 0, e quindi si sceglie come livello zero di energia potenziale il caso in cui le masse si trovino a distanza infinita.

In ogni caso, la differenza di energia potenziale tra due punti A e B è indipendente dalla scelta del livello zero, in quanto, quando si calcola la differenza tra due energie potenziali, la costante k si elimina.

 

La conservazione dell’energia meccanica

Come abbiamo già visto, l’energia meccanica, data dalla somma dell’energia cinetica e dell’energia potenziale di un corpo, in determinate condizioni si conserva.

Nel caso del moto dei pianeti, che avviene nello spazio, non vi sono forze di attrito che agiscono, in quanto i pianeti si muovono nel vuoto. Di conseguenza, anche in questo caso vale la conservazione dell’energia meccanica.

Questo consente di spiegare, ad esempio, la seconda legge di Keplero; infatti, quando un pianeta che orbita attorno al sole si trova in perielio, cioè alla minima distanza da esso, la sua energia potenziale è più grande di quella che avrebbe in afelio, poiché la distanza dal sole è minore; tuttavia, la sua energia cinetica è maggiore perché, come sappiamo, quando il pianeta è più vicino al sole si muove con velocità maggiore.

Il caso di un corpo che non è legato gravitazionalmente ad un pianeta è leggermente diverso.

Abbiamo già visto in precedenza che vi sono diversi tipi di traiettorie che un proiettile lanciato dalla superficie terrestre può seguire, in base alla velocità con cui viene sparato. Vi sono infinite possibilità per traiettorie ellittiche e iperboliche, e una sola per la traiettoria parabolica, che si ottiene quando la velocità del proiettile è la velocità di fuga.

In quest’ultimo caso accade che l’energia totale del proiettile in questione è nulla; infatti l’energia cinetica e l’energia potenziale gravitazionale hanno stesso modulo, ma segno opposto. Il proiettile avrà la minima velocità possibile che gli permette di sfuggire all’orbita del pianeta e di allontanarsi indefinitamente da esso.

Altrimenti, nel caso di velocità minori, come abbiamo visto, la traiettoria è di tipo ellittico, e l’energia totale del corpo è negativa; mentre per velocità maggiori si hanno traiettorie iperboliche, con energia totale positiva.

 

 

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Cifre significative e notazione scientifica

Cifre significative e notazione scientifica

Quando si effettuano misurazioni, in particolare modo misurazioni indirette, capita che il risultato che otteniamo sia un numero decimale, e che abbia molte cifre dopo la virgola.

Ovviamente, non possiamo riportarle tutte quando esprimiamo il risultato, quindi dobbiamo stabilire dei criteri per arrotondare il risultato alla cifra decimale più adatta.

Vediamo, quindi, quali sono i criteri per esprimere il risultato di una misurazione nel migliore dei modi.

 

Criteri di arrotondamento

Un numero decimale che contiene molte cifre dopo la virgola può essere arrotondato prendendo solo un certo numero di cifre, in base a come richiesto (per esempio una, due o tre cifre), per eccesso o per difetto.

Generalmente, si arrotonda per difetto se la cifra che segue l’ultima che dobbiamo prendere è minore di cinque.

Ad esempio, se dobbiamo arrotondare il numero decimale 2,5462443 alla terza cifra decimale, poiché la quarta cifra è due, arrotondiamo per difetto, e scriviamo 2,546.

Altrimenti, se la cifra successiva a quella cui dobbiamo fermarci è maggiore o uguale a cinque si arrotonda per eccesso.

Considerando il numero dell’esempio precedente, se dobbiamo prendere il valore con due cifre decimali, poiché la terza cifra è sei, arrotondiamo per eccesso, e scriviamo 2,55.

 

Cifre significative 

Quando esprimiamo una misura con il rispettivo errore, alcune cifre di quel valore sono certe, cioè esatte, perché non risentono dell’incertezza della misura; altre, invece, possono oscillare in un determinato intervallo, a seconda dell’errore corrispondente.

Ad esempio, se la nostra misura vale (345 ± 3) cm, la cifre delle decine e quella delle centinaia sono certe, mentre quella delle decine è incerta, perché può variare tra 2 e 8 (il risultato, infatti, può variare tra 342 cm e 348 cm).

 

cifre-significative
Esempio di grandezza che presenta due cifre certe e una cifra incerta.

 

Possiamo definire le cifre significative come il numero minimo di cifre che ci permettono di esprimere un risultato con la relativa precisione, ed in particolare sono le cifre certe e la prima cifra incerta.

Tutti i numeri sono cifre significative, ma dobbiamo fare attenzione quando abbiamo a che fare con gli zeri; si seguono infatti queste regole:

  • se gli zeri sono compresi tra altri numeri, come nel caso di 32004, si considerano come cifre significative;
  • se gli zeri si trovano all’inizio di un numero, come in 0,0032, non sono considerati cifre significative;
  • se gli zeri si trovano alla fine di un numero, allora:
    • se è presente la virgola, come in 320,0, tutti gli seri sono cifre significative;
    • se non è presente la virgola, come in 3200, non sono considerati cifre significative.

 

La notazione scientifica

La notazione scientifica permette di esprimere le misure di alcune grandezze in modo da poter essere utilizzata più facilmente. Infatti quando abbiamo a che fare con valori particolarmente grandi (distanze tra pianeti, numeri di particelle) o particolarmente piccoli (massa o distanze tra particelle elementari) è difficile fare operazioni, in quanto i valori sono composti da molte cifre.

Per questo, se esprimiamo i valori come prodotto di un coefficiente compreso tra 1 e 10, ed una potenza di 10, possiamo operare con molta facilità.

Ad esempio, il diametro del Sole misura 1 400 000 000 m, e possiamo esprimere questa misura come $1,4 * 10^9 m$.

Il diametro dell’atomo di idrogeno misura 0,000 000 0001 m, che può essere espresso come $ 1,0 * 10^10 m$.

In generale, la potenza del 10 che dobbiamo moltiplicare è uguale al numero di “salti” che fa la virgola quando ci spostiamo verso destra o verso sinistra nel numero.

 

Ordine di grandezza

L’ordine di grandezza di una misura ci permette di confrontare velocemente due grandezze, e stabilire quale di essa sia la più grande, o la più piccola.

Definiamo l’ordine di grandezza come la potenza del 10 che si avvicina maggiormente al valore della nostra misura.

Riprendendo gli esempi precedenti, sappiamo che il diametro del sole misura $1,4 * 10^9 m$, quindi il suo ordine di grandezza è $10^9 m$. Il diametro della Terra, invece, misura circa $1,3* 10^7$, quindi il suo ordine di grandezza è $10^7$. Possiamo asserire con facilità che  il Sole ha un diametro molto più grande del nostro pianeta.

 

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Le Forze

Le forze: introduzione

Generalmente, il concetto di forza richiama l’idea dello sforzo muscolare; questo ci permette di sollevare un oggetto pesante, di tendere una molla, di correre, o di trascinare un corpo.

Esistono, però, molti altri tipi di forze che provocano effetti sui corpi, e non sono legate allo sforzo muscolare, ad esempio la forza che spinge due magneti ad attrarsi.

Definiamo, innanzitutto, due tipi di forze, quelle di contatto e quelle a distanza:

  • le forze di contatto sono forze che si applicano quando due corpi vengono, appunto, in contatto tra loro; (ad esempio, la forza che esercitiamo per spostare un corpo, o la forza del vento che muove una bandiera);
  • le forze a distanza sono quelle forze che, invece, agiscono su due corpi a distanza; (la forza attrattiva tra due calamite, la forza di gravità);

Le forze possono essere applicate su oggetti in movimento, o su oggetti fermi, e quindi possono provocare effetti differenti sui corpi.

In particolare, una forza può cambiare la velocità di un corpo.

Ad esempio, spingendo una sfera inizialmente ferma, aumenteremo la sua velocità, poiché questa comincerà a muoversi; al contrario, se ci poniamo di fronte ad una sfera in movimento, ed esercitiamo una forza su di essa, provocheremo i suo arresto.

 

Le forze possono modificare la velocità di un oggetto
Le forze possono modificare la velocità di un oggetto

 

Le forze come vettori

Può capitare, però, che anche se si applicano delle forze ad un corpo, esso rimanga fermo. Ad esempio, nel gioco del tiro alla fune, se le squadre sono ben bilanciate e ognuna di esse tira la fune con la stessa forza, il fazzoletto centrale rimane fermo.

Questo accade perché sul corpo in questione agiscono più forze che si annullano, così che la risultante delle forze applicate sul corpo è nulla. Possiamo spiegare questo fenomeno perché la forza può essere descritta come vettore.

Per descrivere una forza, infatti, occorrono le seguenti informazioni:

  • la direzione, cioè la retta lungo la quale agisce la forza;
  • il verso, cioè l’orientazione, lungo la retta, verso la quale punta il vettore;
  • l’intensità, cioè la misura quantitativa della forza, che può essere ottenuta mediante uno strumento detto dinamometro. (Il dinamometro è costituito da un cilindro con una scala graduata, all’interno del quale è posta una molla; applicando una forza all’estremità della molla, questa si tende;  misurando l’entità dell’allungamento della molla si può risalire all’intensità della forza. Forze uguali, quindi, provocano allungamenti uguali);
  • il punto di applicazione, cioè il punto iniziale su cui viene applicata la forza.

 

vettore-forza
Intensità, direzione e verso del vettore forza.

 

Per spiegare, quindi, come mai un corpo può rimanere fermo nonostante vi si applichino delle forze, ricordiamo le proprietà della somma tra vettori; se le forze agiscono lungo la stessa direzione (come nel caso del tiro alla fune) la forza risultante è data dalla somma algebrica delle intensità delle relative forze; il segno di queste è dato dal loro verso; forze che hanno verso opposto hanno anche intensità di segno opposto.

Tornando all’esempio del tiro alla fune, le forze applicate possono essere schematizzate come segue:

 

forze-uguali-ed-opposte
Forze di uguale modulo e stessa direzione, ma verso opposto.

 

Se il punto centrale della corda rimane fermo, le due forze hanno la stessa intensità;  si ha quindi che la forza totale (risultante) è nulla:

$ F_R = F_1 + (-F_2) = 0 $

Nel caso in cui le forze non avessero la stessa direzione, possono essere sommate con il metodo punta-coda, o con il metodo del parallelogramma.

Nel sistema internazionale l’unità di misura della forza è il Newton (N); esso si definisce come l’intensità della forza-peso con cui la terra attrae un corpo di massa uguale a 102 g.

Possiamo esprimere il Newton anche con una definizione alternativa.

1 Newton corrisponde alla quantità di forza necessaria per imprimere ad un corpo di 1 kg un’accelerazione di un metro al secondo quadrato:

$1 N = frac (1 kg * m)(s^2) $

 

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